Satterthwaite non avrebbe mai saputo dire con certezza che cosa lo spingeva ad andare dai Denman. Non erano persone del suo genere, non appartenevano né al gran mondo né ai più interessanti circoli artistici. Erano persone piuttosto grossolane e oltre tutto anche noiose. Satterthwaite li aveva conosciuti a Biarritz, aveva accettato un invito, era stato in casa loro, si era annoiato, eppure – per quanto strano potesse sembrare – c’era tornato più volte.
Perché? Satterthwaite si stava ponendo questa domanda il 21 giugno, mentre usciva velocemente da Londra nella sua Rolls Royce.
John Denman era un uomo di quarant’anni, dalla buona posizione, rispettato nel mondo degli affari. I suoi amici non erano amici di Satterthwaite, le sue idee ancor meno. Era un uomo intelligente nel ramo in cui era competente, ma privo di immaginazione appena se ne usciva.
“Perché sto facendo questo?” Satterthwaite se lo chiese una volta di più, e l’unica risposta che trovò gli parve talmente vaga e assurda che fu lì lì per accantonarla. Perché l’unica ragione cui aveva pensato era il fatto che una delle stanze della casa (una casa accogliente, appena arredata) stimolava la sua curiosità. Quella stanza era il salotto della signora Denman.
Era difficile asserire che fosse un’espressione della sua personalità, perché, a quanto poteva giudicare lui, era una donna completamente priva di personalità. Non aveva mai conosciuto un’altra donna tanto insignificante. Sapeva che era russa di nascita. John Denman era stato in Russia allo scoppio della Prima guerra mondiale, aveva combattuto con le truppe russe, si era salvato per un pelo allo scoppio della Rivoluzione e aveva portato con sé codesta ragazza russa, una profuga senza un soldo. Malgrado la violenta opposizione dei genitori, l’aveva sposata.
Il salottino della signora Denman non era interessante. Era arredato bene con ottimi mobili in stile Hepplewhite, e aveva un’atmosfera più mascolina che femminile. Però vi si trovava un elemento stridente, un paravento cinese in lacca, un oggetto nei toni giallo crema e rosa pallido. Qualsiasi museo sarebbe stato felice di possederlo. Era un pezzo da collezionista, raro e stupendo.
Risaltava in quell’ambiente quieto, senza frivolezze, anglosassone. Avrebbe dovuto essere la nota dominante della stanza e tutto il resto si sarebbe dovuto trovare delicatamente in armonia con questo. Eppure Satterthwaite non si sentiva di accusare i Denman di mancanza di gusto. Ogni altra cosa in casa loro era in perfetta fusione di accordi.
Scosse la testa. Quella faccenda, per quanto sciocca fosse... lo lasciava perplesso. Era proprio a motivo di quell’oggetto (era la sua sincera convinzione) che era tornato ripetutamente in quella casa. Forse si trattava di una fantasia femminile, ma era una soluzione che non lo soddisfaceva quando pensava alla signora Denman, una donna quieta, dai lineamenti duri, che parlava l’inglese tanto bene che nessuno avrebbe mai immaginato che fosse straniera.
La macchina raggiunse la sua destinazione e lui ne scese, con la mente ancora rivolta al problema del paravento cinese. La casa dei Denman si chiamava Ashmead, e occupava poco più di due ettari di Melton Heath, che si trova a quarantacinque chilometri circa da Londra, a centocinquanta metri sul livello del mare, ed è in massima parte abitata da persone con vistosi redditi.
Il maggiordomo ricevette Satterthwaite affabilmente. I signori Denman erano tutt’e due alla prova di uno spettacolo, e si auguravano che il signor Satterthwaite si sarebbe sentito a proprio agio, e comportato come se fosse a casa propria, fino al loro ritorno.
Satterthwaite annuì e andò a passeggiare in giardino. Dopo aver esaminato brevemente le aiuole fiorite, si diresse senza fretta verso un viale ombreggiato attraverso il quale raggiunse una porticina incassata nel muro. Non era chiusa a chiave e la varcò venendosi a trovare in uno stretto sentiero.
Satterthwaite guardò a destra e poi a sinistra. Era un sentiero delizioso, ombreggiato e verdissimo, con alte siepi, un viottolo agreste pieno di svolte secondo lo stile antico. Ricordò l’indirizzo stampato sulle buste delle lettere – “Ashmead, Sentiero di Arlecchino” – e ricordò anche il nome che gli dava la gente del posto.
«Il Sentiero di Arlecchino» mormorò sommessamente a se stesso. «Mi chiedo...»
Girò un angolo.
Al momento non gli venne in mente, ma, in seguito, si chiese come mai questa volta non avesse provato sorpresa nell’incontrare quel suo misterioso e sfuggente amico che si chiamava Harley Quin. I due uomini si strinsero la mano.
«Dunque è qui anche lei» disse Satterthwaite.
«Sì,» disse Quin «abito nella stessa casa nella quale sta anche lei.»
«Lì?»
«Sì. La sorprende?»
«No» disse lentamente Satterthwaite. «Solo che... be’, lei non si ferma mai a lungo in nessun posto, vero?»
«Soltanto quanto è necessario» disse Quin in tono grave.
«Capisco» disse Satterthwaite.
Camminarono in silenzio per qualche minuto.
«Questo sentiero...» cominciò Satterthwaite e si fermò.
«Mi appartiene» disse Quin.
«Lo pensavo, infatti» disse Satterthwaite. «In certo qual modo ho pensato che dovesse essere così. Però ha anche un altro nome locale. Qui lo chiamano il Sentiero degli Innamorati. Lo sapeva?»
Quin annuì. «Però» disse con gentilezza «vi è certo un Sentiero degli Innamorati in ogni villaggio.»
«Suppongo di sì» disse Satterthwaite e si lasciò sfuggire un lieve sospiro.
D’un tratto provò la sensazione di essere troppo vecchio, messo in disparte, un ometto rinsecchito e rugoso, all’antica. Di fianco a lui, ovunque, c’erano le siepi, verdissime e piene di vita.
«Mi chiedo dove finisce questo sentiero?» chiese all’improvviso.
«Finisce... qui» disse Quin.
Imboccarono l’ultima curva. Il sentiero finiva in un’estensione di terreno incolto e, quasi ai loro piedi, si spalancava una grande cava. Lì in fondo scintillavano al sole scatole di latta (mentre altre erano diventate troppo rossicce di ruggine per scintillare), vecchi stivali, pezzi di carta di giornale, e cento altre cose di vario genere che non potevano più servire a nessuno.
«Un immondezzaio» esclamò Satterthwaite e sospirò profondamente, con aria indignata.
«Qualche volta si trovano cose magnifiche in un immondezzaio» disse Quin.
«Lo so, lo so» esclamò Satterthwaite e, con una lieve sfumatura di imbarazzo, citò: «“Portami le due cose più belle della città, disse Iddio.” La conosce vero?».
Quin annuì.
Satterthwaite contemplò le rovine di una villetta appollaiata sull’estremità di uno sperone di roccia.
«Non si può dire davvero che sia un bel panorama per una casa» disse.
«Credo che, a quell’epoca, qui non ci fosse un immondezzaio» disse Quin. «Mi sembra di ricordare che ci abitassero i Denman appena sposati. Si spostarono nella casa grande quando i vecchi morirono. La villetta venne demolita quando cominciarono a scavare in quella cava di pietra. Ma i lavori non sono andati molto avanti, come può vedere.»
Si voltarono e tornarono sui loro passi.
«Immagino che molte coppie vengano a passeggiare per questo sentiero nelle calde serate estive» disse Satterthwaite con un sorriso.
«È probabile.»
«Gli innamorati» disse Satterthwaite. Ripeté quella parola con aria pensierosa e senza il normale imbarazzo degli anglosassoni. Ecco l’effetto che Quin aveva su di lui! «Gli innamorati. Lei ha fatto molto per gli innamorati, signor Quin.»
L’altro chinò la testa senza rispondere.
«Li ha salvati dal dolore... peggio che dal dolore, dalla morte. Ed è stato persino l’avvocato dei morti.»
«Lei sta parlando di se stesso... di quello che ha fatto... non di me.»
«È la stessa cosa» disse Satterthwaite. «Sa benissimo che è così» insistette, poiché l’altro non parlava. «Lei ha agito... per tramite mio. Per qualche ragione non agisce direttamente, non di persona.»
«Qualche volta lo faccio» disse Quin.
Nella sua voce c’era una sfumatura nuova. Suo malgrado, Satterthwaite rabbrividì leggermente. Il pomeriggio doveva essere diventato più fresco, pensò. Eppure sembrava che il sole splendesse come sempre.
In quel momento, dalla curva del sentiero davanti a loro sbucò una ragazza che andò incontro ai due uomini. Era molto graziosa, con gli occhi azzurri e i capelli biondi, e indossava un abitino di cotone rosa. Satterthwaite la riconobbe; era Molly Stanwell, che aveva già conosciuto lì, in campagna, tempo addietro.
Lei agitò la mano in segno di saluto per dargli il benvenuto. «John e Anna sono tornati proprio adesso» gridò. «Pensavano che dovesse essere arrivato, ma non potevano assolutamente fare a meno di essere presenti alla prova.»
«La prova di che?» chiese Satterthwaite.
«Questa specie di mascherata... non saprei esattamente come chiamarla. Si canterà, si ballerà e altre cose del genere. Il signor Manly – si ricorda di averlo già conosciuto, vero? – ha un’ottima voce da tenore, e sarà Pierrot, io sono Pierrette. Per il ballo sono venuti dalla città due professionisti, Arlecchino e Colombina. E poi ci sarà un gran coro femminile. Lady Roscheimer ci tiene talmente a insegnare il canto alle ragazze del villaggio! E quello che sta per allestire è proprio quel che ci vuole. La musica, piuttosto piacevole ma modernissima, manca assolutamente di melodia, o pressappoco. È di Wickham. Lo conosce?»
Satterthwaite fece segno di sì perché, come si è già accennato prima, il suo hobby era quello di conoscere tutti. Era al corrente dell’esistenza di questo aspirante genio che si chiamava Claude Wickham e di Lady Roscheimer, che era grassa e aveva ...