Un anno dopo
Contraevo i muscoli e mi sollevavo da terra con forti movimenti controllati per poi riavvicinarmi di nuovo al pavimento. Su e giù, finché non cominciarono a tremarmi le braccia e il respiro diventò sempre più affannoso. Feci ancora un paio di flessioni, giusto per dimostrare a me stessa che ce la potevo fare. Terminata la serie sulle braccia, mi girai di schiena e passai agli addominali.
Sentii bussare alla porta e il rumore mi distrasse dai miei esercizi meccanici e ripetitivi. «Tesoro? Sono preoccupata, c’è troppo silenzio là dentro.»
Mi lasciai cadere all’indietro sul pavimento e voltai lo sguardo verso la voce, scostandomi i ricci ormai sudati dalla faccia.
Diane, la mia mamma affidataria, schiuse leggermente la porta e sbirciò dentro la stanza.
Mi tirai su a sedere e mi asciugai la faccia con la manica. «Puoi entrare, ho quasi finito.»
Lei aprì la porta del tutto.
«Ci dai proprio dentro.»
Presi in mano il bicchier d’acqua appoggiato sul comodino. «Credevo che fosse il mio dovere.»
Con un cenno della testa indicò i libri e i fogli sparpagliati ovunque sulla scrivania. «Non capisco come tu faccia ad avere così tante energie. Te ne stai sempre alzata fino a tardi.» Un’espressione preoccupata le increspava il viso color ebano. «Lo so che non dormi abbastanza.»
In effetti, negli ultimi anni il mio sonno non era mai stato particolarmente riposante, ma non ne facevo parola con nessuno. «Avevo un sacco di arretrato da recuperare.» Nel corso dell’ultimo anno vissuto con Diane ero riuscita a risollevare la mia media scolastica sopra il sei stiracchiato, ma di poco.
«Hai fatto molto di più che recuperare. Hai controllato la posta oggi?»
«Sì. Ancora nulla.»
Alzò le spalle. «Arriverà, tesoro. Me lo sento.» A volte avevo l’impressione che quell’unica domanda per il college che avevo presentato fosse molto più importante per Diane che per me.
Eppure, per quanto mi scocciasse ammetterlo, avevo iniziato anch’io a sperare in un futuro che non avevo mai creduto possibile.
«Fai qualcosa con Nadia stasera?» chiese Diane.
«Vado a dormire da lei. La madre è alle Seychelles con il suo nuovo ragazzo.»
«Non vi cacciate nei guai.»
Non ci cacciavamo mai nei guai. Era per quello che Nadia piaceva così tanto a Diane. A parte quella sua mania di dover sempre apparire perfetta, Nadia era, be’, perfetta. O forse no. Mi rabbuiai. Sembrava davvero stressata ultimamente.
Dopo una doccetta veloce, infilai la mia roba in uno zaino e uscii. Il tragitto in macchina fino a casa di Nadia era breve, ma svoltare nella sua via era come entrare in un universo parallelo. Mi chiedevo se i suoi vicini chiudessero le porte a chiave e abbassassero le tapparelle quando mi vedevano arrivare. O forse pagavano qualcuno che lo facesse per loro.
Man mano che mi avvicinavo alla fila di garage in fondo al viottolo che portava a casa di Nadia, la vecchia Toyota Corolla tutta ammaccata che lo zio di Diane mi aveva prestato mi sembrava sempre più un piccolo rottame.
Parcheggiai accanto alla BMW di Tegan. Di solito, gli altri amici di Nadia sparivano nella nebbia quando venivano a sapere che ero nei paraggi. Anche se ormai ci frequentavamo da quasi un anno, i suoi amici – soprattutto Tegan – non riuscivano ancora a farsi una ragione del fatto che lei passasse del tempo con una come me. E così, circa una settimana prima, Nadia si era stufata della situazione e aveva detto a Tegan chiaro e tondo che io non me ne sarei andata da nessuna parte e che lei avrebbe dovuto almeno rivolgermi la parola.
Avrei preferito che Nadia mi consultasse, prima di fare una cosa del genere.
Non avevo ancora raggiunto la soglia che Nadia spalancò la porta d’ingresso. «Avevo intenzione di lasciarvi fare con i vostri tempi, ma a quanto pare il terapista di Tegan le ha detto che le farebbe bene legare un po’ con te.»
«Mi sembra davvero… una pessima idea.»
Si morse il labbro, a metà tra il divertito e l’imbarazzato. «Non ti incavolare.»
Mi misi lo zaino in spalla e mi incamminai controvoglia su per gli scalini d’ingresso.
Avevo quasi superato l’istinto di prendere Tegan a calci nel sedere. «D’accordo, non c’è problema. Basta che non si metta a parlare di cambi di look, altrimenti la meno.»
Tegan fece capolino alle spalle di Nadia. Un taglio castano corto molto alla moda le incorniciava il viso. «Ciao, Lela. Sono contenta che la tua guardia del corpo ti abbia lasciato fare un salto» disse mentre passava a Nadia una bibita in bottiglia.
Tegan faceva davvero pietà nel legare con la gente.
Nadia prese la bottiglietta di plastica e la usò per dargliela in testa con fare scherzoso. «Dacci un taglio. Stasera mi voglio rilassare.»
Tegan le fece la linguaccia, poi si voltò verso di me. «Ehi, ho letto che c’è un festival dominicano, questo weekend. Potremmo andarci per festeggiare le tue radici.»
Chiusi gli occhi e scossi la testa, infastidita da questa nuova versione di Tegan che mi rivolgeva la parola.
«Lela non viene dalla Repubblica Dominicana» rispose Nadia al mio posto.
«Be’, ci sono andata vicino, no?» Tegan sembrava sinceramente confusa, forse perché ero l’unica persona di colore con cui avesse mai parlato. «Allora, di dove sei?»
«Ehm, di qui?»
Lei alzò gli occhi al cielo. «No, intendo di dove sei originaria?»
Strinsi talmente forte gli spallacci dello zaino che le nocche mi diventarono bianche. «Di qui.»
«Oh, ma andiamo, Lela, dacci qualche dettaglio. Magari c’è un festival anche per la tua gente.»
Sospirai. «Credo di essere portoricana.»
«Come sarebbe a dire, credi? Non sono quelle cose che uno dovrebbe sapere per certo?»
Nadia si mise in mezzo e mi offrì la bottiglietta che aveva in mano. «Puoi berla tutta, a patto che non la usi come arma per ucciderla» mi supplicò.
«Be’, Tegan» cominciai a spiegarle con il mio tono stile “ti meriteresti una morte lenta e dolorosa”, «l’ultima volta che ho visto mia madre avevo quattro anni e non mi è proprio venuto in mente di chiederglielo, allora.»
Tegan annuì come se le avessi appena detto che adoravo i reality d’amore. «Oh, che peccato. Speravo proprio che fossi cubana. Fanno dei panini che sono la fine del mondo.»
Nadia chiuse gli occhi e scosse la testa. «Perché non vai a ordinare la pizza?» E le piazzò in mano un menù.
Tegan ci mostrò il dito medio fresco di manicure e si avviò trionfante verso la cucina.
Mentre appoggiavo lo zaino sul tavolo del soggiorno, vidi la grossa busta con il logo dell’Università del Rhode Island. «Oddio, è quello che penso?»
Nadia annuì. «È arrivata oggi. L’hai ricevuta pure tu?»
«No. Voglio dire, non ancora.» Presi la busta e la osservai. «Congratulazioni, Nadia» dissi con un sorriso a trentadue denti. «Abbiamo qualcosa da festeggiare, stasera.»
Lei mi rispose con un sorrisetto tirato. «Grazie.»
Si voltò e andò verso la cucina. Chiaramente, si aspettava che la seguissi, invece rimasi lì, con la busta in mano, a chiedermi cosa fosse cambiato. Sei mesi prima, mi aveva quasi obbligato a compilare la domanda d’iscrizione. Fino ad allora, non avevo mai pensato sul serio al futuro. Ero troppo impegnata a cercare di sopravvivere a ogni istante del presente. Ma l’incontro con Nadia aveva cambiato tutto. E così avevo riempito il modulo e l’avevo inviato. All’inizio Nadia era carica come una molla. Mi aveva portata a fare il giro del campus e non faceva altro che parlare di quanto sarebbe stato fantastico se fossimo state ammesse entrambe. Negli ultimi tempi, però, aveva quasi smesso di parlarne. Rimisi la lettera al suo posto e mi diressi verso la cucina.
Qualche ora dopo, eravamo stravaccate di fronte al gigantesco schermo ultrapiatto nella stanza dei divertimenti. Tegan aveva praticamente perso i sensi, provata dal terzo bicchiere di Merlot.
Nadia si stringeva al petto il calice di vino come se avesse paura di farlo cadere. «Sei la prima che si sia congratulata con me per essere stata ammessa alla URI. Tegan non è rimasta impressionata perché lei andrà alla Wellesley e mia mamma…»
Appoggiai la bibita su un sottobicchiere e misi il muto alla TV. «Immagino che non fosse contenta.»
La signora Vetter non era contenta di tante cose, soprattutto del fatto che avessi stretto amicizia con sua figlia. Non sapevo come fosse prima che il papà di Nadia morisse, quindi cercavo di darle il beneficio del dubbio.
Nadia scosse la testa e bevve un sorso di vino. «Vuole che vada alla Wellesley con Teg.» Fece un sorrisetto malinconico. «Io preferirei restare qui. La URI era abbastanza valida secondo mio padre…»
Mi alzai e andai verso la finestra, scostai i pesanti tendaggi e osservai la baia di Narragansett. Era stata lei a insistere per il college e io mi ero immaginata di intraprendere quell’avventura insieme.
Quando mi voltai a guardarla, mi lanciò uno sguardo della serie “ti leggo nel pensiero”. «Mi mancheresti anche tu, Lela. Ma non preoccuparti. Andremo al college che c’è qui, insieme. Ho bisogno di te per non impazzire.»
Me l’aveva già detto più di una volta. Che io le impedivo di andare a fondo. «Hai davvero troppa fiducia in me» mormorai.
«E tu ne hai troppo poca in te stessa. Andiamo, ho davvero bisogno di te. Puoi usare le tue strabilianti doti fisiche per tirarmi giù dal letto in tempo per le lezioni ogni mattina.» Appoggiò il mento sulle mani e sbatté le ciglia. «Diventiamo compagne di stanza?»
«Compgne di stanza? Ma l’hai vista la mia camera?» Scoppiai a ridere, non volevo farmi illusioni. Per il momento, non ero neanche stata ammessa.
Lei scrollò le spalle. «È un po’ disordinata e ora ti è venuta una strana ossessione per la fotografia. Ma posso conviverci.»
«Ehi, sei stata tu a regalarmi la macchina fotografica.»
Si mise a ridere. «E non mi sono mai pentita tanto di una cosa in vita mia. Ho creato un mostro.»
Avevo trascorso gran parte della mia vita a cercare di dimenticare quello che mi era successo. Ma da quando avevo conosciuto Nadia, avevo passato dei momenti che avrei voluto rivivere e tenere stretti. Quando mi aveva regalato quella macchina fotografica per il mio diciassettesimo compleanno, era stato come se mi avesse dato il permesso di immortalare ogni attimo, come se avesse voluto dirmi che la nostra amicizia era reale.
«Eppure non mi sembra che tu ti sia l...