
eBook - ePub
L'uomo che fermò Hitler
La storia di Dimitar Pesev che salvò gli ebrei di una nazione intera
- 336 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
L'uomo che fermò Hitler
La storia di Dimitar Pesev che salvò gli ebrei di una nazione intera
Informazioni su questo libro
Nel corso dell'Olocausto, l'avvenimento più oscuro e drammatico della storia del Novecento, ci fu un uomo che osò sfidare Hitler, fermando i treni diretti ad Auschwitz per salvare la vita di 48.000 ebrei. Questo eroe, sconosciuto ai più, si chiamava Dimita?r Pes?ev, ed era il vicepresidente del parlamento bulgaro. Accusato, processato e poi dimenticato da tutti, Pes?ev, viene oggi ricordato da un noto giornalista che ne ricostruisce la straordinaria vicenda in un libro avvincente come un romanzo.
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Informazioni
Parte prima
IL FASCISMO
I
Pešev scopre la politica
A Pešev era accaduto di entrare a far parte con grande entusiasmo di un governo autoritario non perché attratto dall’ideologia fascista, ma perché convinto che solo l’autoritarismo avrebbe potuto rigenerare il sistema politico del paese, corrotto dallo strapotere dei partiti. Era un democratico, eppure partecipò attivamente a un governo antidemocratico. Era un liberale, eppure appoggiò un regime intollerante, completamente diverso da quello che aveva immaginato in gioventù.
La sua storia è simile a quella di tanti uomini del nostro secolo che abbracciarono inconsapevolmente la nascita di un regime totalitario non perché fanatici di un’ideologia assolutistica, ma perché desiderosi di porre fine alle degenerazioni della democrazia.
Il vero segreto del fascino del bolscevismo e del fascismo risiede nell’«esistenza di un avversario comune, la democrazia»,1 come ha sottolineato lo storico francese François Furet, che ha analizzato con grande lucidità la nascita dell’illusione totalitaria nel XX secolo.
I consigli del padre
Dimitǎr aveva avuto la fortuna di far parte di una famiglia che andava orgogliosa del proprio spirito laico e democratico.
Nato nel 1894 nella cittadina di Kjustendil, famosa in tutta la Bulgaria per le sue terme e per una campagna particolarmente rigogliosa, il giovane Pešev non poteva certo immaginare che un giorno, in Parlamento, avrebbe votato leggi antisemite.
Già all’inizio del Novecento i suoi genitori pensavano che frequentare amici e conoscenti ebrei fosse la cosa più normale del mondo. Così, nel 1912, quando tutte le scuole bulgare erano state chiuse a causa della guerra,2 non avevano avuto alcuna esitazione a iscrivere la figlia, di religione ortodossa, alla scuola elementare ebraica di Kjustendil.
Episodi del genere non erano molto frequenti in Europa centrale.
Anche Pešev era stato mandato a studiare nella città più «ebraica» dei Balcani, Salonicco, dove aveva frequentato il liceo per due anni, dal 1910 fino allo scoppio della guerra balcanica contro la Turchia. Tornato nel settembre del 1912 a Kjustendil, vi aveva concluso gli studi liceali, diplomandosi nel 1914.
Sua madre, che per amore del marito aveva rinunciato alla carriera di insegnante, gli aveva trasmesso la passione per la cultura umanistica. Anche per questo fin da studente si era interessato al tema dei diritti dell’uomo e con entusiasmo tipicamente giovanile aveva militato come volontario nella Croce rossa durante le guerre balcaniche. Amava soprattutto la Rivoluzione francese, che considerava un passaggio decisivo verso la modernità. Eppure, proprio in gioventù aveva vissuto un’esperienza che contrastava nettamente con i suoi ideali. La sua padronanza della lingua turca, che aveva perfezionato negli anni di Salonicco, era stata la causa indiretta di una vicenda traumatica da cui non si sarebbe più liberato.
«Nonostante tutte le traversie della sua vita» racconta Vasilka Damjanova «ciò che continuava a tormentarlo erano i ricordi legati alle guerre balcaniche, quando venne impiegato come interprete negli interrogatori dei prigionieri turchi.»3 Si era sentito un complice involontario delle torture praticate sui prigionieri, una cosa di cui continuò a vergognarsi fino all’ultimo giorno di vita. Era come se avesse infranto le leggi morali insegnategli dalla famiglia.
Seguendo le orme del padre magistrato, aveva intrapreso gli studi giuridici e aveva prestato giuramento a Kjustendil il 17 novembre del 1921. Dopo una lunga esperienza come giudice, prima a Plovdiv e poi a Sofia, aveva abbandonato la magistratura nel 1932 per la più redditizia professione di avvocato, aprendo uno studio nella centralissima piazza Santa Domenica, di fronte al palazzo di giustizia.
In Bulgaria l’ambiente legale era sempre stato il settore più aperto e pluralista dell’intera classe dirigente. La maggior parte degli avvocati aveva come punto di riferimento ideale le democrazie inglese e francese. I giuristi erano considerati i guardiani dei valori umanistici della Costituzione di Turnovo, che nel 1879 aveva plasmato l’ordinamento giuridico del nuovo Stato bulgaro4 e che era considerata una delle più rispettose dei diritti nazionali e individuali. Sanciva infatti, con toni quasi biblici, che un popolo come quello bulgaro, per secoli oppresso come minoranza nell’ambito di un impero, aveva ora, nella ritrovata libertà, il dovere morale di rispettare i diritti altrui: un grande esempio di tolleranza per i paesi dell’Europa centrale, abituati a comportarsi in modo diametralmente opposto, sotto la spinta delle degenerazioni nazionalistiche.
In questo ambiente Pešev si trovava bene. Il suo studio era pieno di clienti: «Quando andavo a trovarlo» ricorda una nipote «dovevo aspettare ore intere, perché era sempre impegnatissimo».5
Dichiarava al fisco un guadagno di 300 leva al giorno, una somma molto consistente tra i seicento avvocati di Sofia.6 La maggior parte di loro preferiva denunciare cifre molto più basse, tra le 30 e le 100 leva, e gli avvocati ebrei, un centinaio, sostenevano addirittura di non guadagnarne più di 20 o 30. La cosa, naturalmente, non passava inosservata e diventava oggetto di battute divertenti sul modo di risparmiare nella denuncia dei redditi. Pešev era dunque un avvocato di successo, ma molto ossequioso nei confronti dello Stato per i suoi trascorsi di magistrato.
Fino ad allora il brillante giurista, conosciuto nei salotti, grande sportivo, vezzeggiato dalle donne, amante della bella vita della capitale, non si era mai occupato direttamente di politica. Aveva seguito i consigli del padre, che l’aveva esortato a tenersi alla larga dagli intrighi dei partiti.
«Stai attento, Dimitǎr!» gli diceva. «Nel nostro paese chi entra in politica è costretto prima o poi ai peggiori compromessi. È meglio che tu segua la tua carriera professionale. In Bulgaria si entra in un partito con le migliori intenzioni, con gli ideali più nobili e poi, senza quasi rendersene conto, si finisce per diventare trasformisti, contagiati dall’ambizione e dalla sete di potere. È la nostra peggiore malattia nazionale.»7
Così, un po’ per il suo spirito indipendente, un po’ per i consigli paterni, aveva sempre evitato di legarsi a qualsiasi schieramento politico.
«Mio zio» ricorda una nipote «era considerato un uomo neutrale. Non si era mai iscritto a nessun partito. Molte volte ci spiegava che i partiti limitano le persone. Per questo motivo era molto apprezzato da tutti coloro che criticavano il cattivo funzionamento del sistema parlamentare.»8
Per dieci anni Pešev si tenne lontano dalla politica, assistendo impotente al manifestarsi in Bulgaria delle peggiori degenerazioni del nostro secolo (un potere populista, un golpe fascista e un putsch comunista) e verificando con sgomento la debolezza della democrazia in cui aveva sempre creduto, ridotta a un interminabile scontro in Parlamento tra le diverse fazioni per il controllo del potere.
Come Pešev rifiutò la demagogia populista di sinistra
La prima esperienza autoritaria che fece inorridire Pešev fu quella di Stambolijski, leader indiscusso del Partito agrario. Un uomo colto e raffinato come lui non poteva sopportare un capo contadino che guidava rozze campagne contro gli intellettuali. Stambolijski salì al potere nell’autunno del 1919. Aveva vinto le elezioni sotto la spinta emotiva degli effetti disastrosi della prima guerra mondiale: al fronte erano morti migliaia di uomini, il re-avventuriero Ferdinando era stato costretto all’esilio, ed era caduta ogni speranza di recuperare la Tracia e la Macedonia. Proprio l’ostinata avversione del leader contadino all’uso della forza per la riconquista dei territori perduti dalla Bulgaria storica gli aveva guadagnato l’appoggio delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, che premevano per un accordo pacifico con la Iugoslavia. Così, dopo anni di prigione e di esilio, Stambolijski si trovò a occupare il centro della vita politica: era il classico leader che poteva imporre le sue idee radicali solo a un paese umiliato dalla sconfitta. I suoi metodi di governo, infatti, non corrispondevano per niente al suo pacifismo in politica estera.
Stambolijski voleva realizzare una sorta di versione contadina della dittatura del proletariato e si era proposto di creare una vera e propria «Internazionale» in concorrenza con quella comunista. Conduceva crociate contro la borghesia e gli intellettuali. Chiunque abitava in città, aveva un diploma o semplicemente portava la cravatta era visto con sospetto. Dichiarava perentoriamente: «È finito il tempo dell’imbecillità: i generali, i professori, gli avvocati sono esclusi dal potere».9
In nome dei «genuini» valori contadini fece entrare negli enti pubblici in qualità di funzionari persone incolte, senza alcuna preparazione.
Usava a bella posta un linguaggio popolare per giustificare la repressione: «Voi sapete che quando un cavallo viene operato gli si legano degli stracci intorno agli occhi. Gli danno fastidio, ma in questo modo non vede quello che gli succede intorno. È lo stesso principio dell’uso della censura: è il modo migliore per praticare un’operazione chirurgica sulla borghesia».10
Creò una milizia popolare, le cosiddette «Guardie arancione», il cui compito era quello di ripulire il paese dagli oppositori. E infatti nel 1922 i partecipanti a una manifestazione di protesta furono picchiati selvaggiamente e numerosi leader dei partiti di opposizione messi sotto processo.
I metodi rozzi e duramente repressivi adottati da Stambolijski fecero nascere per la prima volta in Pešev la percezione del «pericolo rosso» e il timore per la politica della sinistra. Il giovane «umanista» di Kjustendil cominciò a diffidare di ogni forma di demagogia populista, soprattutto se rivestita di slogan pseudorivoluzionari e antiborghesi. Scoprì così di sentirsi più vicino ai valori e ai sistemi della vecchia destra, tradizionalmente liberale e democratica, e sperò nell’intervento della corona per la creazione di un governo più moderato, lontano da ogni estremismo.
Fu subito deluso: il giovane e inesperto re Boris, che aveva preso il posto del padre Ferdinando, dava dimostrazione di assoluta impotenza. Infatti, per non mettere a rischio il trono non si schierava mai apertamente contro Stambolijski. A ogni nuovo sopruso del regime si mormorava che il re avrebbe finalmente preso provvedimenti per il ripristino della democrazia. Ma ciò non accadeva mai. Di fronte a scelte aleatorie Boris preferiva defilarsi.11 Quando doveva firmare un decreto su una questione particolarmente scottante, per non farsi trovare si ritirava nella sua residenza di campagna e andava a caccia. Quando doveva prendere qualche decisione importante, inventava mille scuse per rimandare gli appuntamenti. Subiva senza fiatare le continue umiliazioni a cui lo sottoponeva il primo ministro, che usava dire, anche in pubblico: «Boris può anche regnare, ma non può pretendere di governare. Questo è esclusivamente compito mio».12 Dopo la repressione di Turnovo e i processi in cui erano stati giudicati i vecchi ministri, alcune personalità del paese si rivolsero al re per chiedergli un intervento risolutore. Anche in tale circostanza Boris non fece altro che scaricare le proprie responsabilità sui suoi interlocutori: «Andate dal popolo, guadagnate la sua fiducia, e solo allora io avrò il diritto e il dovere di intervenire».13
Pešev scettico sul golpe di estrema destra
Fu l’estrema destra a scatenare la controffensiva nei confronti del regime pseudogiacobino di Stambolijski, ormai da tutti considerato un possibile ponte verso una dittatura comunista. Il rozzo leader contadino non riusciva più a ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L’uomo che fermò Hitler
- Introduzione. Pešev e l’archivista
- Parte prima. IL FASCISMO
- Parte seconda. IL COMUNISMO
- Postscriptum. Eroi e camerieri
- Ringraziamenti
- Note
- Inserto fotografico
- Copyright