Non sapevo che cosa aspettarmi.
Mentre correvo dal parcheggio all’ingresso della scuola, tenendomi stretta l’ombrello sbattuto dal vento, mi chiedevo perché una persona normale dovesse lasciare la sua casa calda in una serata così fredda e umida per partecipare a un seminario sugli adolescenti.
Il consigliere d’orientamento scolastico mi accolse alla porta e mi accompagnò in un’aula dove mi aspettavano una ventina di genitori.
Mi presentai, congratulandomi con loro per il coraggio dimostrato nell’affrontare il maltempo, e distribuii delle targhette in modo che ciascuno scrivesse il proprio nome. Mentre scrivevano e chiacchieravano tra loro, ebbi il tempo di studiare il gruppo. Era molto eterogeneo: più o meno metà donne e metà uomini, provenienze etniche diverse, alcuni in coppia, altri da soli, alcuni in giacca e cravatta, altri in jeans.
Quando tutti si furono accomodati, chiesi loro di presentarsi e di dire qualcosa dei figli.
Non esitarono un istante. Uno dopo l’altro, i genitori descrissero i ragazzi, che andavano dai dodici ai sedici anni. Quasi tutti dissero quanto fosse difficile avere a che fare con i teenager nel mondo di oggi. Eppure, avevo l’impressione che fossero guardinghi, che si trattenessero, assicurandosi di non rivelare troppo, e troppo in fretta, in una sala piena di estranei.
«Prima di procedere» dissi «voglio assicurarvi che tutto ciò di cui discuteremo in questa sede sarà confidenziale. Ogni cosa che si dice entro queste quattro mura rimane qui. Non è affare di nessuno se il figlio di qualcuno fuma, beve, marina la scuola, o fa sesso molto prima di quanto vorremmo. Su questo siamo tutti d’accordo?»
Tutti annuirono.
«Dobbiamo considerarci soci in un’avventura eccitante» continuai. «Il mio lavoro consiste nel farvi conoscere dei metodi di comunicazione che possono portare a una relazione più soddisfacente tra genitori e adolescenti. Il vostro lavoro consiste nel provare questi metodi, metterli in atto a casa vostra, per poi raccontare al gruppo che cosa è successo. Che cosa è stato utile e che cosa no? Che cosa ha funzionato, e che cosa no? Unendo le nostre forze, stabiliremo i modi più efficaci per aiutare i nostri ragazzi a compiere la difficilissima transizione dall’infanzia all’età adulta.»
Mi interruppi, per saggiare la reazione del gruppo. «Perché deve essere una “difficilissima transizione”?» intervenne un papà. «Io non ricordo di essermela passata male, da adolescente. E non ricordo di aver fatto passare dei brutti momenti ai miei genitori.»
«Perché eri un ragazzo facile da gestire» disse la moglie, sogghignando e dandogli un colpetto sul braccio.
«Be’, sì, forse era più facile essere “facili” quando noi eravamo adolescenti» aggiunse un altro padre. «Al giorno d’oggi succedono cose di cui allora non si sentiva nemmeno parlare.»
«Immaginiamo di tornare tutti “a quei tempi”» continuai. «Secondo me ci sono cose imparate durante l’adolescenza che potrebbero darci qualche indizio su ciò che i nostri figli stanno sperimentando adesso. Cominciamo cercando di ricordare la parte migliore di quel periodo della nostra vita.»
Michael, l’uomo che era stato un “ragazzo facile da gestire”, parlò per primo. «Per me era lo sport e andare in giro con gli amici.»
Qualcun altro continuò: «Per me era la libertà di andare e venire. Salire sulla metropolitana da solo. Andare in città. Salire su un autobus per la spiaggia. Spasso totale!».
Altri aggiunsero: «Avere il permesso di mettere tacchi alti e trucco, e poi tutta quella eccitazione sui ragazzi. Io e le mie amiche ci prendevamo una cotta per lo stesso tipo ed era tutto un “Credi che gli piaccio io o che gli piaci tu?”».
«La vita era così facile. Il fine settimana potevo dormire fino a mezzogiorno. Non c’era la preoccupazione di cercare un lavoro, pagare l’affitto, mantenere la famiglia. E nessuna paura del domani. Sapevo di poter sempre contare sui miei genitori.»
«Per me era il momento di esplorare chi ero e di sperimentare identità differenti e di sognare sul futuro. Ero libera di fantasticare, ma avevo anche la sicurezza della mia famiglia.»
Una donna scrollò la testa. «Per me» disse con tristezza «la parte migliore dell’adolescenza è stata venirne fuori.»
Lessi il suo nome sulla targhetta. «Karen, a quanto sembra non è stato il periodo migliore della tua vita.»
«A dirla tutta» rispose «fu un sollievo farla finita.»
«Farla finita con che cosa?» chiese qualcuno.
Prima di rispondere Karen scrollò le spalle, come a minimizzare. «Farla finita con la preoccupazione di essere accettata… e di provarci e riprovarci… e sforzarmi di sorridere così sarei piaciuta agli altri… e non sentirmi mai davvero a mio agio… sentendomi sempre come un’estranea, una di troppo.»
Subito altri aggiunsero ricordi sullo stesso tema, e tra questi anche alcuni che appena pochi minuti prima avevano parlato della loro adolescenza come di un periodo meraviglioso.
«Mi immedesimo perfettamente in quello che dici. Mi sentivo così goffo e insicuro. All’epoca ero in sovrappeso e detestavo il mio aspetto.»
«So di aver detto che ero tutta eccitata per i ragazzi, ma a dire la verità era più un’ossessione: mi piacevano, e poi ci lasciavamo, e perdevo le amiche per questo. Non facevo che pensare ai ragazzi, e la pagella ne era la dimostrazione. Ho corso il rischio di non passare la maturità.»
«All’epoca il mio problema era la pressione che subivo dagli altri ragazzi; mi spingevano a fare cose che sapevo essere sbagliate o pericolose. Ho fatto un sacco di stupidaggini.»
«Mi sentivo sempre confusa. Chi sono? Che cosa mi piace? Che cosa non mi piace? Sono autentica o un’imitazione? Posso essere quello che sono ed essere comunque accettata?»
Questo gruppo mi piaceva, ne apprezzavo l’onestà. «Ditemi» chiesi «in quegli anni di alti e bassi, c’è stato qualcosa che i vostri genitori hanno detto o fatto che vi è stato d’aiuto?»
Tutti si fermarono a pensare.
«I miei genitori non mi rimproveravano mai di fronte ai miei amici. Se facevo qualcosa di sbagliato, come tornare a casa molto tardi, e gli amici erano con me, di solito la mamma e il papà aspettavano che si fossero allontanati. E poi partiva la ramanzina.»
«Mio padre mi diceva spesso cose come: “Jim, devi difendere ciò in cui credi… Quando hai dei dubbi, chiedi alla tua coscienza… Non aver mai paura di aver torto, altrimenti non avrai mai ragione”. Allora io pensavo: “Eccolo che ricomincia”, ma a volte le sue parole mi sono state di grande sostegno.»
«Mia madre mi spingeva sempre a migliorare: “Puoi fare meglio… Controlla di nuovo… Rifallo”. Non mi permetteva mai di passarla liscia. Mio padre, d’altro canto, mi riteneva perfetta. Così sapevo a chi rivolgermi nelle diverse circostanze. Avevo a disposizione un buon mix.»
«I miei genitori insistevano perché imparassi a fare mille cose diverse, per esempio come gestire un libretto di assegni, cambiare una gomma. Mi facevano anche leggere ogni giorno cinque pagine in spagnolo. All’epoca mi seccava, ma ho finito per ottenere un buon lavoro proprio perché conosco lo spagnolo.»
«So che non dovrei dirlo, perché probabilmente qui ci sono tante mamme che lavorano, me compresa, ma mi piaceva molto trovare mia madre a casa quando tornavo da scuola. Se durante la giornata mi era successo qualcosa di brutto potevo parlargliene.»
«Dunque» dissi «molti di voi hanno avuto dei genitori che sono stati di grande sostegno, negli anni dell’adolescenza.»
«Ma questo è solo un lato della medaglia» disse Jim. «Mio padre non diceva soltanto quelle frasi positive, ma anche tante altre che facevano male. Niente di ciò che facevo era abbastanza, per lui. E me lo faceva sapere.»
Le parole di Jim aprirono le cateratte. Un fiume di ricordi infelici.
«Ho avuto ben poco sostegno da parte di mia madre. Avevo tantissimi problemi e un gran bisogno che qualcuno mi guidasse, ma da lei non ottenevo altro che le solite vecchie storie: “Quando avevo la tua età…” Dopo un po’ ho imparato a tenermi tutto dentro.»
«I miei genitori mi affliggevano con i sensi di colpa: “Non abbiamo altri che te… Ci aspettiamo di più da te… Non stai sfruttando tutto il tuo potenziale”.»
«Le esigenze dei miei genitori venivano sempre prima delle mie. I loro problemi diventavano i miei problemi. Ero la maggiore di sei figli e si aspettavano che cucinassi, pulissi e mi prendessi cura dei miei fratelli e sorelle. Non ho avuto tempo di essere una teenager.»
«Per me è stato l’opposto. Mi trattavano come una bambina, ero iperprotetta. Mi sembrava di non essere capace di prendere una qualsiasi decisione senza l’approvazione dei miei genitori. Ci sono voluti anni di terapia per cominciare ad avere un po’ di fiducia in me stessa.»
«I miei genitori venivano da un altro Paese, con una cultura completamente diversa. A casa mia tutto era severamente proibito. Non potevo comprare quello che volevo, andare dove volevo, indossare ciò che volevo. Anche quando ormai ero all’ultimo anno di liceo dovevo chiedere il permesso per ogni cosa.»
L’ultima a parlare fu Laura.
«Mia madre era esattamente all’opposto. Era decisamente troppo permissiva. Non faceva rispettare nessuna regola, io andavo e venivo a mio piacimento. Pot...