Quel lunedì gli Hennebeau avevano a pranzo i Grégoire con la figlia Cécile. Avevano anche deciso di fare una gita: dopo pranzo, Paul Négrel doveva far visitare alle signore un pozzo, il Saint-Thomas, che stavano lussuosamente rinnovando. Ma quella gita era solo un amabile pretesto, una trovata della signora Hennebeau per affrettare il matrimonio tra Cécile e Paul.
E improvvisamente quello stesso lunedì, alle quattro del mattino, era scoppiato lo sciopero. Quando il primo dicembre la Compagnia aveva applicato il nuovo sistema dei salari, i minatori erano rimasti tranquilli. Alla fine della quindicina, il giorno di paga, nessuno aveva fatto la minima protesta. Tutto il personale, dal direttore fino all’ultimo dei sorveglianti, credeva che la tariffa fosse stata accettata, e perciò quel mattino rimasero molto sorpresi di fronte a quella dichiarazione di guerra, che per tattica e compattezza sembrava rivelare una guida energica.
Alle cinque Dansaert svegliò il signor Hennebeau per avvisarlo che non era sceso nessuno al Voreux. Il villaggio Duecentoquaranta, che aveva appena attraversato, dormiva profondamente con le porte e le finestre chiuse. E non appena il direttore saltò giù dal letto, con gli occhi ancora gonfi di sonno, fu subissato di notizie: ogni quarto d’ora accorrevano messaggeri, e i telegrammi piovevano fitti come grandine sulla sua scrivania. All’inizio sperò che la rivolta si limitasse al Voreux, ma di minuto in minuto le notizie si aggravavano: al Mirou, a Crèvecoeur e al Madeleine si erano presentati solo gli stallieri; al Victoire e a Feutry-Cantel, i due pozzi più disciplinati, erano scesi solo due terzi degli uomini; solo il pozzo Saint-Thomas aveva gli operai al completo e sembrava non aver partecipato all’agitazione. Fino alle nove mandò telegrammi da tutte le parti, al prefetto di Lilla e agli amministratori della Compagnia, per avvertire le autorità e chiedere istruzioni. Intanto aveva mandato Négrel a fare il giro dei pozzi vicini per avere informazioni precise.
Di colpo al signor Hennebeau tornò in mente il pranzo. Stava per mandare il cocchiere ad avvertire i Grégoire che la gita era rimandata, quando fu trattenuto da un’esitazione, un’indecisione. Proprio lui che con qualche breve frase aveva appena preparato militarmente il suo campo di battaglia! Salì dalla signora Hennebeau, che stava finendo di farsi pettinare nel suo salottino da una cameriera.
«Ah, sono in sciopero…» disse lei tranquillamente, dopo che il marito l’ebbe informata. «E allora? A noi che importa… Non per questo smetteremo di mangiare, no?»
E si incaponì. Il marito cercò inutilmente di dirle che il pranzo sarebbe stato disturbato e che non avrebbero potuto visitare il Saint-Thomas. Lei trovava una risposta a tutto: perché sprecare un pranzo che era già sui fornelli? E quanto alla visita al pozzo, potevano sempre rinunciarci lì per lì, se quella passeggiata si fosse rivelata davvero un’imprudenza.
«E poi», continuò la signora Hennebeau, quando la cameriera fu uscita, «voi sapete perché ci tengo a ricevere quelle brave persone. Quel matrimonio dovrebbe interessarvi più delle sciocchezze dei vostri operai… Insomma, io lo voglio, non mi contrariate.»
La guardò, agitato da un leggero fremito, e sulla sua faccia dura e impenetrabile di uomo d’ordine si disegnò il segreto dolore di un cuore ferito. Lei, già troppo matura ma ancora splendida e desiderabile, con quella figura da Cerere indorata dall’autunno, era rimasta a spalle nude.
Per un istante lui dovette provare il brutale desiderio di possederla, di tuffare la testa tra quei seni, che lei metteva in mostra nella stanza tiepida, di un lusso intimo da donna sensuale, dove persisteva un irritante profumo di muschio. Ma indietreggiò, da dieci anni dormivano in stanze separate.
«E va bene», disse andandosene. «Non disdiciamo nulla.»
Il signor Hennebeau era stato nelle Ardenne. I suoi erano stati gli inizi difficili di un ragazzo povero, gettato orfano nelle strade di Parigi. Dopo aver seguito, tra mille difficoltà, i corsi della scuola mineraria, era partito a ventiquattro anni per la Grand-Combe come ingegnere del pozzo Sainte-Barbe. Tre anni dopo diventò ingegnere divisionario a Calais, nei pozzi di Marles, e fu lì che si ammogliò, sposando, grazie a uno di quei colpi di fortuna che rappresentano la regola per i funzionari delle miniere, la figlia di un ricco filandiere di Arras. Per quindici anni la coppia abitò in quella stessa cittadina di provincia, senza che nessun evento, neanche la nascita di un bambino, venisse a rompere la monotonia della loro esistenza. Una crescente irritazione rendeva sempre più distante la signora Hennebeau che, allevata nel rispetto del denaro, provava disprezzo per quell’uomo che guadagnava a stento uno stipendio medio e non appagava quelle vanità che lei aveva sognato in collegio. Lui, rigorosamente onesto, non faceva speculazioni, e se ne stava al suo posto, da bravo soldato. Il disaccordo era continuato a crescere, aggravato da uno di quei singolari malintesi della carne che raffreddano anche i più focosi: lui adorava sua moglie, lei era di una sensualità da bionda insaziabile, eppure dormivano separati, entrambi a disagio e subito offesi. Da allora lei ebbe un amante a sua insaputa. Il signor Hennebeau lasciò infine Calais per andare a occupare a Parigi un posto amministrativo, pensando che lei gliene sarebbe stata grata. Ma a Parigi, quella Parigi che lei aveva sognato sin dal tempo della sua prima bambola, e dove in otto giorni riuscì a scrollarsi di dosso il suo provincialismo, diventando di colpo elegante e lanciandosi in tutte le pazzie dispendiose dell’epoca, doveva consumarsi la loro definitiva rottura. I dieci anni che vi trascorse furono riempiti da una grande passione, un legame a tutti noto con un uomo che poi la lasciò, tanto che lei quasi ne morì. Quella volta il marito non aveva potuto far finta di non sapere e, dopo terribili scenate, si rassegnò, disarmato di fronte alla tranquilla incoscienza di quella donna, che coglieva la felicità dovunque la trovasse. Dopo quella rottura, vedendola distrutta dal dolore, accettò la direzione delle miniere di Montsou, sperando ancora che laggiù, in quel deserto di terre nere, potesse farla ravvedere.
Da quando abitavano a Montsou, gli Hennebeau erano tornati alla stizzosa noia dei primi tempi del loro matrimonio. All’inizio pareva che lei fosse sollevata da quella grande calma e trovasse conforto nella piatta monotonia di quell’immensa pianura. Si seppelliva lì, da donna ormai finita, mostrando di avere il cuore spento, a tal punto distaccata dal mondo che non le importava più neanche di ingrassare. Poi, sotto questa indifferenza, divampò un ultimo fuoco, un bisogno di vivere ancora, che per sei mesi riuscì a ingannare organizzando e arredando secondo il suo gusto la palazzina della Direzione. Diceva che era orribile, e così la riempì di arazzi, di gingilli e di lussuosi oggetti d’arte, tanto che se ne parlò fino a Lilla. Dopodiché, quelle terre cominciarono a esasperarla, quegli stupidi campi che si stendevano all’infinito, quelle eterne strade nere senza un albero, in cui brulicava una popolazione orrenda, che la disgustava e la spaventava. Iniziò a lamentarsi dell’esilio, accusando suo marito di averla sacrificata a uno stipendio di quarantamila franchi, una miseria che bastava appena a mandare avanti la casa. Non avrebbe dovuto imitare gli altri, esigere una partecipazione, ottenere delle, azioni, riuscire insomma in qualcosa? E insisteva con la durezza di un’ereditiera che ha portato in dote una fortuna. Lui, sempre corretto, si rifugiava nella sua ostentata freddezza di amministratore, ma in realtà era tormentato dal desiderio di quella creatura, uno di quei desideri tardivi che crescono in violenza con l’età. Non l’aveva mai posseduta da amante, ed era ossessionato dall’idea di averla lui una volta come si era data a un altro. Ogni mattina sognava di conquistarla la sera. Poi, quando lei lo guardava con quei suoi occhi freddi, quando sentiva che tutto in lei gli si ribellava, evitava persino di sfiorarle la mano. Era una sofferenza senza speranza di guarigione, nascosta sotto la rigidezza del suo atteggiamento, la sofferenza di un animo gentile che agonizzava in segreto per non essere riuscito a trovare la felicità nel suo matrimonio. Dopo sei mesi, quando la palazzina, ormai arredata completamente, non la tenne più impegnata, la signora Hennebeau sprofondò in una languida noia, dicendosi contenta di morire di quell’esilio che la stava uccidendo.
Fu allora che Paul Négrel arrivò a Montsou. Sua madre, vedova di un capitano della Provenza, che viveva ad Avignone di una piccola rendita, aveva dovuto accontentarsi di pane e acqua per farlo studiare fino al Politecnico. Ne era uscito con un posto statale di bassa categoria, e suo zio, il signor Hennebeau, gli aveva fatto da poco dare le dimissioni, offrendosi di prenderlo come ingegnere al Voreux. Da allora, trattato in casa Hennebeau come un figlio, ebbe una camera per sé, mangiò e visse lì, cosa che gli permise di inviare alla madre metà del suo stipendio di tremila franchi. Per mascherare questo favore, il signor Hennebeau spiegava a quali difficoltà andava incontro un giovane costretto a mettere su casa in uno di quei villini riservati agli ingegneri dei pozzi. La signora Hennebeau si mise subito a fare la parte della buona zia, dando del tu al nipote e badando che non gli mancasse nulla. Nei primi mesi soprattutto, assunse un’aria materna, riempiendolo di consigli anche per le minime cose. Ma rimaneva pur sempre una donna, e si lasciava andare a confidenze personali. Quel ragazzo così giovane e così pratico, con quella sua intelligenza spregiudicata, che professava in campo amoroso teorie da filosofo, la divertiva, grazie anche alla vivacità del suo pessimismo, che rendeva ancora più aguzza la sua faccia affilata dal naso appuntito. Naturalmente una sera lui si ritrovò tra le sue braccia. Lei sembrò concedersi solo per bontà, e continuò a dirgli di non poter più amare e di voler essere soltanto sua amica. E infatti, non si mostrava gelosa, lo prendeva in giro per le vagoniste, che lui definiva orrende, e gli faceva un viso mezzo imbronciato perché non aveva nessuna marachella giovanile da raccontarle. Poi si infervorò all’idea di trovargli la moglie. Sognò di sacrificarsi, di cederlo lei stessa a una ragazza ricca. I loro rapporti comunque continuavano. Si trattava di un giocattolo per distrarsi, su cui riversava le sue ultime tenerezze di donna annoiata e ormai finita.
Erano passati due anni. Una notte il signor Hennebeau, sentendo uno scalpiccio di piedi nudi vicino alla sua porta, ebbe un sospetto. Il pensiero di quella nuova avventura, in casa sua, sotto il suo tetto, tra quella donna e quel ragazzo, lo disgustava! Proprio il giorno dopo, la moglie gli parlò della scelta che aveva fatto di Cécile Grégoire per il nipote. Sembrava così piena di zelo per quel matrimonio che lui si vergognò delle sue mostruose fantasie, e continuò poi a mostrarsi riconoscente verso il giovane per il fatto che dal suo arrivo la casa era meno triste.
Mentre scendeva dal salottino della moglie, il signor Hennebeau trovò nell’ingresso proprio Paul che rientrava. Sembrava divertito per quella faccenda dello sciopero.
«Allora?» gli domandò lo zio.
«Allora ho fatto il giro dei villaggi. Sembrano tutti molto tranquilli… Credo che ti invieranno dei delegati.»
In quel momento giunse dal primo piano la voce della signora Hennebeau.
«Paul, sei tu?… Sali a darmi notizie. È buffo che quella gente che è così felice si metta a fare le bizze!»
E il direttore dovette rinunciare a saperne di più, perché la moglie gli soffiò il messaggero. Tornò a sedersi alla scrivania, dove si era accumulato un nuovo mucchio di telegrammi.
Quando alle undici i Grégoire arrivarono, rimasero sorpresi che Hippolyte, il cameriere messo di guardia, li spingesse dentro dopo aver gettato un’occhiata inquieta da un capo all’altro della strada. Le tende del salotto erano chiuse; furono fatti accomodare direttamente nello studio, dove il signor Hennebeau si scusò di riceverli in quel modo, ma il salotto dava sulla strada, e non era il caso di provocare quella gente.
«Come, non lo sapete?» continuò, vedendo la loro sorpresa.
Quando apprese che alla fine lo sciopero era scoppiato, il signor Grégoire alzò le spalle con la sua aria tranquilla. Bah! Niente di grave, era brava gente. Con un cenno del capo la signora Grégoire approvava la fiducia del marito nella rassegnazione secolare dei minatori, mentre Cécile, allegrissima quel giorno, sfavillante di salute nel suo vestito di panno arancione, sorrideva alla parola sciopero, che le ricordava le visite e le elemosine distribuite nei villaggi.
In quel momento apparve la signora Hennebeau, vestita di seta nera, seguita da Négrel.
«Oh, che noia!» esclamò dalla porta. «Come se non avesse potuto aspettare, quella gente!… Sapete che Paul non vuole portarci a Saint-Thomas?»
«Resteremo qui», disse cortesemente il signor Grégoire. «Sarà lo stesso un piacere.»
Paul si limitò a salutare Cécile e la madre. Irritata per la scarsa premura del nipote, la zia lo spinse con un’occhiata verso la ragazza, e quando li sentì ridere insieme, li avvolse in uno sguardo materno.
Il signor Hennebeau terminò di leggere i telegrammi e scrisse qualche risposta. Gli altri intanto chiacchieravano vicino a lui. La moglie spiegava che non si era occupata di quello studio, che infatti aveva ancora la sua vecchia carta da parati rossa sbiadita, i suoi pesanti mobili di mogano e i suoi schedari graffiati per l’uso. Passarono tre quarti d’ora. Stavano per mettersi a tavola, quando il cameriere annunciò il signor Deneulin. L’uomo entrò tutto agitato e fece un inchino alla signora Hennebeau.
«Oh! Siete qui?» disse, scorgendo i Grégoire.
E si rivolse animatamente al direttore.
«Ci siamo, allora, eh? Me l’ha appena detto il mio ingegnere… Da me gli uomini sono scesi tutti stamattina. Ma la cosa può estendersi. Non sono tranquillo… Insomma, a che punto siete?»
Si era precipitato lì a cavallo. Il suo vocione e i suoi gesti nervosi, che lo facevano assomigliare a un ufficiale di cavalleria in pensione, tradivano la sua inquietudine.
Il signor Hennebeau stava iniziando a informarlo esattamente sulla situazione, quando Hippolyte aprì la porta della sala da pranzo. Allora si interruppe per dire:
«Pranzate con noi. Continuerò a parlarvene al dessert».
«Come voi gradite», rispose Deneulin che, preso com’era dalla sua idea, accettò senza fare complimenti.
Si rese conto però di essere stato scortese, e si voltò verso la signora Hennebeau per scusarsi. La donna fu gentilissima con lui. Dopo aver fatto aggiungere un settimo coperto, fece accom...