Questo è il diario di una full immersion “detox”.
Cioè in una cura disintossicante/dimagrante. Sono nato povero ma splendido, come Montgomery Clift/George Eastman nel film Un posto al sole (però non magro come lui) e non mi piace accontentarmi: mangiare bene è un’arte. È per me (e non solo, certo) che esistono luoghi come l’Albereta, relais & chateaux e centro benessere in Erbusco. Perché se devo fare la fame (le diete, alla fine, sono tutte uguali: mangi poco), diamine, allora vado a soffrire in un posto splendido come me.
Partenza. Piove, è lunedì e sono a Milano. Mi sento un po’ come Marino Moretti a Cesena (“ospite della mia sorella sposa”). Sarà il maltempo, sarà il pensiero di una settimana monastica, ma ho emozioni crepuscolari. In ritardo per il pranzo, opto per un panino in autogrill. Buono, con il paté di olive (chissà di quali e con quali additivi/conservanti). Il colpo di coda della vecchia vita alimentare. L’Albereta è avvolta da un pulviscolo di pioggia, ma dentro è tiepida e accogliente. In camera trovo un vassoio con spaghetti integrali al pomodoro, una ricca insalata, frutta. Mia madre, Santa Donna, mi ha insegnato: «Non si lascia niente nel piatto, è un’offesa a chi non ne ha». Sono lì che dibatto con me stesso sull’idea di mangiare di nuovo quando mi chiamano dall’espace vitalité Henri Chenot. Scendo al piano meno 1 e comincio l’avventura: idromassaggio, fanghi, idrogetto e il massaggio (appuntamenti fissi di ogni giorno). Nella sala fitness conosco il personal trainer, il simpatico Enrico, tifoso del Sunderland, squadra inglese di non alta classifica ma, come tutte quelle della Premier, di alto lignaggio. Nel frattempo è venuta ora di cena. La sala è piena. Il piatto, ovviamente, no. Però il “quasi niente” è presentato benissimo. Sembra di stare nel ristorante di Gualtiero Marchesi, dall’altra parte dell’Albereta, ma senza condimento (al massimo un surrogato). Verdure, un passato e proteine (due volte alla settimana pesce, le altre legumi, anche seitan e tofu, niente carne).
La colazione (frutta intera o passata di frutta, caffè d’orzo) per me è al Library Bar. Molto british, a proposito. Mi viene in mente Joseph Conrad: questo è il posto dei “reietti delle isole”. A quelli come noi è vietata la normale sala colazioni. Si tratta, in realtà, di una forma di gentilezza (e di protezione) nei confronti di quelli sottoposti al regime di 600 calorie quotidiane. Meglio evitare anche solo la vista del subdolo buffet e degli altri ospiti, quelli magri o più magri, che l’assaltano. Martedì è una giornata piena. Il centro benessere è affollato, come la mia lista: visita medica, check up più impedenziometria, incontro con la dietista Elisabetta che ogni giorno passa a pranzo a farmi scegliere il menu: frutta, insalata, un primo (riso o spaghetti integrali, farro ecc.). È allenata a stupidaggini del tipo “si può fare il bis?”. Vengono a trovarmi Teresa Caniato di Contadi Castaldi e Francesca Dell’Acqua che si occupa dell’hotellerie di Terra Moretti. Con sprezzo del pericolo (e della fame) dividono la cura detox con me. Arriva, trafelata come al solito, anche Valentina Farolfi di Bellavista. Be’, pranzare con tre belle ragazze disintossica dalla cura disintossicante. Perché a pranzo c’è lo scoglio più difficile. Ho mangiato ogni cosa nella mia vita, cose che voi umani neanche immaginate, ma l’erba cruda è una montagna troppo alta da scalare. Quella va bene per le pecore, non per gli umani. L’insalata senza condimento ve la mangiate voi. Il pranzo, soprattutto con Teresa, diventerà un appuntamento quasi fisso.
Tra i vari trattamenti c’è quello “energetico”. Attraverso un marchingegno che termina con un cilindretto appuntito con cui mi pungono le dita dei piedi e delle mani, viene determinata “l’efficienza delle funzioni vitali dell’organismo e dei flussi energetici lungo i canali che, secondo i dettami della medicina cinese, percorrono il corpo”. Risultato: sono parecchio stressato. Non ho dubbi. Nell’espace vitalité c’è l’angolo tisane. All’inizio sono sospettoso, poi mi conquistano: sono buonissime. Qui sono tutti molto gentili, seri, preparati anche a casi disperati come il mio. Mercoledì a pranzo, sorpresona: si presentano l’inossidabile Gualtiero e il grande enologo della maison, Mattia Vezzola. Gualtiero mi rimprovera: «Perché non sei venuto a trovarmi?». Sì, ti saluto cura detox, se attraversavo il muro virtuale della hall: di là i peccatori in libera uscita, di qui i consegnati. Pure Mattia si sacrifica a mangiare riso in bianco e verdure bollite. Però gli danno l’olio che guardo con concupiscenza.
Il pomeriggio, se non ho qualche trattamento, dormo e leggo. Internet poco (che detox sarebbe, se no?). Verso sera faccio qualche metro sul tapis roulant e una nuotata in piscina. Giovedì c’è una tregua nel cattivo tempo. Passeggiata (walk, come da programma) con Enrico tra i vigneti della Franciacorta. Da quanto non camminavo così? Al ritorno sono tutto un dolore, ma di quelli che ti lasciano soddisfatto. Ogni giorno, la mattina, dopo l’idromassaggio, i fanghi e il getto d’acqua, mi pesano. Alla fine perdo quasi sette chili. Sono fiero di me stesso e riconoscente all’Albereta e a monsieur Chenot. La domenica mattina, dopo l’ultima visita medica, riparto. Sto bene, pronto a resistere alla città tentacolare che si nasconde laggiù, sotto una coltre di nuvole scure. Per evitare che ricaschi sul micidiale panino autostradale (conoscono i loro polli) mi forniscono la “schiscetta detox”. Geniali. Tornerò.
Sono arrivato al tramonto: L’Aquila giaceva, dopo una giornata di burrasca, sotto un cielo blu scuro, liberato dalla nuvolaglia, degna cornice per la malinconia che segue il viandante tra le strade di questa affascinante città ferita, mentre sale il rimpianto per com’era prima, del terremoto, delle macerie, dei ponteggi. È stato come un percorso dell’anima e del gusto, cominciato, in compagnia dell’amico Raffaele Cavallo, visitando la bellissima abbazia benedettina di San Clemente a Casauria (vale il viaggio), poi transitando per la meravigliosa piana di Navelli, la Saffron Valley italiana, dove si coltiva l’oro dai pistilli rossi. E poi costeggiando uliveti e vigneti, che regalano grandi oli e grandi vini, fino ai confini della città, fermandosi ad ammirare il superbo portale della basilica di Santa Maria in Collemaggio e terminando nella chiesa di Santa Maria del Suffragio, in piazza Duomo. Qui, in uno dei canti della piazza, c’è il negozio Sorelle Nurzia, casa fondata nel 1835 e famosa per i suoi torroni, ma non solo. Un grande striscione recita: “Siamo aperti”. È resistenza umana, oltre le difficoltà di un centro storico dove la vita riprende a scorrere lentamente, a fatica. È un segno che dal settore enogastronomico, uno dei più vitali in Italia, venga questa spinta alla rinascita.
La ritrovo nelle belle aziende che segnaliamo e naturalmente in William Zonfa, trentadue anni, uno dei giovani cuochi italiani di ultima generazione che esercita nel relais di campagna & ristorante Magione Papale. Siamo ai bordi della città, nella struttura recuperata di un antico mulino, circondata da campi e da boschi. Il nome è un omaggio a Pietro da (del) Morrone che transitò di qua sulla strada del conclave che lo elesse papa con il nome di Celestino V. Nella basilica di Collemaggio Celestino V venne incoronato ed è sepolto. Un compito, quello di papa, come sappiamo, troppo pesante, tanto da portarlo al “gran rifiuto” che fece infuriare Dante perché al posto di Celestino venne eletto il “nemico” Bonifacio VIII. Ovviamente questa è una lettura della storia. Niente di misterioso invece nella vicenda e nelle scelte di William Zonfa e dei suoi compagni d’avventura di Magione Papale. Cresciuto alla scuola di mamma e nonna («per me la cucina era al femminile anche se poi, nei fatti, c’è una maggioranza di cuochi, forse per la pesantezza del lavoro»), William ha compiuto le sue esperienze all’estero (Germania), poi in Italia al Pellicano di Porto Ercole e al Mosaico di Casamicciola a Ischia. Infine è tornato a casa e si è accasato a Vinalia, progetto che riscuoteva un buon successo in città, interrotto bruscamente dal terremoto. Così, con tre costruttori, è approdato al mulino ristrutturato e ha inanellato una serie di riconoscimenti, dalla stella Michelin al titolo di chef dell’anno 2013 per il Gambero Rosso fino a quello per la cucina d’autore del Touring Club 2014. Quale idea di cucina? «Una cucina che rispetti profumi e tradizioni antiche» questa è terra di pastorizia «e coniuga sapori classici in via originale, con le tendenze attuali, che prediligono il gusto ma attraverso piatti digeribili e di conseguenza rispettosi della salute.»
Ok, l’idea è giusta e quindi a tavola: polpetta agnello e scarola; variazione di scampi, il carpaccio, il bon bon e la millefoglie; battuta di manzo, ricotta, cipolla e oliva; uovo, patate e peperoni; tagliatellina bruciata al ragù d’agnello; tortello liquido di pecorino, pomodoro e sedano; maialino croccante con purea di patate e scalogno al cartoccio; baccalà e ceci; cannolo croccante di ricotta con lampone, zafferano e sorbetto al nocino. Le feste passano, le scorribande mai.
(4 gennaio 2014)
CONSIGLI GOLOSI
Relais & Ristorante Magione Papale, via Porta Napoli 67/I, L’Aquila, tel. 0862-414983 (H) 0862-404426 (R)
Ristorante Percorsi di Gusto, via Leosini 7, L’Aquila, tel. 0862-411429
Agriturismo Sapori di Campagna, contrata Colonia Frasca, km. 7,800, Ofena (Aq), tel. 0862-954253
Azienda Agricola Luigi Cataldi, Madonna, località Piano, Ofena (Aq), tel. 0862-954252
Salumificio De Paulis, piazza Umberto I 2, Paganica (Aq), tel. 0862-68422
Caseificio Campo Felice, via dell’Aquila 16, Collimento Lucoli (Aq), tel. 0862-73100
Dolciaria Sorelle Nurzia, nucleo industriale di Bazzano, via degli Opifici, L’Aquila tel. 0862-21002
Azienda agricola Matergia, via Provinciale 61, Barisciano (Aq)
Cooperativa Altopiano Navelli, via Umberto I 7, Civitaretenga (Aq), tel. 0862-959163
Azienda agricola Terre del Tirino, località Nucleo Capodacqua 4, Capestrano (Aq), tel. 331-6766139
Ogni volta che viene questa stagione, tra gennaio e marzo, tra i postumi della Festa e la malinconia dell’inverno che diventa ansia di ricerca, mi viene voglia di partire, tra nebbie, notti e maialate lungo il Po, attraverso tre province – Parma, Cremona e Mantova –, per arrivare a sedermi all’Ambasciata di Romano Tamani. Ogni tanto dal telefono mi giunge il suo vocione caldo e arrembante, che lascia senza fiato, ma felice, chi ascolta. Romano mi racconta le ultime notizie, le ultime tendenze: di un gruppo di cinesi che se ne sono andati dalla sua tavola non prima di avergli detto «non avevamo mangiato così bene prima in Italia»; di come il doggy bag stia prendendo il largo anche da noi. Non mi stupisce, neanch’io abbandonerei nel piatto una scaglia del suo parmigiano stravecchio o uno dei suoi tortelli di zucca. Ma prima di arrivare nel glorioso/goloso Vicariato di Quistello, c’è un intenso percorso lungo la grigia e invernale valle del Po, affascinante come e più di quella primaverile/estiva, sulle tracce di Mario Soldati, primo grande divulgatore della cucina italiana.
S’inizia dall’Antica Corte Pallavicina con i salumi (e non solo) dei fratelli Spigaroli, produttori del culatello più amato da Paul Bocuse. Poco più in là, all’imbarcadero di Polesine Parmense, c’era una pista da ballo e si danzava sull’argine del fiume nelle sere d’estate rinfrescate dal Po. Sono le terre delle musiche di Verdi e dei racconti di Guareschi, un mondo piccolo di piccole città che ruotano attorno alla piazza. A Soragna si posteggia qui, per raggiungere la Stella D’Oro della famiglia Dallabona. Marco dedica i “ravioli” al grande compositore. A Roncole Verdi, Campanini profuma di trattoria come uno se l’aspetta, ospitale, con il tepore della spalla cotta. A Roncole Verdi c’è l’Archivio di Guareschi, custodito dai figli, Alberto e Carlotta, che un tempo avevano ristorante dove ho avuto la fortuna...