Così cominciò una sera, sul molo, il vecchio narratore Cecco.
Se vi va, signori cari, oggi vi racconterei una storia vecchissima, in cui si parla di una bella dama, di un nano e di un filtro magico, di fedeltà e infedeltà, di amore e morte, come del resto in tutte le vecchie e nuove avventure e storie.
La damigella Margherita Cadorin, figlia del nobiluomo Battista Cadorin, al tempo suo era la più bella tra le belle di Venezia, e le strofe e le canzoni in rima a lei dedicate erano più numerose delle finestre ad arco acuto dei palazzi sul Canal Grande e delle gondole che in una sera di primavera fanno la spola tra il Ponte del Vin e la Dogana. Cento e più giovani e vecchi nobili, di Venezia e di Murano, e persino di Padova, non riuscivano a chiudere occhio, la notte, senza sognare di lei, né a svegliarsi il mattino senza desiderare di vederla, e nell’intera città erano ben poche, tra le giovani gentildonne, quelle che non fossero gelose di Margherita Cadorin. Non spetta a me descriverla; io mi limito a dire che era bionda, alta e snella come un giovane cipresso, che i suoi capelli erano carezzati dall’aria e i suoi piedi dalla terra, e che il Tiziano, quando l’ha vista, ha espresso il desiderio di non dipingere, per un intero anno, nessun altro e nient’altro che costei.
In fatto di abiti, merletti, broccati d’oro bizantini, pietre preziose e ornamenti, la bella certo non aveva penuria, e ogni cosa nel suo palazzo era ricca e splendente. Vi si camminava su spessi tappeti variopinti provenienti dall’Asia Minore, le credenze rigurgitavano di vasellame d’argento, le tavole erano ricoperte di fine damasco e splendevano di sontuose porcellane, i pavimenti dei salotti erano di mosaico, e pareti e soffitti, quando non erano rivestiti di Gobelins, di broccato e sete, erano ornati di graziosi, gai dipinti. Né mancavano certo i servi, e tanto meno gondolieri e barcaioli.
Certo, anche in altre case c’erano cose altrettanto costose e dilettevoli; v’erano palazzi più grandi e più ricchi di quello della bella, con credenze ancor più traboccanti, e stoviglie, tappeti e arredi ancor più preziosi. In quell’epoca, Venezia era ricchissima. Ma il gioiello che damigella Margherita possedeva in esclusiva e che le attirava l’invidia di molti più ricchi di lei, era un nano di nome Filippo, alto meno di tre spanne e con due gobbe, un ometto senza uguali. Filippo era nato a Cipro, e quando il signor Vittorio Battista l’aveva portato dai suoi viaggi, parlava solo il greco e il siriano, mentre adesso si esprimeva in un veneziano così puro, che lo si sarebbe detto venuto al mondo sulla Riva oppure nella parrocchia di San Giobbe. Quanto la sua padrona era aggraziata e snella, tanto brutto era il nano; accanto a quel mostriciattolo contorto, essa appariva due volte più alta e regale, come può esserlo il campanile di una chiesa isolana a paragone della capanna di un pescatore. Le mani del nano erano rugose, scure e con le nocche tutte contorte, la sua andatura indicibilmente ridicola, il naso troppo grosso, i piedi piatti e volti all’indentro. Pure, andava abbigliato come un principe, tutto sete e damaschi.
Già l’aspetto esteriore faceva di Filippo un tesoro; forse non solo in Venezia, bensì in tutt’Italia, Milano compresa, non esisteva figura più bizzarra e grottesca; e parecchie maestà, altezze o eccellenze, volentieri avrebbero pagato l’ornino a peso d’oro, se fosse stato in vendita.
Ma, anche se nelle corti e nelle ricche città poteva darsi che esistessero nani pari a Filippo in fatto di statura e aspetto, non ce n’era uno che gli stesse alla pari in fatto di spirito e talento. Si fosse trattato solo di sagacia, quel nano avrebbe potuto tranquillamente sedere al Consiglio dei Dieci oppure essere impiegato in missione diplomatica. Non solo parlava tre lingue, ma era versato in storia, era un ottimo consigliere e sempre pieno di trovate, capace sia di raccontare vecchie storie che di coniarne, con la stessa abilità, di nuove; e, se sapeva dare saggi pareri, era anche capace di tiri maligni e, se lo voleva, sapeva far morire uno dalle risa come pure ridurlo alla disperazione.
Nelle giornate serene, quando donna Margherita sedeva sull’altana per far schiarire dal sole i suoi splendidi capelli, come voleva allora la moda, era sempre in compagnia delle sue cameriere, del suo pappagallo africano e del nano Filippo. Le cameriere inumidivano e pettinavano la lunga chioma della signora sull’ala dell’ampio copricapo perché si imbiondisse, e la spruzzavano d’acqua di rose e di acque greche, e facendolo raccontavano alla dama tutto quanto era accaduto o stava per accadere in città: decessi, solennità, matrimoni e nascite, furti e comicità. Il pappagallo sbatteva le ali multicolori ed eseguiva i suoi tre numeri, consistenti nel fischiare una canzone, belare come una capra e gridare “buonanotte!”. Il nano sedeva ai piedi della damigella, immobile al sole, leggendo antichi libri e rotoli, facendo poca attenzione sia alle chiacchiere delle fantesche che agli sciami di mosche. E poi, ogni volta succedeva che, dopo un po’, l’uccello variopinto cominciasse a ciondolare, a sbadigliare, e s’addormentasse, che le fantesche chiacchierassero con minor vivacità e alla fine se ne stessero zitte, continuando il loro lavoro in silenzio, con gesti stanchi; esiste forse luogo, infatti, su cui il sole di mezzogiorno splenda più caldo e assopente che sull’altana di un palazzo veneziano? E allora la signora si faceva di cattivo umore e rimbrottava le fantesche se queste le lasciavano asciugare i capelli o i loro gesti si facevano goffi. Quindi, inevitabilmente veniva il momento in cui gridava: «Portategli via quel libro!».
Le fantesche allora strappavano il libro dalle ginocchia di Filippo e il nano, dopo essersi aggrondato per un istante, subito si controllava e chiedeva con tono cortese che cosa preferisse la sua signora.
E lei ordinava: «Raccontami una storia!».
Il nano allora: «Un momento che ci penso» e si metteva a riflettere.
A volte accadeva che la riflessione durasse troppo a lungo, per cui donna Margherita lo spronava gridando. Ma lui scuoteva pacato il testone troppo grosso per il suo corpiciattolo e replicava con tono imperturbabile: «Dovete avere ancora un po’ di pazienza. Le belle storie sono come una nobile fiera. Restano nascoste, e spesso accade di doversene stare a lungo alla posta, all’imboccatura di forre e selve. Lasciatemi dunque riflettere!».
Ma quando ci aveva pensato a sufficienza e iniziava a raccontare, non si fermava finché non giungeva alla fine, e il suo racconto fluiva ininterrotto, come un fiume che scenda dai monti e nel quale tutte le cose si rispecchiano, dai fili d’erba alla volta azzurra del cielo. Il pappagallo dormiva, di tanto in tanto arrotando il becco ricurvo nel sonno, l’acqua dei rii era immota, sì che le immagini delle case riflesse vi si scorgevano come oggetti concreti, il sole ardeva, le fantesche lottavano disperatamente contro il sonno. Ma il nano non sonnecchiava affatto e, non appena cominciava a dar prova della propria arte, si trasformava in mago e re. Spegneva il sole e conduceva la sua padrona che ascoltava in silenzio ora per neri boschi spaventosi, ora sul fondo azzurro e fresco del mare, e ancora per le strade di città straniere e favolose, poiché l’arte di raccontare egli l’aveva appresa in Oriente, dove i narratori sono tenuti in altissimo conto, e sono maghi capaci di giocare con l’animo degli ascoltatori, come un fanciullo con la palla.
Quasi mai le sue storie iniziavano in terre straniere, dove lo spirito degli ascoltatori non era facilmente in grado di volare con le proprie forze: prendevano invece le mosse da ciò che si può vedere con i propri occhi, a volta a volta un fermaglio d’oro, una stoffa di seta, qualcosa insomma di vicino e di presente, e piano piano trascinava la fantasia della sua signora dove voleva lui, il nano, narrando degli antichi proprietari di quei tesori oppure dei loro artefici e acquirenti, sì che la storia, scorrendo naturalmente e lentamente, dall’altana del palazzo scendeva nei barconi dei mercanti, e dai battelli si trasferiva sulle rive del porto, e di qui a bordo di una nave diretta ai più lontani lidi del mondo. Chi lo ascoltava aveva l’impressione di compiere personalmente il viaggio e, se in realtà restava a Venezia, il suo spirito vagava, esilarato o tremante, su mari lontani e per luoghi favolosi. Ecco, così raccontava Filippo.
Oltre a queste meravigliose favole per lo più orientali, riferiva anche avventure ed eventi reali di tempi antichi e nuovi, i viaggi e i dolori di re Enea, gli eventi del regno di Cipro, le vicende di re Giovanni, le imprese del mago Virgilio e gli straordinari viaggi di Amerigo Vespucci. E non basta, perché sapeva inventare ed esporre le storie più straordinarie. Un giorno donna Margherita, alla vista del pappagallo sonnecchiante, gli aveva chiesto: «Tu che sai tutto, che cosa sta sognando adesso quell’uccello?». E il nano, dopo aver riflettuto solo per brevi istanti, aveva cominciato a riferire un lungo sogno, quasi fosse egli stesso il pappagallo, e proprio quando era giunto alla fine, ecco il pappagallo svegliarsi, belare come una capra e sbattere le ali. Oppure accadeva che la dama prendesse una pietruzza, la gettasse nell’acqua del canale sottostante, e, uditone il tonfo, si rivolgesse al nano chiedendogli: «E allora, Filippo, dov’è adesso la pietruzza?». E subito il nano cominciava a dire di come la pietruzza nell’acqua si imbattesse in anguille, pesci, granchi e stelle marine, e incontrasse navigli affondati e spiriti acquorei, coboldi e sirene, delle cui vite e avventure lui, il nano, tutto sapeva ed era in grado di riferire esattamente quanto estesamente.
Sebbene madamigella Margherita, al pari di tante ricche e belle signore fosse altera e dura di cuore, provava molto affetto per il suo nano e badava a che tutti lo trattassero nel migliore dei modi. Solo lei si toglieva di tanto in tanto il ghiribizzo di tormentarlo un pochino: non era forse sua proprietà? Ora gli toglieva tutti i libri, ora lo chiudeva nella gabbia dei pappagalli, oppure gli faceva perdere l’equilibrio sul pavimento lucido di una sala. Ma non lo faceva con malignità, e del resto Filippo non se ne lamentava mai. Nulla però dimenticava, e a volte nelle sue fiabe e favole inseriva piccole allusioni, accenni e punture di spillo, che la damigella tollerava di buon grado. Del resto, si guardava bene dal provocarlo fuor di misura, dal momento che tutti ritenevano che il nano fosse in possesso di conoscenze segrete e misteriosi poteri. Si sapeva per certo che padroneggiava l’arte di parlare con vari animali, e che le sue previsioni di temporali e burrasche erano infallibili. Tuttavia, per lo più se ne restava muto quando qualcuno lo assillava con domande in merito, e quando finalmente alzava le spalle sbilenche e accennava a scuotere il testone rigido, i curiosi si dimenticavano delle loro richieste e si sbellicavano dalle risate.
Ogni uomo prova il bisogno di affezionarsi a qualche essere vivente e di dargli prova del proprio amore, e anche Filippo, oltre che per i suoi libri, nutriva straordinario attaccamento per un cagnolino nero che gli apparteneva e che anzi dormiva al suo fianco. Era il dono di un corteggiatore sfortunato di madamigella Margherita, e questa l’aveva ceduto al nano in circostanze alquanto particolari. Già il primo giorno, il cagnolino aveva avuto un incidente: era rimasto schiacciato da una porta a bilico. Lo si sarebbe dovuto abbattere, perché la porta gli aveva fratturato una zampa; ma il nano aveva implorato che glielo affidassero e l’aveva ottenuto in dono. E, grazie alle sue cure, la bestiola era guarita e mostrava grande riconoscenza per il suo salvatore. La zampa gli era però rimasta storta e il cagnolino zoppicava, ragion per cui tanto più sembrava adeguato al suo padrone; e a tale proposito a Filippo toccava sentirne di cotte e di crude.
Se quell’amore tra nano e cane poteva sembrare ridicolo alla gente, non per questo era meno sincero e devoto, e credo che più di un ricco nobiluomo non fosse amato con altrettanta dedizione dai suoi migliori amici quanto il bolognese dalle gambe storte da Filippo. Il quale l’aveva battezzato Filippino, e da questo gli era derivano il soprannome di Fino; e gli riservava le delicate cure che si usano con un bambino, gli parlava, gli portava bocconcini squisiti, lo faceva dormire nel suo lettuccio da nano, e spesso giocava a lungo con lui, in una parola faceva oggetto l’intelligente bestiolina di tutto l’amore della sua vita di povero esule, sopportando i molti scherni del servidorame come quelli della sua signora. E vedrete tra poco come quest’attaccamento non fosse affatto risibile, perché ha portato disgrazia, non soltanto al cane e al nano, bensì a tutta la casa. E non deve stupirvi che io spenda tante parole per un piccolo cane da grembo zoppo, dal momento che non mancano certo esempi di come da cause anche assai più insignificanti derivino conseguenze gravissime.
Molti erano gli uomini d’alto rango, ricchi e belli, che appuntavano gli sguardi su Margherita e ne portavano l’immagine impressa nel cuore; lei però restava superba e fredda, quasi al mondo non vi fossero uomini. Vero è che, fino alla morte di sua madre, donna Maria di casa Giustiniani, era stata allevata molto severamente senza contare che era dotata, per natura, di un carattere altero, riluttante all’amore, sì che a ragione veniva ritenuta la più bisbetica bellezza di Venezia. Per causa sua, un giovane nobile di Padova era stato ucciso in duello da un ufficiale milanese, e quando Margherita l’aveva saputo e le erano state riferite le ultime parole del morto, a lei destinate, su quella candida fronte non s’era vista passare neppure la più lieve ombra. Quanto ai sonetti che le venivano dedicati, li faceva immancabilmente oggetto di beffa, e allorché due cavalieri delle più nobili famiglie della città avevano chiesto quasi contemporaneamente e solennemente la sua mano, Margherita aveva costretto il padre, nonostante le adirate rimostranze e le molte obiezioni di questi, a respingerli entrambi, e ne era derivata una tenace discordia tra le famiglie.
Solo che il piccolo dio alato è un briccone e non si lascia sfuggire facilmente la preda, soprattutto quand’è così bella. Spesso si è visto come proprio le donne crudeli e superbe siano quelle che si innamorano più all’improvviso e con maggior violenza, così come ai più rigidi inverni di solito fanno seguito le primavere più calde e più serene. Accadde dunque, in occasione di una festa nei giardini di Murano, che Margherita donasse il proprio cuore a un giovane cavaliere e navigatore testé tornato dal Levante. Si chiamava costui Baldassarre Morosini, e non aveva nulla da cedere alla dama, che non sapeva distoglierne lo sguardo, in fatto di nobiltà, bellezza e maestà. Ma, se in lei tutto era chiaro e leggero, in lui tutto era scuro e solido, ed era facile capire che a lungo era rimasto per mare e in paesi stranieri e che era amante dell’avventura; sulla sua fronte abbronzata i pensieri scorrevano come lampi e sopra il naso sottile leggermente arcuato luccicavano due occhi neri, caldi, penetranti.
Era inevitabile che anch’egli ben presto notasse Margherita; e, non appena ne ebbe saputo il nome, Baldassarre provvide subito a farsi presentare al padre di lei e a lei stessa, cosa che fu accompagnata da convenevoli e lusinghiere parole. Sino alla fine della festa, che terminò verso mezzanotte, Baldassarre, nei limiti in cui lo permetteva la decenza, stette sempre al fianco di lei, e Margherita pendette dalle sue labbra anche quando le parole di lui erano rivolte ad altri, con maggior zelo che se avesse ascoltato il Vangelo. Com’è logico, il signor Baldassarre era spesso invitato a raccontare dei suoi viaggi, imprese e avventure perigliose, e lo faceva con molto garbo e spirito, per cui tutti stavano ad ascoltarlo volentieri. In realtà, però, le sue parole erano tutte rivolte a un’unica ascoltatrice, la quale dal canto suo non se ne lasciava sfuggire una. Egli riferì delle più straordinarie vicende con noncuranza, quasi che chiunque altri le avesse già vissute per conto suo, badando a non dare eccessivo risalto alla propria persona, come invece son soliti fare i navigatori e tanto spesso i giovani. Solo una volta, raccontando di uno scontro con pirati africani, disse di una grave ferita toccatagli, di cui portava la cicatrice sulla spalla sinistra, e Margherita stette ad ascoltare trattenendo il fiato, incantata e spaventata a un tempo.
Alla fine, Baldassarre accompag...