A George Edward, detto “Big George”, piaceva menare le mani e fumare sigarette. Entrambe le cose gli riuscivano senza sforzo. Si piazzava all’angolo di Lyons Avenue, a Marshall, in Texas, e aspettava che il pacchetto di bionde venisse spontaneamente verso di lui, riposto nel taschino di un ignaro passante. Un tizio qualunque faceva al caso, perché George aveva capito che avrebbe potuto mandare al tappeto anche un uomo grosso il doppio di lui. Solo che, naturalmente, un gigante del genere esisteva solo nella Bibbia, e si chiamava Golia.
La vittima sopraggiungeva, George gli saltava addosso, minacciava di batterla come un tappeto e poi prendeva il pacchetto di sigarette dalle sue dita tremanti. Se il tizio cercava di ribellarsi, lo dissuadeva con uno o due sganassoni. Un gioco da ragazzi. E, infatti, George Edward era nient’altro che un ragazzo.
A 16 anni, dopo una lunga serie di problemi con la giustizia, fu preso in consegna dal governo e iscritto nei Job Corps, nati dal programma di recupero per giovani svantaggiati voluto dal presidente Lyndon Johnson. Prima che potesse dire “Ti spezzo in due” fu spedito a lavorare in California. Senza quel programma, con ogni probabilità avrebbe finito col trascorrere la vita fuori e dentro di prigione, più dentro che fuori. Invece, nei successivi due anni fu impegnato in opere di rimboschimento e edilizia. Non occorse, tuttavia, molto tempo prima che il suo vero talento saltasse agli occhi di tutti i suoi colleghi e, fortunatamente, di un istruttore di pugilato, che lo introdusse alla “nobile arte”. George Edward Foreman era nato per essere un campione dei pesi massimi.
Il giovane George cominciò ad allenarsi, confermando su tutta la linea di possedere una predisposizione innata per il combattimento. Era dotato di un fisico imponente e di una potenza ineguagliabile. Nel 1967 salì sul ring per la prima volta e vinse per KO al primo round. Quella fu solo la prima di una lunghissima serie di vittorie brutali. Non era un pugile che amasse vincere per giudizio arbitrale, gli unici punti che amava erano quelli che i suoi avversari dovevano farsi cucire dopo essere franati ai suoi piedi. George vinse il campionato nazionale dei dilettanti, guadagnandosi così la qualificazione alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, dove, neanche a dirlo, vinse la medaglia d’oro nella categoria dei pesi massimi.
Sul ring, al termine dell’incontro, sventolò a lungo una bandierina degli Stati Uniti, un gesto che la comunità afroamericana, in quegli anni di lotte per i diritti civili, non apprezzò affatto. Ma George non era mai stato capace di farsi tanti amici, né lo aveva desiderato. La vittoria olimpica gli aprì le porte del professionismo e delle borse più sostanziose. Cominciarono ad arrivare i soldi veri. Nel 1969, Foreman disputò e vinse tredici incontri, undici per KO, tutti prima del quinto round. Un suo avversario durò 23 secondi. Nel 1970 si aggiudicò per KO undici incontri su dodici, uno al mese. I giornalisti scrivevano che nessuno nella storia della boxe era mai stato capace di colpire con una simile potenza.
Era un atleta inarrivabile, ma il pubblico non lo amava. George aveva ancora dentro la rabbia della strada, degli anni in cui si scontrava con le bande rivali. La diffidenza non lo aveva mai abbandonato, era scontroso, cupo, evitava i giornalisti, rilasciava dichiarazioni laconiche. Poi saliva sul ring e martellava gli avversari con pugni che spezzavano costole e scardinavano mascelle. Lo scrittore Norman Mailer, in seguito, lo avrebbe descritto così:
Un campione dei pesi massimi deve vivere in un mondo diventato privo di proporzioni. Egli è probabilmente il più terrificante assassino non armato che esista. Con le sue mani potrebbe trucidare cinquanta uomini prima di diventare troppo stanco per poterne ammazzare altri. O forse sarebbe più esatto dire cento. In effetti uno dei motivi per cui [Muhammad] Ali ispirava amore (e un rispetto relativamente scarso per la sua forza) era che la sua personalità invariabilmente suggeriva che non avrebbe fatto del male a un uomo comune […]. Invece Foreman era pieno di minaccia. In un incubo di strage, nessuno avrebbe potuto fermarlo.
Fu solo nel 1973, dopo una serie impressionante di vittorie, che George poté combattere per il titolo di campione mondiale dei pesi massimi. Il suo avversario era Joe Frazier, un campione imbattuto che era riuscito nell’impresa impossibile di mandare al tappeto Ali nell’incontro disputato al termine del suo confino dal ring per aver rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam. Tutti i pronostici vedevano Frazier favorito.
Più che un match, quello che seguì fu un massacro. Nessuno dei due atleti aveva classe ed eleganza. Quello era uno scontro tutto giocato sul piano della cieca violenza, e quanto a quella George non aveva pari. Frazier andò al tappeto tre volte nel primo round e altre tre nel secondo. L’arbitro fu costretto a fermare l’incontro.
A quel punto George, la testa calda di Marshall, Texas, era il campione del mondo dei pesi massimi, uno degli atleti più ricchi degli Stati Uniti, e un individuo tendenzialmente ostile all’umanità. Ormai era, per l’opinione pubblica, il cattivo da sconfiggere. Ma batterlo era impossibile, come scoprirono i suoi sfidanti l’anno seguente. Finché venne il turno di Ali.
Anche se non sei un appassionato di boxe, avrai sentito anche tu parlare di quello che è forse l’incontro più emblematico della storia del pugilato. Su di esso sono stati versati fiumi di inchiostro, girati film e documentari. L’incontro fra Foreman e Ali, disputato a Kinshasa, Zaire (l’attuale Congo), superò i confini del semplice evento sportivo, per assurgere a simbolica lotta fra due modi di intendere lo sport e la vita. Ali, il brillante comunicatore che giocava con le parole, bello e allegro, era amato dal popolo zairese, e si autoproclamò suo protettore. Con il suo atteggiamento burlone e coraggioso, Ali incarnò la voglia di riscatto di chi combatte contro avversità soverchianti senza perdere il sorriso. Per parte sua, George finì per essere visto come l’avversità soverchiante in persona. Su quel ring Ali rischiava la vita, questa volta i suoi balletti non lo avrebbero salvato, e non c’era altro da aggiungere.
Ti descrivo l’aspetto psicologico dell’incontro perché ci aiuta a capire che tipo di uomo fosse Foreman nel 1974, ossia un gigante che si trincerava in un silenzio carico di minaccia e ispirava un perenne senso di violenza. Gli uomini del suo staff avevano l’ordine di tenere lontano chiunque. Mentre Ali si confondeva con la folla e si allenava in mezzo al popolo zairese, Foreman si rinchiudeva in palestra e sferrava al sacco pesante pugni che scavavano incavi grandi come cocomeri. Tutta l’Africa si augurava che perdesse. Quindi, lui doveva sconfiggere tutta l’Africa. Quarant’anni dopo avrebbe dichiarato: “Ero un vandalo, prepotente e cattivo. Sono salito sul ring assolutamente convinto di essere invincibile. L’avrei ammazzato, ne ero sicuro”.
Ma invece di danzare come suo solito, Ali si giocò tutto il match alle corde, scivolando sotto le cannonate di George fino a quando il campione del mondo si sentì le braccia pesanti. Il combattimento si concluse con la clamorosa vittoria di Ali per KO all’ottavo round. Fu allora che per George iniziò il Cambiamento, con la «C» maiuscola. Fu un processo graduale, ma con un esito improvviso.
Dapprima Foreman attraversò quello che fu descritto come un periodo di depressione. Era confuso. Al suo sgomento concorse la scoperta che i suoi familiari avevano scommesso contro di lui. Decisamente, dal punto di vista dei rapporti umani, c’era qualcosa che non andava nella vita dell’ex campione del mondo. Nel 1975, George si tenne lontano dal ring. Trascorse tutto l’anno tra Parigi e gli Stati Uniti dedicandosi alla “bella vita”: avventure sessuali, automobili costose, tigri, leoni, ville, sfarzo. Era senza pace. I soldi non gli mancavano e lui si concesse tutti gli eccessi che un pugile di quel livello, abituato a combattere in media anche un incontro al mese, non aveva mai potuto sperimentare. I pugili professionisti all’apice della carriera conducono una vita quasi monastica, lontano da ogni tentazione, ma anche da ogni reale esperienza di cosa sia il mondo. George combatteva da quando era un ragazzino. Adesso aveva 25 anni. Era passato dalla miseria al ring e dal ring direttamente alla fama e alla ricchezza, per poi crollare sotto gli occhi del mondo intero.
In una recente intervista ha dichiarato: “Essere campione del mondo era l’unica mia identità e ora non ero più nessuno”.
Dopo Parigi, George tornò a casa e sua sorella Gloria lo accolse con il colpo più duro che la sua identità avesse mai ricevuto, quando gli disse: “Non ti sei accorto che sei diverso da noi? Non ci assomigli perché il tuo padre biologico è un altro”. Lo informò che si chiamava Leroy Morehood, un veterano di guerra, che oltretutto morì di lì a poco.
L’anno seguente gli incontri ricominciarono e George tornò a combattere con la consueta ferocia. Nel 1977, al termine di un match in cui era andato al tappeto al dodicesimo round, si ritirò nello spogliatoio. In preda a una forte disidratazione perse i sensi, batté la testa al suolo e, per qualche istante, fu come morto.
Quando riprese coscienza, George agì come se all’improvviso fosse diventato un’altra persona....