VITTORIO
Miguel? Ma che cosa ci fai qui? Mi dispiace, Lisandra non è in casa. E ho un paziente che arriverà da un minuto all’altro.
MIGUEL
Il signor Bach?
VITTORIO
Come fai a saperlo?
MIGUEL
Perché sono io!
VITTORIO
Come sei tu?
MIGUEL
Lo sono “anche”, se preferisci, era il mio nome all’epoca e, siccome sono venuto a parlare con te di quell’epoca, ti ho dato il mio nome di allora. Posso entrare?
VITTORIO
Nel mio studio?
MIGUEL
Sì. Ti ricordo che ho un appuntamento.
VITTORIO
Certo, entra, entra, prego. Il tuo nome all’epoca? Non capisco.
MIGUEL
Numero 2137, era questo il mio vero nome all’epoca, ma tradotto in lettere diventa BACH, incredibile, no? A meno che non l’abbiano fatto apposta. Ma credo di più all’occhiolino della provvidenza, un segno per tenere duro, che a una prova della loro intelligenza, purtroppo, la loro intelligenza non avevano scelto di metterla al servizio della poesia. È strano che tu non abbia riconosciuto la mia voce al telefono. Ero sicuro che l’avresti fatto.
VITTORIO
Mi preoccupi, Miguel, non ti ho mai visto così nervoso. Che cosa succede? Perché vieni a trovarmi facendoti passare per un altro? Avresti dovuto dirmi che eri tu.
MIGUEL
Ho pensato che sarebbe stato più facile se fosse stato il signor Bach a venire a dirtelo.
VITTORIO
Dirmi cosa?
MIGUEL
Tutto quello che è successo laggiù. Dirtelo almeno una volta. A te. Per imparare a raccontarlo. L’ho già raccontato a me stesso, prima tra me e me e poi ad alta voce, tutto questo l’ho già fatto, trasformare il terrore in racconto, imporgli le forme necessarie a ogni narrazione, trovare le parole giuste, insomma le più giuste per esprimere quelle immagini, e anche trovare una qualche cronologia, è stata la cosa più dura, introdurre l’ordine del tempo nella paura, mettere uno dopo l’altro degli elementi, dei gesti, degli eventi che fino a quel momento si sovrapponevano in una stratificazione di terrore, tutto esisteva fuori dal tempo, violentemente, ho dovuto reinserirlo, il tempo, questa nozione che appartiene all’umanità e che scompare nel momento in cui entra in azione la disumanità... ma ci sono riuscito, tutto questo l’ho già fatto da solo. Ora devo pronunciarlo di fronte a qualcuno, questo racconto pieno di parole, impastato di cronologie, e una volta che l’avrò fatto, finalmente, diventerà più naturale, è quello che mi dico, è come una musica che abbiamo nella testa, prima servono le note, bisogna cercare quelle che sentiamo, trovarle, e poi occorre che qualcuno le ascolti, altrimenti è inutile, possiamo solo rimuginarci sopra. La paura, l’incapacità di riversarlo in un altro orecchio rimangono, mi sono chiesto a lungo a chi raccontarlo e a un tratto ho pensato a te. Tu sei mio amico, e poi è il tuo lavoro. Sono sicuro che puoi aiutarmi, Vittorio. Devo raccontarlo, mi capisci? Voglio passare la mia vita a raccontarlo. Non per rinchiudermi, ma per liberarmi. Mi senti? Rispondimi. Possiamo comportarci come se fossi un paziente? Per una volta. Una volta sola. Sei d’accordo?
VITTORIO
Certo, certo. Annullo i prossimi appuntamenti, mi prendo il pomeriggio libero, saremo più tranquilli.
MIGUEL
Assolutamente no! Questo colloquio non deve cambiare nulla, non deve per nessuna ragione essere più importante dei colloqui degli altri tuoi pazienti. Capisci? Mi sono esercitato, la seduta non sarà più lunga di qualsiasi altra, te lo prometto.
VITTORIO
Benissimo, come vuoi che procediamo? Vuoi che cominci con una domanda?
MIGUEL
Assolutamente no. Voglio cavarmela da solo. Senza spinte. Perché se aspetto che mi facciano delle domande, non lo racconterò a nessuno. È incredibile quante persone non facciano mai domande, sembra che la curiosità sia una qualità tipica dell’infanzia. Non trovi? No, è vero, tu non puoi pensarlo con il mestiere che fai, tu poni domande, passi la vita a porre domande, ma pensaci bene, la gente, gli altri, trovi che ti facciano domande? Io no. Sinceramente, questo mutismo, questo modo di prendere atto di tutto ciò che ci circonda senza interrogativi mi stupisce. E le domande disturbano pure! Come per i sorrisi, ci chiediamo: “Ma che cosa vuole quello da me?”. Lo si prende male, lo si sospetta di chissà quale cattiva intenzione, si sbuffa per l’intrusione. Almeno, per quanto ti riguarda, il tuo lavoro si nutre di domande, è bello questo. È una cosa positiva. Ti piace il tuo lavoro, Vittorio?
VITTORIO
Sì.
MIGUEL
Anche a me piace il mio lavoro, è ciò che amo di più al mondo. È bello amare così il proprio lavoro, ma è anche un brutto segno. Adesso è Melina che vorrei poter amare più di qualsiasi altra cosa al mondo.
VITTORIO
Lo so.
MIGUEL
Innanzitutto i pedinamenti sono diventati sempre più pressanti, erano in gruppi di quattro o cinque, ragazzi di ventidue, ventiquattro anni, a volte mi giravo nella via per far vedere loro che non ci cascavo, chiedevo l’ora o, senza mezzi termini, se non avevano altro da fare, non avevo paura, pensavo che il fatto di essere un personaggio pubblico li avrebbe scoraggiati ad agire, le implicazioni politiche sarebbero state troppo pesanti. Ma quella sera ho notato sul tetto della casa accanto delle persone vestite in borghese che si davano da fare e ho capito che sarebbe successo qualcosa di grave. Ho chiamato alcuni amici per avvisarli che, se la mattina dopo alle sette non avessi dato segni di vita, avrebbero dovuto preoccuparsi per la mia sorte, ma a un certo punto la linea è stata tagliata. Tutte le altre chiamate le ho dovute fare da una vicina che mi ha aiutato, ho contattato d’urgenza le ambasciate di Francia, Germania, Canada, Stati Uniti e Brasile. Nessuna ha voluto assumersi il rischio di intervenire, mi hanno risposto che l’unica ambasciata che poteva fare qualcosa era quella argentina. Tanto valeva dirmi di chiamare i miei aguzzini. Mentre facevo tutte queste chiamate, due FIAT si erano posizionate davanti a casa mia con a bordo delle persone armate. Alla fine l’assalto è iniziato, non ho opposto resistenza, mi hanno trascinato in un camion dell’esercito che aspettava all’angolo della strada. Già mentre mi trasportavano hanno iniziato a torturarmi. Laggiù, mi hanno portato in una stanza, sulla cui porta c’era scritto SERVICIO DE INFORMACIONES DEL ESTADO, le uniche parole che ho letto durante tutti quei lunghi mesi. Mi hanno strappato i vestiti e imbavagliato, mi hanno legato al tavolo, cosparso di acqua, poi hanno usato la picana, si accanivano contro le mie mani e continuavano a ripetere: “Non suonerai mai più il pianoforte, sarai uno straccio uscito da qui. Tu sei peggio di un guerrigliero perché con i tuoi sorrisi e il tuo piano fai credere alla negrada1 di avere il diritto di ascoltare Beethoven. Sei un traditore della tua classe. Beethoven è per noi. Te la faremo pagare molto cara. Ti distruggeremo completamente”. Quando hanno finito, mi hanno slegato e lasciato a terra, non volevano darmi dell’acqua, il sangue in bocca mi scendeva nella gola tanto mi ero morso, ma il sangue non disseta. Mi hanno rinchiuso nel sottosuolo in una cella senza luce, senza cibo. Eravamo in due per letto. Era freddo e umido. Non c’erano coperte. C’era una panca di cemento. Dovevamo urinare e fare tutto il resto per terra. Mi hanno torturato ogni giorno. Sembrava che fosse una questione d’onore fare in modo che fosse sempre diverso, ma le parole erano sempre le stesse: “Non potrai mai più suonare il piano, mai più”. Continuavano a concentrarsi sulle mie mani, sulle mie braccia. Quando appendevano gli altri per i piedi, appendevano me per le braccia. “Ti piace ascoltare la musica, eh? Ti piace la musica? Allora ascolta questa.” E mi colpivano fortissimo le orecchie, si mettevano in diversi, credevo che le mie orecchie si sarebbero lacerate, sentivo le cartilagini strapparsi, mi minacciavano di perforarmi i timpani. Non avevo modo di fermarli. Non cercavano di strapparmi informazioni, non ne avevo, non avevo niente per loro, volevano farmi del male per punirmi, volevano annientarmi. Non ho mai visto nessuno. Avevo del cotone sugli occhi, una benda e un passamontagna. Non vedevo mai niente. Sentivo, ascoltavo, ho contato circa ventiquattro voci diverse. A orecchio. Riconoscevo i timbri dei tenori, dei baritoni, dei soprani... C’era di tutto, anche ragazze. Accenti francesi e tedeschi. Indicavano agli aguzzini le domande da fare, verosimilmente erano esperti di psicologia, specializzati negli interrogatori dei detenuti politici. C’erano continui riferimenti al nazismo. Un giorno due giovani ufficiali mi hanno costretto a ripetere cinquecento volte: “Il nazismo è la più bella dottrina inventata dall’essere umano”. “Più forte. Più forte. Cantala, questa frase. Forza! Mettila in musica.” Talvolta mi usavano come cavia, per insegnare agli altri, ai nuovi, come si tortura, perché tutti torturavano, faceva parte della loro formazione. In quel caso c’erano le bruciature di sigaretta, i peli pubici strappati a manciate, sentivo: “Forza, appoggia la sigaretta, premi, che casino, premi, non gli devi far piacere, razza di smidollato, guarda, forza, sulla schiena”. E la sigaretta si abbatteva sulla mia guancia. Mi strappavano la pelle delle mani con la pinzetta. Ogni giorno la piaga si allargava, purulenta, la leccavo come un cane, speravo di disinfettarla. “Lei è solo un sacco di merda qui da noi!” Volevano annientarmi, ma avevo scoperto che, quando mi concentravo intensamente, sentivo meno dolore, allora ho cercato di pensare ai problemi tecnici del piano, di ricostruire un’opera o di ascoltare la voce di Melina che cantava quell’opera – se tu sapessi come il pensiero di mia moglie mi ha aiutato a resistere –, e sono sopravvissuto alle sedute di tortura grazie ai trucchi che s’imparano in questo inferno, quando mi faceva meno male urlavo come un pazzo, quando mi faceva male restavo in silenzio, quindi insistevano su quello che mi aveva fatto gridare di più, con l’elettricità o con i colpi. Ma molto presto ho perso sensibilità nelle mani e nelle braccia. Avevo le dita morte. La mia angoscia di musicista era di aver perso per sempre la sensibilità delle dita e delle braccia. Ed era un’angoscia giorno e notte. Giorno e notte facevo esercizi. Non mi sentivo le dita ma non volevo perdere la memoria tattile, le distanze fra le note, allora disegnavo i tasti del piano sul pavimento, nella terra, e guardavo le mie mani muoversi senza sentirle, poi cancellavo lo strumento di fortuna non appena sentivo aprirsi la porta. Avevo immensi vuoti di memoria. Quando cercavo di recuperare le partiture mentalmente, mi rammentavo benissimo di, mettiamo, ventiquattro battute, e tutt’a un tratto c’era una lacuna, un oceano, i miei ricordi erano frammentari, non coprivano l’intero svolgimento. La memoria tattile mi ha aiutato a riempire questi buchi. Il peggio era che il mio senso maggiormente sviluppato partecipava di tutte queste torture, ero pieno di suoni, le voci, quelle voci... non posso liberarmene, le urla di dolore, le urla di odio, le urla che chiedono pietà, le urla di insulti, le urla degli uni e degli altri per esercitarsi alla tortura. Di immagini, non ne ho. Le sensazioni si attenuano. Ma le voci, quelle voci non mi abbandonano. Il rumore rappresentava per me la peggior tortura. Ogni notte battevano contro i tubi e il suono risuonava in me, sentivo delle note, delle note discordanti, sempre le stesse, brutali, senz’anima, metalliche, sono sicuro che questo facesse parte del loro piano, stordirmi di rumore, uccidermi attraverso il rumore, attraverso l’insostenibile, sconvolgente baccano. Un calcolo, un ragionamento da psicologi. Tu non lo puoi sapere, ma gli psicologi erano ovunque. Assimilati nell’esercito. I nostri sorveglianti erano psicologi, i nostri censori erano psicologi. Mi dispiace, non ce l’ho con te, Vittorio, ma la tua professione non è sempre meravigliosa. Dopotutto gli psicologi sono esseri umani, nemmeno loro hanno sempre voglia di fare il bene. Sapevano come distruggerci, ci riempivano di medicinali. Avevo imparato a far finta di prenderli, ne chiedevo anche per dissipare i loro sospetti. E poi li davo a chi li voleva, ognuno aveva il suo modo di sopportare quel calvario, alcuni avevano bisogno di medicine per resistere in quell’inferno. Io per resistere dovevo soprattutto rimanere in contatto con la realtà, la sensazione di perdere la nozione del tempo mi era insopportabile. Ci privavano del cibo per diversi giorni di fila, sentivamo il carrello nel corridoio ma non si fermava per noi, e un giorno si fermava, non sapevamo perché oggi e non la sera prima, o non l’indomani. Sempre lo stesso riso ammuffito mezzo crudo, c...