La desideravano tutti. La pelle. La bocca. Lei miele.
Le piaceva fare l’amore, si faceva spogliare tra gli alberi.
Poi l’hanno ingravidata, a vent’anni, e non ha voluto abortire.
Allora la sua famiglia ha deciso di mandarla da una zia, a Milano. Non potevo nascere lì, dove c’era mio padre, e quel padre non si sapeva chi fosse.
Ha sofferto il giorno che l’hanno fatta salire su un treno. Era sola, con me, e in mano una fiaba: Il Mago di Oz.
Così immaginava di essere una bambina trascinata dall’uragano in un paese lontano, per colpa del cagnolino Totò, il suo ventre.
Sono stata prima un cane, poi quando sono nata sono diventata sua figlia, e mi ha chiamato Dorothy.
Mia zia abitava nel quartiere Barona. Faceva la sarta.
Era una donna strana, silenziosa, non raccontava mai il suo passato.
Aveva vissuto per anni circondata dai suoi soprammobili, piccoli cigni in cristallo, vedette lucenti di una solitudine spenta.
E poi mia madre che arriva. Viaggia su un treno, e lei alla stazione, in attesa.
Non c’era mai andata prima di allora, mi ha detto.
Quanta gente. Correvano tutti. Andavano veloci con le valigie. Si fermavano i treni. Lei ferma, due occhi che cercano in quel traffico di vita in partenza.
Lo raccontava ogni volta con grande emozione, quasi descrivesse il giro del mondo, o un dinosauro che appare.
Le tendine chiare, vesti fantasmatiche di finestre illuminate dal grigiore dell’inverno, e nel cielo Milano.
Mia madre entra in quella casa, e vede una prigione.
Dov’erano le sue corse, il suo corpo lasciato cadere tra i fiori? Che cosa vedeva dai vetri? Il bagliore del nulla.
Quante volte ha cercato di fuggire, con me dentro, sognando di raggiungere il Mago di Oz, di ritornare ai suoi sogni.
Apriva il portone, correva giù per le scale, poi si fermava smarrita, e la zia scendeva a riprenderla.
Era infelice, se ne restava distesa sul letto, leggeva la fiaba fino a quando non apparivano lo Spaventapasseri, il Leone Codardo, il Boscaiolo di Latta, loro insieme verso la Città di Smeraldo, indossando scarpette argentate, e sulla fronte il bacio della Strega del Nord, contro il male del mondo.
Per un mese non ha parlato. Di mia zia sentiva le preghiere, di sera, sommesse. Sussurrii trasportati fino a lei dal silenzio.
Ma quanta rumorosa tristezza, nel sangue.
Poi un pomeriggio si è seduta accanto a lei, c’era il sole, e ha iniziato a raccontarle la storia di Dorothy.
Guardava davanti a sé, meravigliosa fanciulla appena vestita, che disegnava con la voce una fiaba, perché mia zia la vedesse.
Il giorno dopo mia zia le ha cucito il vestito di Dorothy. È stato allora che mia madre ha iniziato a rivivere.
La immagino con quell’abito azzurro recitare righe del libro nelle serate che mi vedevano crescerle dentro, in attesa di arrivare alla luce. E mia zia vivere quei momenti come un’apparizione che riempie gli occhi di spavento, al pensiero di assisterne alla scomparsa, o di scoprirne la pazzia.
Era come se mia madre l’avesse contagiata, mutando la sua mente, portandola altrove, in un’infanzia infuocata.
Intanto passavano i giorni, davanti alla fine dei mesi. Poi sono nata, entrando in una fiaba senza saperlo.
Mi avrebbe vestito come Dorothy, raccontato la sua storia, amandomi non con il cuore, ma con i suoi sogni.
Avevo due madri, e nemmeno un parente. Dai miei nonni, mai visti, arrivavano soldi alle poste. Questo nei primi anni, poi niente.
Di quel periodo ho un suono. Un carillon nella nebbia.
Non mi è stato spiegato il motivo del loro abbandonarci del tutto. Del perché non hanno neppure mai voluto conoscermi.
All’improvviso non c’erano soldi. Non abbastanza, mentre crescevo, e mia madre riempiva il suo letto di uomini.
Una nostra vicina di casa le aveva consigliato di vendersi. Lei già lo faceva, e mia madre in questo ha visto salvezza.
Ha iniziato a prostituirsi, io ero molto piccola ancora, però ricordo la tristezza di mia zia, cucita al suo sguardo, mia madre invece cantava, quasi felice, sempre stordita, abitante di sogni e miraggi, tormenti fiabeschi.
La guardavo davanti allo specchio pettinarsi i capelli, sorpresa di fronte al riflesso della sua grazia impalpabile, eppure sfregiata da un dolore nascosto, adombrato dal suo volersi intoccabile, proprietà del fantastico.
Ero incantata da lei, così bella.
Non era per me solamente una madre. Era il mio sogno.
Le rarissime passeggiate nel mio quartiere. Con mia zia che si preoccupava, diceva state attente, tornate subito, c’è gente brutta qui fuori.
Le biciclette rotte sui marciapiedi, le siringhe sull’erba, i ragazzini che ci urlavano dietro, i campi verdi, gli alberi, e poi lo squallore.
C’era odore di campagna e violenza, gente che coltivava la terra, e poi i delinquenti. Contadini o banditi. Un paesaggio diviso, e la povertà come un muro.
La stalla, i muggiti, le auto rubate, le scritte sopra al cemento, il coprifuoco la sera, e lo sguardo di persone che sembravano sempre fuggire.
L’assenza di colore nei viali, fari accesi nei tramonti mancanti di sole, la mano di mia madre in quel freddo acceso dei palazzoni che sembravano ghiaccio annerito, e poi il caldo ritrovato aprendo la porta di casa.
Il Mago di Oz ogni sera. Indossare i costumi che mia zia aveva cucito. Nascondersi nella casetta di stoffa. Mia madre che simulava il sonoro di una tempesta e rideva.
Vedevo la pioggia, le nubi, il cielo percorso. Mia zia, le sue scarpe, le mani. Il rumore di forbici, i tagli, i sospiri. Cigni in cristallo sui mobili, luci. Una strega schiacciata, il destino.
Crescevo nei pomeriggi, sul tappeto in salotto, e l’odore di pesche, tra le dita di un’esistenza sospesa.
Non andavo all’asilo. Era mia madre la mia amica bambina, mia zia la maestra che mi faceva colorare i quaderni.
Non sapevo come vivessero gli altri. Non avevo confronti. Non conoscevo altre madri, bambini, famiglie.
Non avevamo amicizie. Mia madre schivava ogni approccio. Sfuggiva alla realtà rifugiandosi nei pianeti fantastici della sua mente.
Chissà cosa pensava quando si prostituiva, come trasformava quegli attimi, chi diventavano per lei quegli uomini. Forse i mostri dal corpo di orso e la testa di tigre, in agguato nella foresta.
La sera mi vestiva da Dorothy, lei da Boscaiolo di Latta, mia zia da Leone Codardo, per poi cambiarsi veloci, e interpretare streghe, maghi, spaventapasseri, scimmie volanti.
La nostra vita era un ballo, sopra nubi di fuoco.
Mai mi avevano detto di me. Del mio viso non brutto. Bello, elegante. Un miracolo strano.
Crescendo vedevo qualcosa allo specchio: ero una bambina, ma sembravo un maschio.
Forse speravano in un mutamento, una metamorfosi che all’improvviso stravolge. Almeno mia zia. Mia madre no, lei non voleva vedermi. Io ero Dorothy.
Però lo sapevo. Lo avevo scoperto guardando le altre bambine che a volte incrociavo: loro avevano il rosa sopra la pelle. Il mio colore invece era l’azzurro.
Un azzurro sfumato, incredibile.
E il primo giorno di scuola, accompagnata da mia zia che mi teneva per mano, io con i capelli biondi raccolti in due trecce, all’improvviso mi sono sentita perduta. Mi sono sentita come forse si è sentita mia madre, dopo il treno, arrivata a Milano.
Non c’erano mattoni gialli, non campi di papaveri dove svenivi dal sonno, non la Città di Smeraldo, né fiumi né zattere. Non streghe, mongolfiere, cicogne, non c’era più niente, c’era la vita di tutti, e la poesia impiccata al soffitto.
Non era voluta venire mia madre, mi aveva baciato davanti alla porta, spettinat...