Tokyo noir
eBook - ePub

Tokyo noir

  1. 180 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nishimura è un ladro. Passa le giornate camminando solitario per le strade di Tokyo senza che nessuno si accorga della sua presenza. Con la grazia di un ballerino compie la sua danza tra i corpi dei passanti. Una danza durante la quale la sua mano leggera sfila dalle tasche delle prede portafogli e preziosi. Le sceglie con cura, le sue vittime. Ha imparato a distinguere con un'occhiata i più ricchi tra la folla, quelli che possono permettersi di essere derubati. Vive solo, senza famiglia, con poche parole, lasciandosi trasportare dalla corrente dei giorni, distante da tutto, come se attraversasse le atmosfere ovattate di un sogno. Ma due incontri stanno per cambiare la sua vita. Il primo è con un ragazzino che scopre a rubare maldestramente del cibo in un supermarket. Lo specchio di un tempo lontano della sua vita. Un incontro che gli farà riscoprire la possibilità di avere un legame, segnando la nascita di un'amicizia strana e profonda tra il miglior borseggiatore di Tokyo e un bambino troppo solo. Il secondo incontro è quello con Kizaki, uno dei più grandi criminali giapponesi, il quale lo coinvolgerà in una serie di rapine, che sveleranno a poco a poco un disegno crudele e geniale, assolutamente imprevisto e imprevedibile. Nakamura Fuminori, nuovo enfant prodige della letteratura giapponese, debutta in Italia con un noir appassionante e sorprendente, capace di tenere il lettore incollato alla pagina, bilanciando alla perfezione le atmosfere metropolitane e misteriose di Tokyo, una trama avvincente piena di colpi di scena e personaggi che parlano al cuore. Un libro che ha avuto un'accoglienza entusiastica tanto in patria, dove ha venduto centinaia di migliaia di copie e si è meritato importanti elogi, tra cui quelli del Premio Nobel Kenzaburo Oe (che ha conferito a Tokyo noir il premio letterario a lui dedicato), quanto negli Stati Uniti, dove è stato scelto tra i libri dell'anno dal "Los Angeles Times" e dal "Wall Street Journal".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804647645
eBook ISBN
9788852061653

1

Da bambino combinavo sempre un sacco di pasticci. Puntualmente, gli oggetti che sgraffignavo nei negozi affollati e nelle case degli altri mi scivolavano di mano. Le cose altrui erano corpi estranei che mi mettevano a disagio. Prendevano a tremolare, acquisivano indipendenza e, quasi senza che me ne accorgessi, si lasciavano cadere al suolo, come a respingermi e a volermi ricordare che non avrei dovuto osare toccarli.
E in lontananza, immancabile, c’era la torre, un’ombra che fluttuava nella nebbia, simile a un antico sogno a occhi aperti. Ma adesso ho smesso di commettere errori. E la torre lontana è ormai scomparsa.
Davanti a me un tizio sulla sessantina si dirigeva verso i binari dell’alta velocità. Indossava un cappotto nero e stringeva un’elegante valigetta argentata nella mano destra. Tra tutte le persone che mi stavano intorno era di sicuro la più ricca. Il cappotto era firmato Brunello Cucinelli, come il vestito. Le scarpe Berluti, molto probabilmente fatte su misura, non mostravano il minimo segno di usura. Si vedeva lontano un miglio che si trattava di un uomo facoltoso, fiero di ostentarlo. L’orologio d’argento che spuntava dal polsino sinistro della camicia era un Rolex Datejust. Impiegò più tempo del dovuto ad acquistare il biglietto, forse perché non era abituato a viaggiare in treno da solo. Era chino in avanti, le dita tozze a indugiare sopra la tastiera del distributore automatico, simile a un insetto ripugnante. In quel preciso istante scorsi il suo portafogli nella tasca sinistra del cappotto.
Mantenendo una certa distanza, presi la scala mobile e mi avvicinai a lui con estrema calma. Mentre aspettava il treno mi piazzai alle sue spalle con un giornale in mano. Il cuore aveva iniziato ad accelerare il battito. Conoscevo a menadito l’ubicazione di tutte le telecamere della stazione. Dovevo portare a termine il lavoro in fretta, prima che il mio uomo salisse sul treno, perché avevo un biglietto che consentiva solo l’accesso ai binari. Mi spostai adagio verso destra, in modo da impedire la visuale alle persone da quel lato, poi ripiegai il giornale e lo passai nella mano sinistra. Quindi lo abbassai lentamente, in modo che fungesse da scudo, e infilai l’indice e il medio della mano destra nella tasca del tizio. Per un attimo una luce si riflesse nei bottoni metallici della manica del suo cappotto, guizzando ai margini del mio campo visivo. Feci un respiro profondo e strinsi il portafogli come una pinza, tirandolo su in un colpo solo. Un fremito improvviso mi si propagò dalla punta delle dita fino alla spalla e una sensazione di calore mi si diffuse a poco a poco in tutto il corpo. Mi sentivo sospeso in uno spazio vuoto, come se gli innumerevoli sguardi delle persone intorno a me si intersecassero senza raggiungermi. Vincendo la tensione, lasciai scivolare delicatamente il portafogli nel giornale piegato, che poi trasferii nella mano destra per inserirlo nella tasca interna del mio cappotto. Cercavo di respirare il più regolarmente possibile, consapevole che la mia temperatura corporea era in aumento. Mi guardai intorno muovendo solo gli occhi. Nelle dita avvertivo ancora la sensazione di aver toccato un oggetto estraneo, il disagio per aver invaso uno spazio altrui. Sentii una goccia di sudore freddo corrermi lungo la schiena, estrassi il cellulare dalla tasca e finsi di inviare un messaggio mentre mi allontanavo.
Mi diressi verso i tornelli automatici e scesi le scale grigie che conducevano alla linea Marunouchi della metropolitana. D’un tratto mi si offuscò la vista a un solo occhio ed ebbi l’impressione che la gente intorno a me ondeggiasse fino a trasformarsi in fievoli ombre. Quando raggiunsi la banchina, notai con la coda dell’occhio un tipo in abito scuro. Localizzai subito il suo portafogli, grazie al leggero rigonfiamento nella tasca posteriore destra dei pantaloni. A giudicare dal suo aspetto e dal contegno, sembrava uno di quei gigolò che lavorano nei club per sole donne. Fissava con aria dubbiosa il display del suo telefonino, mentre percuoteva freneticamente i piccoli tasti con le dita affusolate. Presi il suo stesso treno, studiando attentamente il flusso della folla, e mi piazzai giusto alle sue spalle, nel vagone afoso e stipato. Quando il nostro sistema nervoso riceve simultaneamente stimoli deboli e forti, tende a ignorare i primi. Sulla tratta della metro che ci apprestavamo a percorrere c’erano due grandi curve, dove il treno dava sistematicamente un paio di lunghi e violenti scossoni. L’impiegato dietro di me era immerso nella lettura dell’edizione serale di un quotidiano, che aveva piegato con cura per non dare fastidio agli altri passeggeri, mentre le due signore di mezza età alla mia destra erano impegnate a sparlare di chissà chi ridacchiando fino a mostrare i denti e le gengive. Ero io l’unica persona che non si stava semplicemente spostando da un punto all’altro della città. Girai il dorso della mano verso il tale dall’abito scuro e artigliai il suo portafogli con due dita. Gli altri passeggeri formavano una barriera intorno a me, a destra e a sinistra. Due fili gli pendevano dalla tasca dei pantaloni, attorcigliati tra loro a formare delle spire simili a quelle di un serpente. Non appena il treno diede il primo scossone, mi appoggiai con il petto contro la sua schiena e nello stesso istante, trattenendo il fiato, estrassi il portafogli seguendo un asse immaginario in perfetta verticale. La tensione compressa dentro di me si librò nell’aria. Ripresi a respirare regolarmente e fui percorso da un calore rassicurante. Poi, senza muovermi, controllai l’atmosfera nel vagone: tutto bene, niente sembrava essere fuori posto. Del resto quello per me era un gioco da ragazzi, non avrei mai potuto sbagliare un lavoro simile. Scesi dal treno alla stazione successiva e mi dileguai in fretta, stringendomi nelle spalle come se avessi freddo.
Mi unii alla folla abulica e oltrepassai i tornelli. Gettando una rapida occhiata alla quindicina di uomini e donne molto ordinari in attesa fuori dalla stazione, mi venne spontaneo calcolare che nei loro portafogli ci dovessero essere in tutto circa duecentomila yen. Mi incamminai lungo il marciapiede e mi accesi una sigaretta. Accanto a un palo del telefono sulla sinistra notai un uomo controllare in bella vista il contenuto del suo portafogli, che poi infilò nella tasca destra del giubbotto bianco. Aveva i polsini anneriti e le scarpe da ginnastica sudice, solo il tessuto dei blue-jeans era di buona qualità. Lo lasciai perdere ed entrai nei grandi magazzini Mitsukoshi. Al piano dedicato all’abbigliamento maschile, pieno di negozi di firme, mi soffermai a guardare una vetrina dove erano esposti alcuni manichini con completi costosi, adatti a giovani benestanti tra i venti e i trent’anni. Io e quei manichini eravamo vestiti suppergiù alla stessa maniera. Non mi interessava la moda, per me un abito valeva l’altro, solo che nel mio campo bisognava stare molto attenti a ciò che indossavi, non dovevi farti notare. Anzi, a essere precisi, dovevi apparire agiato e distinto, di modo che nessuno potesse sospettare di te. In altre parole, eri obbligato a vestirti di menzogne, dovevi essere capace di amalgamarti al meglio con l’ambiente dove agivi, fingendo, simulando. L’unica differenza tra me e quei manichini erano le scarpe. Le mie erano da ginnastica, a ricordarmi che dovevo essere sempre pronto a scappare, in qualsiasi momento.
Approfittai del calore all’interno per sgranchirmi le dita, aprendo e chiudendo ripetutamente le mani nelle tasche del cappotto. Il fazzoletto bagnato che utilizzavo per inumidirle era ancora freddo. Io ho l’indice e il medio pressappoco della stessa lunghezza: non so se sono nato così o se le mie dita si sono modellate col tempo. I ladri che hanno l’anulare più lungo dell’indice di solito usano il medio e l’anulare. Alcuni addirittura afferrano e prelevano l’obiettivo con tre dita: indice e anulare, il medio dietro a sostegno. Esiste un modo ideale per muovere e maneggiare ogni tipo di oggetto, ed è dunque ovvio che ci sia anche un movimento ideale e perfetto per estrarre un portafogli da una tasca. Non è solo una questione di angolo e posizione, ma anche di velocità. Ishikawa amava parlare di questo genere di cose, soprattutto quando beveva un bicchiere di troppo e diventava loquace e avventato come un ragazzino. Non avevo idea di dove fosse e cosa stesse facendo in quel momento. Ma immaginavo che fosse già morto.
Mi rifugiai in uno dei bagni, chiusi la porta a chiave e indossai un paio di guanti sottili. Come sempre, sotto una luce fioca, ero pronto a ispezionare il bottino. Mai farlo nelle toilette della stazione era la mia prima regola, per evitare di essere troppo vicini al luogo del delitto. Il portafogli del tizio elegante col cappotto conteneva novantaseimila yen in contanti, tre banconote da cento dollari, una carta di credito Visa Gold, un’American Express Gold, una patente di guida, la tessera di una palestra e la ricevuta di un ristorante per un importo pari a settantaduemila yen. Infine, in uno scomparto interno, trovai anche una sorta di membership card di plastica variopinta e cangiante, ma priva di numero o scritta. Non era la prima volta che ne vedevo: consentiva l’accesso ad alcune esclusive case di appuntamento. Nel portafogli del gigolò c’erano cinquantaduemila yen, una patente di guida, una carta di credito Mitsui Sumitomo, la tessera del videonoleggio Tsutaya e quella di un manga kissa, diversi biglietti da visita di ragazze di club a luci rosse e una montagna di foglietti, scontrini, ricevute e roba simile. C’erano anche alcune pasticche colorate con sopra stelline e cuoricini. Come al solito, presi solo i soldi e lasciai dentro tutto il resto. Un portafogli rivela sempre la personalità e lo stile di vita del suo possessore. Come il cellulare, il portafogli è al centro della vita di una persona e costituisce il nucleo dei suoi segreti, quelli che ognuno porta con sé. Non mi sono mai preoccupato di rivendere le carte di credito, perché richiederebbe ulteriore lavoro e sarebbe troppo complicato. Come tutte le altre volte, così come avrebbe fatto Ishikawa, mi rimisi in tasca i due portafogli dopo aver cancellato con cura le mie impronte, pronto a infilarli nella prima buca delle lettere che mi fosse capitata. L’ufficio postale avrebbe provveduto a farli recapitare alla polizia, che a sua volta li avrebbe spediti all’indirizzo indicato sulla patente. Il povero gigolò avrebbe avuto guai seri con la giustizia a causa delle pasticche colorate, ma il problema non era mio.
Mentre mi apprestavo a uscire dal bagno, sentii qualcosa di strano in una delle tasche interne del cappotto. Preoccupato, richiusi la porta a chiave e guardai: ci trovai un portafogli in cuoio, di Bulgari. Conteneva duecentomila yen in banconote nuove di zecca, diverse carte di credito gold e alcuni biglietti da visita del presidente di una società di intermediazione mobiliare. Non avevo mai visto quel portafogli, né conoscevo il nome stampato sui biglietti da visita.
“Non è possibile, di nuovo!” pensai. Per quanto provassi a fare mente locale, non ricordavo di aver rubato quel portafogli. Era un mistero. Ma si trattava decisamente del pezzo più pregiato della giornata.

2

Afflitto da un leggero mal di testa, mi lasciavo sballottare dai movimenti irregolari di un treno affollato diretto all’aeroporto di Haneda. Tra il riscaldamento troppo alto e i corpi degli altri passeggeri, stavo grondando sudore. Guardavo fuori dal finestrino, muovendo incessantemente le dita dentro le tasche del cappotto. Gruppi di squallidi e anonimi palazzi passavano veloci a intervalli regolari, come se seguissero un disegno preciso. D’un tratto ricordai l’ultimo portafogli che mi era capitato tra le mani il giorno precedente. Il tempo di battere le palpebre e l’immagine di un’enorme torre di ferro mi si stagliò davanti, accompagnata da un rumore assordante. Durò solo per un attimo, ma sentii ugualmente tutti i muscoli del corpo irrigidirsi. La torre era altissima e sembrava che mi osservasse mentre me ne stavo fermo in quel treno affollato.
Quando tornai a guardarmi intorno, scorsi un uomo totalmente assorto in qualcosa. Con gli occhi socchiusi, quasi fosse in trance, stava palpeggiando una ragazza. Ho sempre pensato che gli uomini di quel tipo si dividono in due categorie: persone comuni con tendenze perverse e individui divorati dalla perversione al punto che il limite tra realtà e fantasia diventa indistinto e alla fine scompare. Qualcosa mi diceva che il tizio nel vagone apparteneva alla seconda categoria. In breve mi resi conto che la ragazza era un’indifesa studentessa delle medie e a poco a poco mi aprii un varco tra la folla, intenzionato a soccorrerla. A parte lei, me e quello sporco depravato, nessuno sembrava essersi accorto di nulla.
Mi avvicinai alle spalle dell’uomo e gli afferrai il polso sinistro con la mano sinistra. I suoi muscoli si contrassero all’istante e vibrarono per un paio di secondi, poi li sentii infiacchirsi in un sol colpo, come dopo una violenta scossa elettrica. Continuando a serrargli il polso, con l’indice gli tenni ben fermo l’orologio e con il pollice ne sganciai il cinturino facendomelo scivolare dentro la manica del cappotto. Poi, con le dita della mano destra, afferrai il suo portafogli nella tasca interna destra della giacca e cominciai a tirarlo fuori. Ma rendendomi conto che rischiavo di venire in contatto con il suo corpo, cambiai strategia e lasciai cadere a piombo il portafogli nello spazio tra la giacca e la camicia, per agguantarlo al volo dal basso con la mano sinistra. Quel tizio sembrava un impiegato fra i trentacinque e i quarant’anni e, a giudicare dalla fede, doveva essere anche sposato. Gli afferrai di nuovo il braccio, stavolta con la mano destra. Era sbiancato in viso e stava tentando di voltarsi verso di me, torcendo il collo mentre era scosso dai continui movimenti del treno in corsa. Intanto la ragazzina, accortasi che la situazione alle sue spalle era mutata, mosse impercettibilmente il capo, incerta se girarsi o no. Il vagone era silenzioso. Adesso l’uomo stava cercando di aprire la bocca per dire qualcosa, come se volesse giustificarsi con me, o con il mondo. Sembrava quasi che una luce malevola lo illuminasse dall’alto, attirando l’attenzione sulla sua esistenza. La sua gola emise una specie di rantolo sordo, come se stesse per gridare. Rivoli di sudore gli solcavano le guance e la fronte, e i suoi occhi erano spalancati ma persi nel vuoto. “Forse” pensai in quell’istante “se un giorno mi prenderanno, avrò la stessa espressione.” Mollai la presa al braccio, mi avvicinai fino a sfiorargli il volto e mimai con le labbra: “Vattene!”. Ma lui rimase immobile, incapace di prendere qualsiasi decisione, il viso stravolto in una smorfia di terrore. Allora gli indicai le porte più vicine con un cenno del capo e lui, tremando come una foglia, finalmente si rigirò in avanti, quasi avesse realizzato solo in quel momento che lo stavo guardando negli occhi. Il treno raggiunse una stazione e le porte si aprirono. Senza attendere un attimo di più, il tizio si precipitò fuori di corsa, sgomitando e spingendo gli altri passeggeri come un forsennato.
Non appena il treno fu ripartito, la ragazzina si girò verso di me e prese a fissarmi. Distolsi subito lo sguardo, cercando di reprimere il mio disgusto e di dimenticare tutto in fretta. Avevo rubato un orologio e un portafogli che non desideravo, inoltre l’uomo e la ragazzina mi avevano visto chiaramente in volto. La mia unica consolazione derivava dalla certezza che quel maniaco non si sarebbe mai sognato di denunciarmi.
Stanco e depresso, scesi alla stazione successiva. Sulla scala mobile adocchiai il viso apatico e distratto di un signore benestante di mezza età, ma lo lasciai perdere. Preferii uscire all’aperto e riposarmi appoggiato a un muro lurido e nero. A poco a poco sentii la tensione scivolare via dal corpo. Mi riscaldai le mani nelle tasche e pensai di prendere un taxi. Ma poi avvertii una presenza alle mie spalle, mi voltai e, appoggiato allo stesso muro, a circa un metro da me, scorsi un tizio magro come un chiodo. Indossava un completo nero e scarpe di pelle dello stesso colore di cui non ero in grado di indovinare la marca. “Ma è Tachibana!” esclamai dentro di me dopo qualche istante, riconoscendolo. Colto alla sprovvista, dovetti faticare non poco per mantenere il controllo e non farmi prendere dal panico. I suoi capelli, che in passato erano tinti di biondo, adesso erano castani. Fissandomi con gli occhi stretti, contrasse leggermente le labbra carnose. Poteva essere un mezzo sorriso, ma non ne ero sicuro.
«Non rubavi solo ai ricchi?» mi chiese, girandosi con tutto il corpo verso di me. Probabilmente Tachibana non era il suo vero nome, ma ero piuttosto sicuro che lui conoscesse il mio. Sapevo che presto o tardi lo avrei incontrato di nuovo, ma mi aspettavo che sarei stato io a notarlo per primo. Mentre vecchi ricordi mi inondavano la mente, trassi un lungo respiro e mi preparai ad affrontarlo.
«Sì, certo.»
Avrei voluto dirgli qualcos’altro, ma mi uscì solo quella risposta breve e scontata.
«Che cosa triste e noiosa! Comunque, non credo che i ricchi prendano il treno. Un farabutto del tuo calibro non dovrebbe porsi alcun limite.»
«E questo chi lo dice? Preferisco fare solo quello che mi va... Quindi ce l’hai fatta, sei sopravvissuto?»
«Direi di sì, te l’avevo detto che prima o poi ci saremmo rivisti. Anche se sono stato io a beccarti.»
«Da quant’è che mi segui?»
«Dall’inizio. Da quando hai preso il treno e hai fregato il portafogli a quel bastardo depravato. Non riesco a credere che non ti sia accorto che ti stavo pedinando. Sono sorpreso, non è da te.»
Iniziai a camminare e lui mi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. Post scriptum
  22. Glossario
  23. Copyright