Un autistico in famiglia
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Un autistico in famiglia

Le risposte ai problemi quotidiani dei genitori di ragazzi autistici

  1. 152 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un autistico in famiglia

Le risposte ai problemi quotidiani dei genitori di ragazzi autistici

Informazioni su questo libro

«Ho impiegato molto tempo per vincere il mio pregiudizio nei confronti dei medici. Ho sondato perplessità, approssimazione, indifferenza in quegli umani in camice bianco che davano un'occhiata, scrivevano qualcosa e poi rimandavano all'appuntamento successivo, sempre dopo mesi, durante i quali Tommy, il ragazzone autistico che ho in dotazione in quanto padre, continuava a crescere, a smaniare, a fare il pazzo. Ma evidentemente a loro non importava.» Con queste amare parole Gianluca Nicoletti, giornalista e autore di due illuminanti best seller sull'autismo, esprime il disagio e il senso di isolamento che tanti genitori come lui hanno provato nel dover affrontare da soli il peso di una diagnosi difficile da accettare e, poi, un percorso educativo e di crescita irto di difficoltà e incognite. Con il disperato bisogno di sapere e di capire, per poter continuare ad amare. A questi padri e a queste madri Luigi Mazzone, neuropsichiatra che da anni si occupa di disturbi dello spettro autistico, risponde con un libro che è una sorta di «guida pratica», completa e comprensibile, per aiutarli nella gestione quotidiana dei piccoli e grandi problemi (dalla selettività alimentare ai disturbi del sonno, dai comportamenti rituali e ripetitivi ai momenti di agitazione e aggressività) che un figlio autistico presenta, ma con lo sguardo rivolto all'intero arco della sua vita. Ecco allora consigli concreti su come scegliere l'iter terapeutico adeguato, pianificare l'inserimento scolastico e lavorativo, individuare l'attività sportiva più consona e rassicurante, facilitarne la socializzazione e, con l'arrivo dell'adolescenza, gestirne la sessualità. E anche su come placare le preoccupazioni che spingono madri e padri a chiedersi cosa ne sarà, di questi figli tanto amati, quando invecchiando loro stessi avranno bisogno di aiuto o non ci saranno più. Smascherando pregiudizi e idee errate sull'autismo, Mazzone accompagna genitori e familiari in un processo di conoscenza e di convivenza con tale disturbo, che oggi è la prima causa di handicap in Italia, spinto dal proposito di garantire a questi ragazzi «speciali» il maggior grado di autonomia e la miglior qualità di vita possibile, senza illudere con miracolistici e fallimentari tentativi di «normalizzazione». Suggerendo innanzitutto alle famiglie di vincere ogni vergogna e imbarazzo, di uscire allo scoperto e di rivolgersi per un aiuto alle istituzioni e alle strutture sanitarie competenti. Un autistico in famiglia è un libro fondamentale per le migliaia di famiglie che hanno a cuore il presente e il futuro dei ragazzi autistici e per chiunque sia interessato a esplorare il loro mondo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804650751
eBook ISBN
9788852062742
XVI

L’angoscia del «dopo di noi»

Scrivere di autismo in età adulta non è semplice, per almeno due motivi: il primo è che, come neuropsichiatra infantile, ho sempre seguito i ragazzi non oltre i 18 anni, e il secondo è legato al fatto che le esperienze cliniche e scientifiche sull’età adulta sono decisamente inferiori rispetto a quelle sull’età evolutiva.
Poco tempo fa telefonai a un bravo collega, e amico, a cui dovevo inviare un paziente che aveva superato i 18 anni. Quando gli chiesi: «Ti posso mandare un ragazzo autistico che noi al Bambino Gesù non possiamo più seguire per RAGGIUNTI LIMITI DI ETÀ?», il collega rispose: «Certo, mandamelo pure, lo vedo nell’ambulatorio generale del martedì». Io replicai: «Perdonami, ma sai, sono pazienti un po’ particolari… Non avete un servizio specialistico?». «No, nulla di dedicato all’autismo» fu la sua risposta. A quel punto mi feci incalzante: «Ma scusa, allora come approcciate e trattate i pazienti autistici?». «Ma cos’è, mi stai facendo un’interrogazione?» mi disse il collega, tra il seccato e il divertito. «Lo sai che in generale in Italia c’è poco. Non fare il saputello con me. Anche noi facciamo fatica. Fai così, mandami una relazione e io cerco di seguire le tue indicazioni. A proposito, prende farmaci, questo paziente?» «No, non ne prende.»
Stavolta ero io un po’ infastidito dalla domanda, che tradiva un approccio con i pazienti autistici adulti a me poco gradito: «Non capisco perché la prima domanda sul paziente, su tante che potevi fare, sia se assuma psicofarmaci». Il collega si difese: «Luigi, non ti capisco. Conosci la mia serietà e il mio approccio, e sai bene che avrei comunque valutato il paziente, confrontandomi con te. Non capisco il tuo tono». Mi accorsi di aver esagerato. In realtà il mio tono, sicuramente poco conciliante, nascondeva la frustrazione e l’impotenza nei confronti di un PERCORSO DI CURA che in Italia, al compimento dei 18 anni, subisce un vero e proprio stravolgimento.
Conclusi la telefonata amichevolmente, dopo essermi spiegato. Il mio amico psichiatra, comunque, confermò la difficoltà di presa in carico, la mancanza di un servizio specialistico, e la triste realtà del fatto che, poiché in età adulta l’autismo viene spesso confuso con altri disturbi, tali pazienti finiscono per essere trattati solo con psicofarmaci.
Ma andiamo con ordine. Il primo problema, a mio avviso, riguarda proprio noi ricercatori e clinici dell’età evolutiva. Per anni, infatti, nei più importanti manuali diagnostici, quando ci si occupava di autismo si parlava quasi sempre di «autismo infantile». Tralasciando le elucubrazioni psicoanalitiche che accostavano l’autismo a una forma infantile di psicosi, è indubbio che, per anni, nei testi scientifici, nei congressi per addetti ai lavori e in quel poco che viene proposto sui media, l’autismo sia stato semplicemente «infantile». Come se poi quegli stessi bambini e ragazzi, con il raggiungimento della maggiore età, guarissero o svanissero magicamente nel nulla. In realtà, ovviamente, non era e non è così.
L’autismo è una CONDIZIONE CRONICA, in cui dell’età infantile c’è solo la data della diagnosi. Ciononostante, accade spesso che ragazzi con prime diagnosi di autismo, arrivati in età adulta diventino pazienti con disturbi schizotipici o schizofrenici, o con altre sindromi di personalità. In tutta onestà, la colpa non è nemmeno degli psichiatri. Il problema è più complesso, e a mio parere riguarda la formazione specialistica, che non può essere demandata ai genitori. Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di essere ricevuto da alcuni parlamentari alla Camera per discutere di autismo, e in quell’occasione mi è venuto spontaneo esprimere la mia opinione sulla difficoltà delle famiglie di trovare supporto dopo i 18 anni.
Semplicemente, i medici in formazione nelle scuole di specializzazione in psichiatria sentono parlare poco di autismo, e nessuno fornisce loro una PREPARAZIONE SPECIFICA adeguata. È quindi naturale che questi giovani psichiatri, quando si trovano a esercitare la professione sul territorio o in strutture specialistiche dell’età adulta, non sappiano riconoscere l’autismo o approcciarlo nel modo giusto. Ovviamente, esistono anche delle eccezioni, come alcune strutture in Emilia Romagna e nel Nord Italia, ma rimangono tuttavia realtà isolate.
La discrepanza tra psichiatria dell’età evolutiva e dell’età adulta emerge chiaramente quando, nel nostro ospedale, organizziamo congressi o giornate scientifiche dedicate all’autismo. In una di queste occasioni avevamo provato a coinvolgere alcuni colleghi psichiatri, perché parlassero dell’autismo in età adulta. Tuttavia, ascoltando i loro interventi, mi ero chiesto che senso avesse, in una relazione di quaranta minuti, parlare per l’80% del tempo della schizofrenia e delle sue correlazioni con l’autismo. Il problema è proprio questo: in età adulta si continua a CONFONDERE L’AUTISMO CON LA SCHIZOFRENIA. Invece sono due condizioni mediche diverse. Sicuramente ci sono dei punti sovrapponibili, e una gran parte della ricerca scientifica, dalla genetica alla neuropsicologia, ha indagato similitudini e discrepanze per meglio caratterizzare le due condizioni. Ma c’è una differenza sostanziale sul piano clinico: la schizofrenia esordisce dopo un periodo di apparente normalità, in cui è certamente possibile rintracciare alcuni aspetti predittivi della successiva malattia, ma è indubbio che vi sia un momento in cui la persona inizia a stare male e a perdere il contatto con la realtà. È una condizione che si cura con gli psicofarmaci, e le ricerche condotte finora affermano che la zona del cervello implicata sarebbe quella frontale e prefrontale. Infine, la schizofrenia si associa nella maggior parte dei casi a un deterioramento cognitivo, per cui i pazienti perdono abilità e autonomie precedentemente acquisite.
Ebbene, nell’autismo succede esattamente il contrario. Innanzitutto non esiste un momento di esordio della malattia, perché autistici si nasce. In secondo luogo, l’autismo non si cura con gli psicofarmaci e non coinvolge solo un’area del cervello, ma sembra piuttosto legato a un problema di connessione tra zone diverse. Infine, al contrario di quanto succede nella schizofrenia, l’autismo non va incontro a deterioramento intellettivo: le abilità cognitive, semmai, migliorano gradualmente e, se ben seguite, le persone autistiche possono raggiungere traguardi inizialmente insperati.
Certamente alcune forme di autismo ad alto funzionamento possono ricordare il disturbo schizotipico di personalità, e mi è capitato spesso di discutere con altri psichiatri la correttezza di una diagnosi, in casi in cui pareva davvero difficile differenziare i due disturbi. Tuttavia, questi casi sono una percentuale assai ridotta.
Un secondo problema dell’approccio all’autismo in età adulta, come accennavo, è l’UTILIZZO IMPROPRIO DI PSICOFARMACI, come se la maggiore età del paziente legittimasse finalmente a prescriverli con più libertà. In realtà, i farmaci sono indicati quando l’autismo si associa ad altre condizioni psichiatriche, come una depressione, un disturbo d’ansia, un disturbo ossessivo-compulsivo o un disturbo dello spettro schizofrenico, e possono essere utili quando i pazienti manifestano forme di aggressività o autolesionismo. Ma al di fuori di queste condizioni, l’utilizzo di psicofarmaci ha poco senso nelle persone autistiche, e ha il solo effetto di inibire o obnubilare le loro potenzialità intellettive, che andrebbero invece coltivate.
In età adulta, il mancato riconoscimento delle proprie caratteristiche di persona con un funzionamento di tipo autistico, soprattutto negli individui con un livello intellettivo nella norma, può portare a sentimenti di tristezza, emarginazione e bassa autostima, con pensieri pessimistici sul senso della vita o, nei casi più gravi, pensieri di morte. Un recente studio pubblicato su «Lancet», un’importante rivista scientifica, ha rilevato un TASSO DI SUICIDIO elevato tra le persone con sindrome di Asperger, e ha indicato come l’isolamento e il mancato impiego lavorativo siano fattori di rischio importanti.
Finora ho descritto l’aspetto più scientifico e clinico del problema, per intervenire sul quale sarebbe necessaria una battaglia da parte delle associazioni dei genitori, che dovrebbero pretendere che si parli di autismo nelle scuole di formazione per i giovani psichiatri dell’età adulta.
C’è poi la concreta gestione quotidiana di un adulto con autismo e il pensiero del «dopo di noi», di cui molti genitori hanno legittimamente paura. È inutile prendersi in giro: la cura quotidiana di una persona adulta affetta da autismo può essere una tragedia. Non lo dico per pessimismo, o perché non voglia dare speranza alle famiglie, ma per riconoscere a tutti genitori la dignità delle loro ANGOSCE PRESENTI E FUTURE. La realtà, purtroppo, è quella che viviamo anche noi operatori sanitari: finito il percorso con la neuropsichiatria infantile, al compimento dei 18 anni del figlio, i genitori iniziano a cercare una struttura per adulti a cui appoggiarsi, quantomeno per qualche certificato sanitario. L’esito di queste peregrinazioni, in Italia, è quasi sempre fallimentare. Quanto ai SERVIZI TERRITORIALI di psichiatria, neanche a parlarne: fanno quello che possono, ma spesso hanno organici decimati da pensionamenti senza turnover e non possiedono né competenze né risorse per dare una risposta adeguata ai genitori. È più o meno lo stesso per i centri diurni: se una famiglia volesse inserire un figlio autistico adulto in una comunità, lo vedrebbe trattato come uno schizofrenico o un ritardato mentale, e questa sarebbe la peggiore delle sfortune per il paziente.
Ecco allora che l’unica, obbligata scelta resta quella di tenerlo in casa. Nei casi più fortunati, quando le energie e le risorse economiche lo permettono, organizzando la vita attorno al figlio che cresce, ingaggiando compagni adulti o rivolgendosi a cooperative, purtroppo non sempre specializzate. In altri casi, uno dei due genitori deve rinunciare al lavoro per accudire il figlio.
È recente il caso di un ragazzo ormai diciottenne, venuto a fare un ulteriore controllo presso il nostro ospedale perché manifestava crisi aggressive nei confronti della madre, che fino a quel momento si era occupata di lui. Durante la visita il padre mi confidò che aveva rinunciato al lavoro per OCCUPARSI A TEMPO PIENO DEL FIGLIO. Inizialmente non condividevo questa decisione ed espressi la mia opinione, spronando i genitori a cercare attività e persone che potessero supportarli. Il padre mi rispose secco: «Dottore, mi scusi, ma come vede mia moglie è esaurita e da lei non si può pretendere di più. Abbiamo provato con persone che vengono a casa per portarlo in giro, ma sinceramente trovo più faticoso affidare mio figlio ad altre persone, che di conseguenza devono essere gestite, che avere un rapporto uno a uno con lui, senza altri estranei tra i piedi». Era una risposta opinabile, a cui si poteva replicare in molti modi. In quell’occasione, però, decisi di soprassedere, perché mi parve una persona davvero stanca e disperata, riproponendomi di riprendere la discussione in un momento di maggiore calma.
Il dato di fatto è proprio questo: le famiglie di persone autistiche adulte sono davvero sole. Hanno difficoltà a trovare REFERENTI ISTITUZIONALI, e l’unica fortuna è trovare terapisti in gamba e affezionati, che continuino a seguire i ragazzi oltre i loro compiti. In realtà, negli ultimi anni qualcosa è stato fatto, e quindi mi sono permesso di dissentire da un genitore che a un recente congresso ci accusava di «essere fermi al palo da vent’anni». Non è così: solo dal 2000 a oggi sono stati fatti PROGRESSI ENORMI. Le diagnosi sono più accurate, si è fatta chiarezza sulle terapie davvero efficaci, si usano finalmente strumenti diagnostici in cui l’oggettività del giudizio supera la soggettività dell’opinione. Inoltre, negli ultimi anni si parla di autismo come mai era stato fatto prima: penso, per esempio, alla Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, il 2 aprile, che ha acquisito una rilevanza sempre maggiore e ha consentito di parlare del disturbo in modo più sensato e realistico anche sui media.
Sicuramente le ASSOCIAZIONI DEI FAMILIARI hanno fatto molto. Hanno dato un senso di appartenenza a molti genitori, hanno supplito ai deficit della sanità pubblica e si sono fatte portatrici di proposte concrete per aiutare i pazienti. Se posso muovere una critica, è quella che alcuni genitori raggruppati in associazioni tendono talvolta a sostituirsi ai medici e agli operatori sanitari. Mi rendo conto di esprimere un concetto per certi versi impopolare, tuttavia sono convinto che la soluzione non sia diventare «dottoressa mamma» o «dottor papà», ma pretendere medici esperti di autismo, che non manifestino più la loro impreparazione di fronte a genitori che, spesso, ne sanno davvero più di loro.
L’angoscia del «dopo di noi», infine, è un martirio interiore che inizia, forse, già al momento della diagnosi. Pensando a questa sofferenza mi viene in mente Eugenio Montale, che nella sua bellissima poesia Meriggiare, pallido e assorto esprime la malinconia e le DIFFICOLTÀ DELL’ESISTENZA:
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Ora, tutto voglio tranne che finire con una nota di pessimismo, ma il REALISMO è inevitabile. Anche il già citato Gianluca Nicoletti conclude il primo libro che ha scritto sulla sua esperienza di padre di un ragazzo autistico, Una notte ho sognato che parlavi, con lui ormai vecchio che tenta un improbabile attraversamento pedonale insieme al figlio, mentre il semaforo segna rosso.
C’è chi la pensa diversamente da Nicoletti, e vede nell’autismo del proprio figlio una risorsa, un dono di Dio, una prova che arricchisce e santifica le giornate. C’è chi mi dice che si diverte con il figlio, e che la sua diversità è un problema solo per gli altri. Io non giudico. Mi metto umilmente in ascolto.
Qualche giorno fa ho ricevuto un’e-mail dal padre di una paziente, che mi ringraziava per il lavoro svolto e per l’attenzione e la cura che avevo prestato alla sua famiglia. Citava anche la conversazione che avevamo avuto durante il nostro ultimo incontro, che riguardava il futuro e quel «dopo di noi» tanto angosciante. E concludeva: «Dottore, a proposito, apra l’allegato». Trovai questo testo, che sinceramente non so dirvi se esprima di più la malinconia di Montale o il realismo di Nicoletti.
Nunc et post
Chi cercherà di scrutare i tuoi occhi per carpire i bisogni e le emozioni?
Chi prenderà le mani nelle mani per avvertire i brividi del tuo corpo?
Chi accarezzerà i capelli facendoti scivolare dolcemente nel buio della notte?
Chi ti stringerà al suo petto per sentire i palpiti del tuo cuore?
Nessuno o forse…
Forse incontrerai molti sguardi
ma nessuno comprenderà i tuoi bisogni ed emozioni
Forse le tue mani toccheranno altre mani
ma nessuno avvertirà i brividi del tuo essere
Forse qualcuno accarezzerà i tuoi capelli
ma sarai sempre sola nel buio della notte
Forse qualcuno ti stringerà al petto
ma mai percependo i palpiti del tuo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione - Senza credere ai miracoli di Gianluca Nicoletti
  4. Introduzione
  5. I. Siamo tutti autistici?
  6. II. La diagnosi: affrontare insieme il problema
  7. III. Una nuova quotidianità
  8. IV. I broccoli con le mele: la sfida a tavola
  9. V. A scuola con gli altri
  10. VI. I cinque sensi, amici e nemici
  11. VII. Notti senza riposo
  12. VIII. Epilessia e altre sindromi
  13. IX. Agitati e aggressivi, proprio come noi
  14. X. Dalla rabbia alla gioia, un arcobaleno di emozioni
  15. XI. I figli (in) ombra
  16. XII. Insieme per la strada, senza vergognarsi
  17. XIII. Sessualità: come, dove, quando
  18. XIV. Quando lo sport è più che salutare
  19. XV. Autismo: cosa credere e chi ascoltare
  20. XVI. L’angoscia del «dopo di noi»
  21. Appendice
  22. Copyright