Nell’estate del 1922, Roma accoglieva fra le sue mura il siciliano più sensuale, di cui Vincenzo Torrisi, sceso alla stazione una sera di cinque mesi avanti, con le narici subito colpite da un intenso profumo di pino umido e d’erba, sembrava essere stato il battistrada. Paolo veniva a iscriversi nella facoltà di Legge dell’Università e a frequentare i giornalisti, gli scrittori e i pittori, con la speranza incosciente di perdere al loro contatto la sua sicurezza di provinciale nei riguardi dell’arte, l’orgoglio dolce-amaro del farmacista di paese sinceramente convinto di essere superiore ai più celebrati poeti del suo tempo, e attraverso dubbi che non fanno dormire, e sentimenti intollerabili d’inferiorità, e rinunzie troppo totali per essere definitive, riguadagnarsi, entro un limite ristretto, ma relativamente sicuro, la facoltà di scrivere o dipingere, quella seconda respirazione deviata attraverso il cervello, senza la quale, dopo la lunga malattia degli scoraggiamenti e delle autocritiche, non vi può essere più né salute né vita. Ma già alla stazione Termini, un colpo di ponentino, scoprendo la giarrettiera di una ragazza, fece capire, dal modo con cui egli la guardò, che cosa sarebbe stata Roma per lui.
A Catania, nel 1922, un giovane non avrebbe mai visto, passeggiando per le strade, l’ombra di una ragazza accanto alla sua, a meno che non fosse uscito con la sorella. Qui invece Paolo, due ore dopo il suo arrivo in una pensione di via Cavour, sentì bussare alla porta e, cosa incredibile, una ragazza di ventun anni, la figlia della padrona, entrò sorridendo per chiedergli se fosse vero che nelle Calabrie la linea ferroviaria era interrotta da una frana. Paolo balbettò una risposta qualsiasi ma, guardandosi nello specchio, pensò che avrebbe dovuto eseguire degli esercizi di freddezza per evitare che un pallore mortale si spargesse sul suo viso in una circostanza che a Roma si annunziava frequente: l’ingresso di una ragazza che chiude, senza alcuna malizia, la porta dietro di sé.
In verità, sette giorni dopo, Paolo era in grado di ricevere la figlia della padrona con un colorito normale. Un’aria di probità spirava dai suoi modi di giovane ricco, dal suo riserbo e dalla sua discrezione, forma amabile dentro cui la timidezza gli tratteneva ancora la gelosia del siciliano. La ragazza si stese sul letto e gli fece capire che avrebbe commesso volentieri un peccato per cui non era prevedibile alcun rimorso. Paolo non gustò a pieno quella felicità perché era tutto intento a convincere se stesso che il fatto di una ragazza che si stende sul letto con le guance infuocate e le palpebre socchiuse, da cui trapela un invito più chiaro che non il segnale del lume agitato dietro le persiane dall’amante che ha visto partire il marito, non doveva spingere il cuore a sferrargli contro il torace calci da cavallo. Bisognava pensare che parecchie ragazze si sarebbero comportate così. E a questo pensiero una consolazione profonda, coincidendo col piacere raggiunto, lo fece trovare coperto di lacrime quando lei gli sollevò il viso con la mano che s’era messa davanti alla bocca per ripararsi la bava da bambino che le colava giù in quei momenti. «Oh caro» disse la ragazza, «tu piangi!»
La cosa la commosse talmente, le ispirò un così evidente bisogno di raccontarla, che, alcuni giorni dopo, egli si accorse che molte signore dello stabile lo guardavano con tenerezza, proprio come se lo vedessero piangere.
È impossibile descrivere come le confidenze di una ragazza qualunque, partitesi da una casa di via Cavour, possano a Roma percorrere interi quartieri e raggiungere per esempio un grande albergo di via Veneto. La figlia di un musicista, una signora divisa dal marito, ballando con Paolo all’Hotel Excelsior, gli disse bruscamente: «È vero che lei si commuove?». Anche questa volta Paolo ebbe uno specchio a disposizione per notare che il suo viso era diventato troppo pallido. Ma fu l’ultima volta che impallidì per una “sorpresa da provinciale”. Da questo momento egli si fece della sensualità di Roma un’idea talmente esagerata che nessuna sorpresa era più possibile per lui: in quel modo guariva per sempre dalla tendenza a impallidire, ma si metteva, nei riguardi della capitale d’Italia, fuori di ogni obiettività. I rapporti con la figlia del musicista furono troncati dalla conoscenza, che Paolo fece in un ristorante di via del Gambero, con una scenografa, la signorina Lilia Rovetta, una giovane pallida, robusta, coi capelli d’inchiostro, due grandi occhi rotondi e fissi di uno strano color verde smeraldo, un piccolo buco tra i denti attraverso il quale la lingua si affacciava come una goccia di sangue, la carne abbondante ma elastica, capace d’indurirsi più di un osso e d’inzupparsi di un sudore tenero come le lacrime; i piedi invece erano piccoli e rosei, da maiale, e le mani, corte e disossate, nella loro esilità riuscivano irritanti e provocatorie fino a suscitare nell’uomo più calmo la voglia di torcerle. Quell’incontro segnò una data nel soggiorno romano di Paolo: fino ad allora gli edifici della capitale lo avevano messo in uno stato di soggezione ed egli si sarebbe giudicato privo del gusto necessario per poterne apprezzare tutto il valore, e mancante di rispetto verso le grandi famiglie che li abitavano, se si fosse abbandonato con una donna ad atti nudi e crudi, non velati di romanticismo. Ma Lilia Rovetta acquistava, al primo turbamento, una tale segretezza nei gesti, e specialmente nella voce che, abbassandosi per confessare una impellente necessità e l’improrogabile decisione di soddisfarla, pareva subito assorbire tutti i rumori circostanti e spegnerli; e il suo corpo, non appena spogliato, secerneva dalla nudità sovreccitata una tale capacità d’isolarsi e chiudersi e profondare, quella che le seppie impaurite attuano espellendo una nuvola nera come l’inchiostro, ed ella, invece, rendendo sotterranea la luce che filtrava dalle imposte chiuse o pioveva dalla lampada attraverso la camicetta color lampone, che Paolo poté rifare con la voce rauca, senza più vergognarsi, l’esortazione che soleva rivolgere alle prostitute di un vicolo di Catania: «Chiamiamo col loro nome tutte le cose che tocchiamo», e questo a poche centinaia di metri dalle tre porte di San Pietro e dal palazzo Colonna, di cui aveva visto la prima rampa dello scalone di marmo coi camerieri in polpe e gli strascichi dei vestiti di seta, o da quel palazzo Chigi che la tetra solennità della tirannide innalzava di notte fino alle nuvole su cui il tramontato medioevo proietta ancora la sua luce.
Sotto la sensualità di Paolo, qualcosa di più profondo tornò a muoversi, la lussuria. E sebbene egli avesse vent’anni, la giovinezza, dopo quell’incontro, si chiuse definitivamente per lui, ponendo termine a quello stato di freschezza e quasi di innocenza, che per i sensuali è la semplice sensualità.
Paolo lasciò la pensione e affittò un appartamento nella stessa via Cavour, al secondo piano del palazzo in cui abitava Vincenzo. Le pensioni gli erano venute a noia da quando l’amico scrittore, affinando al massimo lo strumento principale della sua conoscenza poetica ch’era l’olfatto, ne descriveva sul giornale gli odori di cavoli e di frittura ristagnanti nei corridoi semibui, e, giunto anch’esso alla fantasia attraverso l’odorato per il suo sottile tanfo di bucce in decomposizione, il bidone della spazzatura collocato davanti alla porta sì da trattenere nella connessura del coperchio, come per un maligno avvertimento, la gonna svolazzante della figlia della padrona, che si recava di corsa in via Veneto a poggiare il gomito sul banco di Rosati.
In quest’appartamento, che sporgeva col suo balcone di pietra borraccinosa su una strada che ricordava quelle di Catania, piena com’era di rumorosa e frastagliata vita popolare, i rapporti tra Paolo e Lilia Rovetta non conobbero più limiti. Colori cementi, Bilance a ponte, Ferramenta e ottoname, Utensileria, Sementi, Calzoleria romana, Vino e olio, Orologeria, Pellami, Bar tabacchi nazionali ed esteri, Cartoleria Impero, Ricevitoria del lotto, dicevano le insegne nella strada sottostante, parlando l’umile linguaggio delle spese giornaliere; mentre nel palazzo di fronte a via del Pernicone, al secondo piano, risuonava una declamazione chiaramente folle, anche se di una follia momentanea, destinata a spegnersi nel silenzio della stanchezza o nel pesante respiro di un corpo ridominato dalla ragione. Gli assegni bancari che arrivavano da Catania, liberando Paolo e Lilia da qualunque preoccupazione pratica, facevano sì che i loro cervelli potessero dedicarsi esclusivamente al tentativo assiduo, accanito, maniaco (tanto somigliante a quello del prigioniero che vuole scavare la parete di granito con un cucchiaio) di sentire se al di là del piacere che, nonostante le diverse vie per le quali lo raggiungevano, in definitiva era sempre lo stesso, vi fosse un piacere più remoto e del tutto inesplorato, un passaggio sconosciuto che conducesse direttamente dietro la saracinesca che, in forma di sazietà e di nausea, s’abbatteva brutalmente ogni volta a troncare la voluttà. La quale, visto che i tentativi metafisici fallivano sempre, fu condita con gli ingredienti più umani e terrestri della gelosia e dell’odio.
Paolo non poteva mai uscire solo di casa, senza che Lilia cercasse con due o tre atti di renderlo completamente disarmato nei riguardi delle altre donne; e talvolta a queste operazioni ne aggiungeva un’altra, di apparenza casalinga, con cui, presi il ditale e l’ago, e inforcati gli occhiali (un esaurimento nervoso l’aveva resa leggermente presbite a vent’anni), ella lo cuciva pazientemente e chiudeva nel vestito come in un sacco.
Ma in queste passeggiate da solo, Paolo smaniava dentro l’artificiale stanchezza dei propri sensi, come in una camicia di forza, e il sapersi cucito a fil doppio gli suggeriva avventure con giovani sarte. Il nonno gli aveva regalato una Citroën a due posti. Favorito dal rumore morbido delle ruote di gomma, dal proprio stordimento, e da quell’aspetto irrilevante e di sogno che prendono le cose e le persone quando sfilano rapidamente e si sovrappongono l’una all’altra nel vetro del parabrezza, egli andava almanaccando il dialogo con la sartina: “Ha con lei gli strumenti di lavoro?”. La ragazza sorrideva incredula: “Perché? le devo attaccare un bottone?”. Lui serio: “Al contrario, ho bisogno che lei me ne scucia alcuni”. “Dove?” Serissimo: “Ho una certa esitazione a dirglielo, ma purtroppo la cosa è quella che è…”. E così di seguito, fino all’immaginazione di un episodio finale che gli scuoteva via dai sensi quella stanchezza estranea e odiosa come il sonno imposto da un ladro alla sua vittima con un fazzoletto inzuppato di cloroformio. Passando e ripassando davanti alle fermate dei tram, specialmente nelle ore di punta, o quando piovigginava, o quando una interruzione di corrente aveva formato lungo i viali file di vetture immobili come vascelli arenati, egli riusciva a imbarcare una ragazza o una signora matura. Qualcuna lo ringraziava: «Dio l’ha mandata. Devo trovarmi in clinica entro un quarto d’ora, prima che chiudano il cancello», «Chi ci sta in clinica?», «Mia madre; le hanno tolto un calcolo grosso come una noce», «L’operazione è andata bene?», «Non si capisce ancora…». E la conversazione diventava malinconica. O era una cameriera, felice di viaggiare in macchina e d’immergere la mano nel vento della corsa, ove forse ritrovava, purificata e ingentilita, l’abituale sensazione di quell’acqua corrente che le aveva reso le dita così rosse e gonfie. O era la cassiera di un bar licenziata il giorno avanti perché una verifica di cassa aveva messo in luce che né il padre né il fidanzato né una cugina aveva mai pagato il caffè.
Un pomeriggio, alle due carezze proibitive di Lilia, se ne aggiunsero in macchina altre due, da parte di una vedova di quarant’anni e di una signorina che aveva aspettato inutilmente per un’ora il fidanzato. Ma la sua fantasia non riusciva ancora a liberarsi della scena con la sarta, preparata meticolosamente, non solo nelle parole e nelle pause, ma perfino nella varia temperatura che avrebbero rivelato al contatto i cinque polpastrelli di lei. Era ormai così adirato per questa discordia tra la fantasia e la realtà (stonatura insopportabile per un sensuale dai nervi consumati) che prima di far salire in macchina una sconosciuta, le domandava se fosse sarta, e se sarta non era, le diceva: «Scusi, ma cerco la sarta di mia moglie che non conosco di persona», e la piantava lì rossa in faccia e vagamente disonorata agli occhi di pochi o molti che aspettavano il tram insieme a lei. Un pomeriggio una donna sporse il viso bruno e luccicante dentro lo sportello: «Che fa? Me la dà una strappata sino a Monteverde?».
Paolo rimaneva incerto: «Monteverde è lontano…».
«Se aspetto il filobus, mi licenziano perché faccio tardi.»
«Dove lavora?»
«Sono pantalonaia.»
Subito, con la reazione di tutti i suoi riflessi, Paolo aprì lo sportello e fece salire la donna. Mise in moto con la gamba tremante, intanto che la sua fantasia si contraeva per espellere al più presto la scena di cui era piena. Ma come nel collo di una bottiglia rovesciata, parole e gesti facevano una tale ressa che nulla riusciva a venir fuori. Paolo si guardò le ...