Parigi, rue du Coq d’Or, le sette del mattino. Una sequela di urla strozzate e furibonde dalla strada. Madame Monce, la padrona dell’alberghetto di fronte al mio, era uscita sul marciapiede per apostrofare una pensionante del terzo piano. Aveva i piedi nudi infilati negli zoccoli e i capelli grigi appiccicati alla fronte.
MADAME MONCE: «Sacrée salope! Quante volte le ho detto di non schiacciare le cimici sulla carta da parati? Cosa crede, di averlo comprato l’albergo? Non può buttarle dalla finestra come fanno tutti? Espèce de traînée».
LA DONNA DEL TERZO PIANO: «Va donc, eh! vieille vache!».
Quindi un variopinto coro di urla, mentre da ogni parte si spalancavano le finestre e mezza strada si univa al diverbio. Tutti tacquero di colpo dieci minuti dopo, quando passò uno squadrone di cavalleria, e smisero di gridare per godersi lo spettacolo.
Abbozzo questa scena solo per dare un’idea dello spirito di rue du Coq d’Or. Non che i litigi fossero l’unico avvenimento, nella via, comunque raramente una mattinata passava senza un’esplosione del genere. Erano i litigi, e il grido sconsolato dei venditori ambulanti, e gli strilli di bambini in cerca di bucce d’arancia sull’acciottolato, e di notte lo strepito di canti e il puzzo acre del carretto delle immondizie, a creare l’atmosfera della strada.
Una strada molto angusta, una gola tra alte case miserabili, stranamente inclinate l’una verso l’altra, come se si fossero congelate mentre crollavano. Erano tutte alberghi, stipati fino al tetto di pensionanti, in gran parte polacchi, arabi, italiani. Ai piedi degli alberghi c’erano piccoli bistrot dove ci si poteva ubriacare con l’equivalente di uno scellino. Il sabato sera circa un terzo della popolazione maschile del quartiere era ubriaco. Scoppiavano risse per motivi di donne; gli sterratori arabi, che vivevano negli alberghi più miserabili, coltivavano misteriose inimicizie che risolvevano a seggiolate, talvolta a rivoltellate. Per quella strada i poliziotti, di notte, passavano solo in coppia. Era un luogo piuttosto turbolento. E tuttavia, in mezzo al fracasso e al sudiciume, vivevano i soliti rispettabili bottegai francesi, panettieri, lavandaie e simili, che badavano tranquilli ai fatti loro e accumulavano silenziosamente piccole fortune. Insomma, era un tipico slum parigino.
Il mio albergo si chiamava Hôtel des Trois Moineaux. Era un alveare a cinque piani, cupo e traballante, tagliato da tramezzi di legno in quaranta stanze. Le stanze erano piccole e perennemente sporche perché non c’erano cameriere, e Madame F., la padrona, non aveva nemmeno il tempo di spazzare ogni tanto. Le pareti, sottili come fogli di carta, per nascondere le fessure erano state coperte con vari strati di tappezzeria rosa, che poi si erano scollati dando asilo a innumerevoli cimici. Cimici che durante il giorno marciavano vicino al soffitto, simili a soldati in colonna, e di notte calavano fameliche, costringendoci ad alzarci più volte per farne strage. Certe volte, quando erano particolarmente cattive, bruciavamo dello zolfo per farle scappare nella camera accanto, ma poi il vicino faceva lo stesso e le ricacciava indietro. Era un posto lurido ma accogliente, perché Madame F. e suo marito erano due brave persone. Il prezzo delle stanze andava dai trenta ai cinquanta franchi alla settimana.
I clienti formavano una popolazione fluttuante, in gran parte stranieri che arrivavano senza bagaglio, si fermavano una settimana e sparivano di nuovo. Ce n’erano di tutti i mestieri: ciabattini, muratori, scalpellini, sterratori, studenti, prostitute, rigattieri, alcuni di una povertà inimmaginabile. In una delle soffitte abitava uno studente bulgaro che faceva scarpe di gusto estroso per il mercato americano. Dalle sei a mezzogiorno, seduto sul letto, ne confezionava una dozzina di paia e guadagnava trentacinque franchi; nelle altre ore del giorno seguiva le lezioni alla Sorbona. Studiava per prendere gli ordini sacerdotali e sul pavimento cosparso di pezzi di pelle giacevano a faccia in giù vari testi di teologia. In un’altra stanza abitavano una russa e suo figlio, che si definiva un artista. La madre lavorava sedici ore al giorno, rammendando calzini a venticinque centesimi l’uno, mentre il figlio, decorosamente vestito, oziava nei caffè di Montparnasse. Una camera era affittata a due pensionanti diversi che lavoravano l’uno di giorno e l’altro di notte. In un’altra un vedovo dormiva nello stesso letto con due figlie adulte, entrambe tisiche.
C’erano dei tipi originali nell’albergo. I quartieri poveri di Parigi sono un punto di ritrovo per i tipi originali, gente che, piombata in una solitudine al limite della follia, ha rinunciato alla normalità e al decoro. La povertà li esime dall’osservare la condotta comune, proprio come il denaro esime dal lavoro. Alcuni pensionanti del nostro albergo conducevano una vita oltremodo singolare.
C’erano i Rougier, per esempio. Una vecchia coppia cenciosa di quasi nani che esercitavano un commercio fuori dal comune: vendevano cartoline in boulevard Saint-Michel. La cosa curiosa era che le cartoline venivano spacciate per pornografiche e vendute in pacchetti chiusi, ma in realtà erano fotografie dei castelli della Loira; gli acquirenti se ne accorgevano quando era troppo tardi, e naturalmente non protestavano mai. I Rougier guadagnavano circa cento franchi alla settimana, e facendo stretta economia riuscivano a essere sempre mezzo morti di fame e mezzo ubriachi. Il sudiciume della loro stanza era tale che se ne sentiva il fetore al piano di sotto. A detta di Madame F., erano quattro anni che non si toglievano i vestiti.
E c’era Henri, che lavorava nelle fogne. Era un uomo alto, malinconico, coi capelli ricci e un che di romantico, con quei suoi lunghi stivali da fognaiolo. La particolarità di Henri era che, a parte le esigenze di lavoro, non diceva letteralmente una parola per giorni e giorni. Fino a un anno prima faceva lo chauffeur, aveva un buon lavoro e dei risparmi. Poi, un giorno s’innamorò, ma quando la ragazza lo respinse perse la testa e la prese a calci. In quello stesso istante la ragazza s’innamorò perdutamente di lui: per quindici giorni vissero insieme e spesero mille franchi dei risparmi di Henri. Poi la ragazza lo tradì; Henri le piantò un coltello nel braccio e finì in prigione per sei mesi. Appena ricevuta la coltellata, la ragazza si sentì più che mai innamorata di Henri; i due fecero la pace e decisero che, quando lui fosse uscito di prigione, avrebbe comprato un taxi, si sarebbero sposati e avrebbero messo su casa. Ma quindici giorni dopo la ragazza lo tradì di nuovo, e quando Henri uscì di prigione lei era incinta. Henri non le diede altre coltellate. Ritirò tutti i suoi risparmi e si prese una sbornia colossale che si concluse con un altro mese di prigione; dopodiché andò a lavorare nelle fogne. Niente avrebbe potuto indurre Henri a parlare. Se gli si chiedeva perché fosse andato a lavorare nelle fogne, non rispondeva: si limitava a incrociare i polsi per indicare le manette, e con la testa faceva segno verso sud, in direzione delle carceri. Sembrava che in un sol giorno la sfortuna lo avesse fatto diventare scemo.
C’era R., un inglese che viveva sei mesi a Putney con i genitori e sei mesi in Francia. Nel periodo che passava in Francia beveva quattro litri di vino al giorno e sei al sabato; una volta era andato fino alle Azzorre, perché in nessun posto d’Europa il vino costava così poco. Era una creatura mite e remissiva, mai chiassoso o attaccabrighe. E mai lucido. Rimaneva a letto fino a mezzogiorno, e da mezzogiorno a mezzanotte se ne stava nel suo angolo nel bistrot a trincare, metodico, tranquillo. Mentre trincava, parlava di mobili antichi, con voce sottile e femminea. A parte me, R. era l’unico inglese del quartiere.
C’era moltissima altra gente dalla vita non meno stravagante: Monsieur Jules, il romeno, che aveva un occhio di vetro e non voleva ammetterlo; Fureux, lo scalpellino del Limousin; Roucolle, l’avaro (che però morì prima che arrivassi io); Laurent, il vecchio straccivendolo, che copiava la sua firma da un pezzetto di carta che teneva in tasca. Sarebbe divertente, avendone il tempo, scrivere la biografia di qualcuno di loro. Sto cercando di descrivere la gente del nostro quartiere, non solo perché era strana, ma perché fa tutta parte della mia storia. La povertà è l’argomento di cui mi occupo, e il mio primo contatto con la povertà lo ebbi in questo slum. Col suo sudiciume e le sue vite strambe, esso fu prima di tutto una lezione pratica di povertà e poi il campo delle mie esperienze. Ecco perché tento di dare un’idea della vita che vi si svolgeva.
Vita nel quartiere. Il nostro bistrot, per esempio, sotto all’Hôtel des Trois Moineaux. Un piccolo seminterrato dal pavimento di mattoni: tavoli macchiati di vino, la fotografia di un funerale con la scritta “Crédit est mort”, operai con fasce rosse che tagliano salsicce usando enormi temperini, Madame F. – una splendida contadina dell’Auvergne con la faccia da mucca ostinata – che beve Malaga tutto il giorno “per via dello stomaco”, e partite a dadi come aperitivi, canzoni (Les Fraises et les Framboises e Madelon, che diceva: “Comment épouser un soldat, moi qui aime tout le régiment?”), e amore fatto incredibilmente in pubblico. La sera si riuniva metà albergo. Vorrei che ci fosse a Londra un pub allegro un quarto di quel bistrot.
Si udivano bizzarre conversazioni nel bistrot. Per esempio quelle di Charlie, una delle attrazioni del locale.
Charlie era un giovane di buona famiglia e di buona educazione, che era scappato di casa e viveva con gli assegni che occasionalmente gli mandavano. Immaginate un tipo molto roseo, molto giovane, con le guance fresche e i soffici capelli castani di un bravo ragazzino, labbra troppo rosse e troppo umide, come ciliegie. Piedi minuscoli, braccia esageratamente corte, mani con le fossette come quelle di un bambino. Parlando balla e saltella, come se fosse troppo felice e pieno di vita per star fermo un solo minuto. Sono le tre del pomeriggio e nel bistrot non c’è nessuno eccetto Madame F. e un paio di uomini che a quell’ora non lavorano; ma per Charlie è indifferente chi sia il suo interlocutore, purché possa parlare di se stesso. Declama come un oratore su una barricata, girandosi in bocca le parole e gesticolando con le sue braccine. Gli occhi piccoli, da porcello, luccicano d’entusiasmo. In un certo senso è decisamente disgustoso.
Sta parlando d’amore, il suo argomento preferito.
«Ah, l’amour, l’amour! Ah, que les femmes m’ont tué! Ahimè, messieurs et dames, le donne sono state la mia rovina, la mia rovina, senza rimedio. A ventidue anni sono distrutto, finito. Ma quali cose ho imparato, in quali abissi di saggezza non sono sprofondato! E che cosa grandiosa è l’avere conquistato la vera saggezza, l’essere diventato un uomo civile nel più alto senso della parola, un uomo raffiné, vicieux…»
Eccetera eccetera.
«Messieurs et dames, vedo che siete tristi. Ah, mais la vie est belle, non dovete essere tristi. Siate più lieti, ve ne supplico!
Colmate i bicchieri di vino di Samo,
a simili cose pensar non vogliamo!
«Ah, que la vie est belle! Attenzione, messieurs et dames, con la ricchezza della mia esperienza io vi intratterrò sull’amore. Vi spiegherò il vero significato dell’amore, la vera sensibilità, il piacere più elevato e raffinato che solo gli uomini civili conoscono. Vi parlerò del giorno più felice della mia vita. Ahimè, per me è trascorso il tempo in cui poter godere di tale felicità. Svanito per sempre, svanita la possibilità e persino il desiderio di tale amore.
«Ascoltatemi, dunque. Fu due anni fa. Mio fratello era a Parigi (è avvocato) e i miei genitori gli avevano detto di cercarmi e portarmi fuori a cena. Ci odiamo, io e mio fratello, ma preferimmo non disobbedire. Cenammo, e lui si prese una gran sbornia con tre bottiglie di Bordeaux. Lo riportai al suo albergo; per strada comprai una bottiglia di brandy e quando arrivammo gliene feci bere un bicchiere pieno; gli dissi che con quello si sarebbe rimesso in sesto. Lui lo bevve e subito crollò, come se gli fosse venuto un colpo, ubriaco fradicio. Lo sollevai e lo misi con la schiena contro il letto; poi gli frugai nelle tasche. Trovai millecento franchi, li presi, mi precipitai giù per le scale, saltai su un taxi e scappai. Mio fratello non conosceva il mio indirizzo: ero salvo.
«Dove va un uomo quando ha denaro? Nei bordelli, naturalmente. Ma non penserete che io volessi sprecare il mio denaro in volgari depravazioni buone solo per degli scaricatori! Diavolo, siamo persone civili! Ero schizzinoso, capite, esigente, con mille franchi in tasca. Venne mezzanotte prima che trovassi quello che cercavo. Mi ero imbattuto in un elegantissimo diciottenne, in smoking e con i capelli tagliati à l’américaine, e avevamo chiacchierato in un tranquillo bistrot lontano dai boulevard. Ci capivamo benissimo, io e quel giovanotto. Parlavamo di questo e di quello, e discutemmo sui vari modi per divertirsi. Poi prendemmo insieme un taxi, e via.
«Il taxi si fermò in una stradetta solitaria con un solo lampione a gas in fondo. C’erano scure pozzanghere fra le pietre del selciato. Da un lato correva l’alto muro nudo di un convento. La mia guida mi condusse a una grande casa in rovina con le imposte chiuse, e bussò diverse volte alla porta. Dopo un po’ si udì un rumore di passi e il cigolio dei catenacci, quindi la porta si aprì appena. Una mano s’insinuò nell’apertura; era una mano grande e deforme, aperta a palmo in su sotto il nostro naso, in attesa di soldi.
«La mia guida mise un piede fra il gradino e la porta. “Quanto vuoi?” disse.
«“Mille franchi” rispose una voce di donna. “E tutti subito, altrimenti non entrate.”
«Misi mille franchi nella mano e diedi i cento che restavano alla mia guida: lui salutò e se ne andò. Sentivo la voce che dall’interno contava i biglietti, poi una vecchia cornacchia vestita di nero cacciò fuori il naso e mi squadrò sospettosa prima di lasciarmi entrare. Dentro era buio pesto: riuscivo a vedere solo un becco a gas che illuminava un tratto di parete a intonaco lasciando tutto il resto in un’oscurità ancora più cupa. C’era odore di polvere e di topi. Senza parlare la vecchia accese una candela nel becco a gas, poi zoppicando mi fece strada per un corridoio di pietra fino a dei gradini anch’essi di pietra.
«“Voilà!” disse “scenda in cantina e faccia quello che vuole. Io non vedrò niente, non sentirò niente, non saprò niente. Lei è libero, capisce, perfettamente libero.”
«Ah, messieurs, occorre che io vi descriva – forcément, lo sapete bene – il brivido di terrore e insieme di gioia che ci percorre in quei momenti? Scesi lentamente, a tentoni; sentivo il mio respiro e lo scalpiccio dei miei piedi sulla pietra, per il resto era un silenzio assoluto. In fondo alle scale la mia mano incontrò un interruttore. Lo girai e un grande lampadario a dodici globi rossi inondò la cantina di luce rossa. E… oh! Non ero in una cantina, ma in una camera da letto, una camera da letto grande, ricca, vistosa, color rosso sangue da cima a fondo. Cercate di immaginarvela, messieurs et dames! Il pavimento coperto da un tappeto rosso, tappezzeria rossa alle pareti, peluche rossa sulle sedie, persino il soffitto rosso; dappertutto questo rosso che bruciava gli occhi. Era un rosso greve, opprimente, come se la luce passasse attraverso coppe di sangue. All’estremità opposta c’era un enorme letto quadrato, con una trapunta rossa come tutto il resto, sopra il quale era coricata una ragazza con un vestito di velluto rosso. Quando mi vide si rannicchiò tutta impaurita, cercando di coprirsi le ginocchia col corto abitino.
«Io mi ero fermato vicino alla porta. “Vieni qui, pollastrella” le dissi.
«Emise un gemito di terrore. Con un balzo fui accanto al letto; lei cercò di sfuggirmi, ma io la afferrai per la gola – così, vedete? – stretta! Lei si dibatteva e implorava pietà, ma io la tenevo stretta. Le spinsi la testa indietro e la fissai: era sui vent’anni, con un viso largo e ottuso di bambina stupida, tutto impiastricciato di belletto e ci...