
- 448 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
La tumultuosa passione di un nobile, ritiratosi su di un'isola sperduta dell'Oceano Indiano, per una giovane derelitta vittima delle angherie di un violento. Un'opera della piena maturità dello scrittore inglese in una nuova traduzione.
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Informazioni
Print ISBN
9788804442363eBook ISBN
9788852063596Vittoria
Racconto delle isole
V’han forme urlanti, e rie ombre che invocano,
E lingue d’aria che scandiscon nomi
Per piagge e rupi e per deserte selve.
John Milton, Comus
Nota alla prima edizione
L’ultima parola di questo romanzo è stata scritta il 29 maggio 1914. E quell’ultima, unica parola era la stessa del titolo.
Si era in tempi di pace. Ora, nell’imminenza della pubblicazione, mi sono chiesto se non fosse opportuno cambiare quel titolo. La parola “Vittoria” – luminoso e tragico traguardo di nobili sforzi – appariva troppo importante e pomposa per figurare sul frontespizio di un semplice romanzo. C’era anche il rischio che mi si sospettasse di un’astuzia commerciale, di voler indurre con l’inganno il pubblico a credere che il libro fosse in qualche modo in relazione con la guerra.
Di questo, però, non mi preoccupavo più di tanto. A influire sulla mia decisione furono, soprattutto, le oscure sollecitazioni di quel pagano residuo di timore reverenziale e di stupore che si annida, tuttora, nei recessi della nostra antica umanità. Vittoria era l’ultima parola da me scritta in tempo di pace. Era l’ultimo pensiero letterario che mi fosse passato per la mente prima che le porte del Tempio di Giano,1 spalancandosi con fragore, scuotessero l’intelletto, il cuore e la coscienza degli uomini in ogni parte del mondo. Una tale coincidenza non poteva esser presa alla leggera. Decisi quindi di lasciare inalterato il titolo nel medesimo spirito fiducioso con cui un semplice cittadino dell’antica Roma avrebbe “accolto l’auspicio”.
Il secondo punto che desidero sottolineare riguarda l’esistenza (nel romanzo) di un individuo di nome Schomberg.
Che io lo ritenga autentico, non occorre neanche dirlo. Non sono abituato a offrire al mio pubblico, consciamente, merci di princisbecco. Schomberg è un vecchio membro della mia compagnia di personaggi. Figurava, in una parte secondaria, già nel 1899, in Lord Jim; riappare poi, notevolmente attivo, in un racconto da me pubblicato nel 1902.2 Qui svolge un ruolo ancor più importante, fedele alla realtà (spero) ma anche fedele a se stesso. Solo che, in questo caso, entrano in gioco le sue passioni più profonde, sicché la sua grottesca psicologia trova alfine compimento.
Non pretendo che in lui si assommi tutta quanta la psicologia teutonica; ma si tratta, senza dubbio, della psicologia di un teutone. Se ne faccio cenno qui, è per porre in risalto il fatto che questo Schomberg, lungi dall’incarnare animosità contingenti, è creatura di mie antiche, radicate e, per così dire, imparziali convinzioni.
J.C.
1. Divinità romana preposta ai “passaggi”. Il suo tempio, nel foro, restava chiuso in tempo di pace.
2. Si tratta di “Falk”, inserito nella raccolta Typhoon and Other Stories.
Nota dell’autore
Accingendomi a scrivere questa Nota per Vittoria, la prima cosa di cui sono consapevole è la reale affinità del libro, la sua affinità a me personalmente, allo stato d’animo, ormai svanito, in cui esso fu scritto, nonché ai sentimenti eterogenei suscitati dagli interventi critici al momento della pubblicazione, quasi un anno esatto dopo lo scoppio della grande guerra. Avevo finito di scriverlo nel 1914, assai prima che l’assassinio di un arciduca d’Austria suonasse il primo segnale d’allarme per un mondo già pieno di dubbi e di paure.
La contemporanea, brevissima “Nota alla prima edizione” – che qui si preserva – attesta a sufficienza cosa io provassi nell’acconsentire alla pubblicazione del libro. Poiché esso era già apparso negli Stati Uniti all’inizio del 1915, era difficile ritardarne ulteriormente l’uscita in Inghilterra. Fu pubblicato dunque nel tredicesimo mese di guerra e la mia coscienza era turbata dall’atroce incongruità del fatto stesso di gettare questo frammento di dramma immaginario nel tumulto della realtà, abbastanza tragico per ogni coscienza, ma perfino più crudele che tragico, e più esaltante che crudele. Mi sembrava terribilmente presuntuoso pensare che ci sarebbe stata attenzione per quelle mie pagine in un consorzio di persone che, tra il rombo dei cannoni e il clamore di eroiche parole che esprimevano la verità di una fede indomabile, non poteva non sentirsi alla gola la lama affilata di un coltello.
L’immutabile Uomo della storia è reso meravigliosamente adattabile sia dalla sua capacità di resistenza sia dalla sua facoltà di estraniarsi. Si direbbe che la rappresentazione del suo destino sia troppo potente per le sue paure e troppo misteriosa per la sua comprensione. Se le trombe del giudizio universale si mettessero a suonare all’improvviso in un giorno di lavoro, il pianista continuerebbe a eseguire la sua sonata di Beethoven e il ciabattino a portare avanti la sua ultima risuolatura, con immutata fede nelle virtù del cuoio. Il che sarebbe perfettamente coerente. Chi siamo noi, infatti, per lasciarci distogliere da un arcangelo vendicatore e dalla sua musica, troppo possente per i nostri orecchi e troppo atroce per i nostri terrori? Allo stesso modo succede di essere colti alla sprovvista dal fulmine dell’ira. Se il libro gli piace, il lettore seguiterà a leggere e il critico a criticare, con quella capacità di distacco che nasce, forse, da un senso di infinita pochezza e che è tuttavia l’unica facoltà in grado di rendere l’uomo simile agli dei immortali.
Solo quando alla catastrofe si accompagna la naturale oscurità del nostro fato, ecco che persino il miglior esponente della razza umana è capace di perdere il proprio distacco. È ovvio quindi che all’arrivo del nobile signor Jones, del rude Ricardo e del fedele Pedro, Heyst – campione di distacco dalle cose del mondo – perda la propria interiore padronanza di sé, quel raffinato atteggiamento che, di fronte a ciò che è universalmente irrimediabile, porta il nome di stoicismo. È tutta una questione di proporzioni. Dovrebbe esserci un rimedio, per una cosa del genere. Ma non c’è. Dietro questo minuscolo esempio dei rischi dell’esistenza, Heyst scorge il potere del cieco destino. Inoltre Heyst, nel suo elegante distacco, aveva perso l’abitudine di imporsi. Non intendo il coraggio dell’autoaffermazione, morale o fisica, ma i relativi modi, i trucchi del mestiere, la prontezza di spirito e la destrezza di mano che si esplicano senza riflettere e che conducono l’uomo a eccellenti risultati nella vita, nell’arte, nel crimine, nella virtù e persino in amore. Il pensiero è il grande nemico della perfezione. L’abitudine alla riflessione profonda, sono costretto a dire, è la più perniciosa delle abitudini contratte dall’uomo civile.
Non si sospetti però ch’io mi prenda gioco, anche remotamente, di Axel Heyst. Ho provato sempre simpatia per lui. L’individuo in carne e ossa che sta dietro al personaggio (a me assai più familiare) del libro era, per quel che ricordo, un misterioso svedese. Non sono certo che fosse anche un barone. Né lui rivendicò mai quel titolo. Il suo distacco era troppo grande perché egli avanzasse pretese, grandi o piccole, sull’altrui credulità. Non dirò dove lo conobbi poiché temo di dare al lettore una falsa impressione, visto che una marcata incongruità tra un uomo e il suo ambiente costituisce spesso un elemento fuorviante. Diventammo molto amici, per un certo periodo, e non vorrei esporlo a sgradevoli illazioni, sebbene sia personalmente certo che sarebbe indifferente a queste così come lo era a tutti gli altri svantaggi della vita. Costui non era, s’intende, il mio Heyst in tutto e per tutto: ne costituisce le fondamenta, fisiche e morali, gettate sul terreno di una breve amicizia. Breve non certo per colpa mia, poiché egli mi incantava con la semplice amenità del suo distacco che – non posso far a meno di pensare – in questo caso egli portò fino alle estreme conseguenze. Se ne andò dal suo alloggio senza lasciare traccia. Mi chiesi dove potesse essere andato. Ma adesso lo so. Disparve dal mio campo visivo solo per incappare in questa avventura che l’attendeva, inevitabile, in un mondo che egli si ostinava a considerare come una malefica trama di ombre ordita alla luce del sole. Spesso, nel corso degli anni, l’esternazione di un sentimento, il senso singolare di una frase colta al volo, me lo richiameranno alla memoria, così che finirò per attribuirgli molti discorsi uditi dalle labbra di altri e relativi ad altri stati d’animo, meno perfetti, meno patetici.
Lo stesso principio vale, mutatis mutandis, anche per il signor Jones, che è costruito su una conoscenza assai più vaga. Il signor Jones (o comunque si chiamasse) non si dileguò come uno che va alla deriva. Mi volse le spalle, costui, e uscì dalla stanza. Accadde in un piccolo albergo dell’isola di Saint Thomas, nelle Indie Occidentali. Correva l’anno 1875. Lo trovammo in un torrido pomeriggio sdraiato su tre sedie, tutto solo, attorniato da un ronzante nugolo di mosche, cui la sua immobilità e il suo aspetto cadaverico conferivano un macabro significato. La nostra intrusione dovette dispiacergli, poiché si alzò bruscamente dal giaciglio e si allontanò, lasciandomi un’impressione indelebile e strana dei suoi stinchi stecchiti. Una delle persone che erano con me disse che quell’uomo era il più accanito giocatore d’azzardo ch’egli avesse mai incontrato. «Un baro di professione?» domandai, e mi fu risposto: «È un tipo pericoloso, ma devo dire che fino a un certo punto gioca onesto…». Chissà, mi chiesi, fino a quale punto. Non lo rividi più, poiché credo che andò dritto dritto a imbarcarsi su un postale che salpava di lì a un’ora per altri porti in direzione di Aspinall.1 La caratteristica insolenza del signor Jones appartiene a un altro uomo, di genere piuttosto diverso. Non dirò nulla sulle origini della sua mentalità, poiché non intendo fare indiscrezioni denigratorie.
Si diede il caso che quello stesso anno Ricardo – il Ricardo della realtà – fosse mio compagno di viaggio a bordo di una goletta, estremamente piccola ed estremamente sudicia, durante una traversata di quattro giorni nel Golfo del Messico, fra due porti che non occorre menzionare. Per la maggior parte del tempo costui giaceva sul ponte di poppa, in pratica ai miei piedi, e di tanto in tanto si sollevava su un gomito e si metteva a parlare di sé. Parlava, parlava, non esattamente con me, e neppure a me (non alzava neppure la fronte, teneva gli occhi fissi sul ponte), ma piuttosto come se si confidasse a bassa voce con il suo diavolo custode. Di tanto in tanto mi lanciava un’occhiata e i peli dei rigidi baffetti gli vibravano in modo curioso. Aveva gli occhi verdi e da allora ogni gatto che vedo mi rammenta esattamente il contorno del suo viso. Per quale motivo viaggiasse e di cosa si occupasse nella vita, non me lo confidò mai. A essere sinceri, l’unico passeggero a bordo di quella goletta che avrebbe potuto parlare apertamente della sua attività e dei suoi propositi era un frate, odorante di tabacco e dalla conversazione simpaticissima, priore in un convento, accompagnato da un giovanissimo fratello laico, dall’espressione particolarmente feroce. Viaggiava con noi anche un vecchio gentiluomo spagnolo, che giaceva prostrato nella buia, maleodorante cabina di poppa. Costui aveva con sé una grande quantità di bagagli e, a detta di Ricardo, era molto malato. Ricardo sembrava essere il servo o il confidente di quell’anziano invalido dall’aria distinta, il quale, all’inizio del viaggio, aveva avuto una lunga, sommessa conversazione con il frate, dopodiché non aveva fatto altro che gemere flebilmente, fumare sigarette e, di tanto in tanto, chiamare Martin con voce dolente. Allora, colui che diverrà Ricardo nel romanzo sarebbe sceso sottocoperta, in quel fetido buco, vi sarebbe rimasto per un po’, misteriosamente, poi, tornato sul ponte con un viso sul quale nulla si leggeva, avrebbe ripreso, a mia edificazione, a illustrare il suo atteggiamento morale nei confronti della vita, corredandolo con singolari esempi memorabili della più atroce specie. Intendeva forse spaventarmi? O sedurmi? O strabiliarmi? O suscitare la mia ammirazione? Non gli riuscì altro che suscitare la mia divertita incredulità. Come tutte le canaglie, non era affatto noioso. Per il resto, la mia ingenuità era tale, allora, che non riuscivo a prendere sul serio la sua filosofia. Per tutto il tempo egli tendeva un orecchio verso la cabina, alla maniera di un solerte servitore, però avevo l’impressione che in un modo o nell’altro egli avesse imposto la sua presenza al vecchio invalido, per qualche fine recondito. Il lettore, perciò, non si stupirà nell’apprendere che un mattino io venni informato dal padrone della goletta, senza alcuna particolare emozione, che “quel ricco signore” là sotto era morto: spirato durante la notte. Non ricordo di essermi mai tanto commosso per la fine desolata di un estraneo. Guardai giù, attraverso il boccaporto, e vidi il devoto Martin intento a legare, con una corda, i bauli di cuoio del defunto, la cui barba bianca e il cui naso aguzzo erano gli unici tratti che riuscivo a distinguere nella buia profondità di quell’orribile, puzzolente cabina.
Poiché nel corso di quel pom...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Vittoria - Racconto delle isole
- Copyright