L’amore non bisogna implorarlo
e nemmeno esigerlo.
L’amore deve avere la forza di attingere
la certezza in se stesso.
Allora non sarà trascinato,
ma trascinerà.
HERMANN HESSE
Fiera e imperturbabile, l’ape regina sedeva sul suo trono, respirava il polline giornaliero e dirigeva tutte le piccole api operaie che aveva al suo servizio. Non si scomodava mai, l’unico volo che faceva era quello del mattino, per sgranchire le sue zampette regali. Dopodiché tornava sul suo trono, specchiandosi nel riflesso dei raggi che il sole spediva sui braccioli della regale poltrona. L’orgoglio e la tracotanza erano maestri di musica che dirigevano puntualmente ogni suo suono, ogni suo movimento, ogni suo ordine.
Nel palazzo era temuta, rispettata e mai contraddetta. Tutti sapevano che il suo vizio principale era quello di mandare al patibolo chiunque avesse osato trasgredire a una sua regola. I poveri fuchi venivano utilizzati esclusivamente per il suo sollazzo. Negli altri villaggi girava voce che, dopo serate particolarmente calde, venivano giustiziati per evitare che potessero raccontare di lei e mettere in giro strani pettegolezzi sul suo conto.
Quella sera l’ape era intenta a provare degli abiti che si abbinassero con il suo corpo giallo e nero. Le avevano montato uno specchio gigante a est della finestra, affinché fosse esaudito il suo volere: usufruire dei raggi solari e nello stesso tempo dedicarsi alla sua bellezza. Le apette operaie le passavano interi guardaroba senza sosta, ma l’ape non sembrava soddisfatta di nessun vestito, neppure di quelli da cerimonia. D’altronde non voleva sposarsi, i maschi erano giullari adatti per la corte e non certo per dividere un letto regale. Doveva dormire sola nel suo letto, grande a dismisura, così grande da poter ospitare milioni di piccole apette di corte.
Quella sera, però, l’ape si annoiava nel provare i vestiti e il suo nervosismo, insinuandosi nelle viscere, le fece venire un certo appetito. Pensò che era stanca di farsi portare le solite deliziose pietanze: quella sera cercava qualcosa di più. Già, ma cosa? Aveva tutto nel suo piccolo mondo ricostruito, poteva ammirare paesaggi favolosi dalla sua nobile mansarda.
A un certo punto un bottone le si staccò dal vestito, il suo sguardo austero incrociò gli occhi di un’apina. Senza parole voleva dirle: “Raccoglilo!”. L’apina si chinò impaurita perché non riusciva a scorgerlo, era sgusciato sotto a un tavolino. L’ape regina iniziò a infastidirsi, già si sentiva parecchio insofferente, non aveva più voglia di provare niente. Voleva succhiare petali diversi, era così arrogante e viziata da non riuscire più nemmeno a gioire delle sue fortune. Mentre l’apina le restituiva il bottone, udì un rumore proveniente dal giardino.
La regina aveva ordinato silenzio assoluto, perciò diede disposizione di andare ad accertarsi che non vi fosse nessuno. Nell’intento di girarsi vide un fuco in giardino: sdraiato sotto a un albero con uno sguardo dolce e disteso, aveva gli occhi socchiusi e si godeva il silenzio. L’ape regina diede subito ordine di portarlo al suo cospetto: aveva deciso che l’incauto soggetto avrebbe allietato la sua noiosa serata e che avrebbe dovuto prepararle un bagno di miele.
Quando le api operaie andarono ad avvisare il fuco degli ordini della regina, egli sorrise e comunicò che non desiderava vivacizzarle la serata nel modo da lei prescelto. Aggiunse però che, se la regina fosse stata d’accordo, l’avrebbe portata a visitare il giardino dell’anima.
Le api, sconvolte per la notizia del rifiuto, corsero a riportarle il messaggio, convinte che il fuco sarebbe stato immediatamente punito con la morte. L’ape regina, invece, continuava a guardare meravigliata il fuco dalla sua finestra. Le venne in mente che questo giardino dell’anima non l’aveva visitato mai e si stupì del fatto che qualcuno conoscesse un posto a lei segreto. Pensò che avrebbe potuto rimandare l’uccisione del fuco e che, per ora, assecondarlo avrebbe potuto venirle utile per spezzare la noia della serata. Così, si fece cucire per l’occasione un vestito bellissimo dalle cinquanta ancelle prescelte, imponendo loro di terminarlo in un’ora. Nel frattempo, si fece servire una cena deliziosa disponendo tavolo regale e sedia ai bordi del davanzale, per continuare a tenere sott’occhio il fuco, per evitare che potesse fuggire al di là del recinto. Ordinò alle sue fide scudiere di sollevare il ponte levatoio e di interrompere l’accesso a ogni strada limitrofa, le incaricò anche di tendere le reti per evitare che il fuco potesse volare via.
Mentre mangiava, vedeva il fuco sorridere. Le sembrava che fosse cosparso da una strana luce di un colore impalpabile e indecifrabile. Non riusciva a comprendere quale fosse e nemmeno se potesse essere classificato nella scala dei colori. Avrebbe voluto possedere un vestito di quel colore, sarebbe però stato difficile farselo cucire, senza comprendere come fare a tingerlo.
Finita la cena, si fece pettinare e scese in giardino, si presentò dinanzi al fuco e gli porse la zampetta per farsela baciare. Il fuco, galantemente, la baciò e le disse: «Sei pronta a seguirmi nel giardino dell’anima?».
«Certo, fuco, è un posto che non ho mai visitato, perciò è mio diritto visitarlo, visto che io sono la regina e nulla può venirmi negato.»
«Ne sei sicura?» esclamò il fuco, arricciando le piccolissime palpebre dei suoi occhi neri.
«Certo, sono la regina io, non lo ricordi? Forse non sei di qui?»
«Non appartengo a posti, né luoghi; non ho padroni, anzi li detesto, poiché amo la semplicità e le piccole cose.»
«Le piccole cose? Come può un essere vivente amare le piccole cose quando può avere le grandi?»
«Perché è sempre per le piccole cose che ci si perde, è sempre nei dettagli che è nascosta la vera natura degli esseri viventi.»
L’ape regina non capiva il discorso del fuco, credeva che fosse un insieme di parole stupide dette per tentare di sfuggire al suo destino. Credeva che il fuco fosse così intelligente da comprendere che, dopo la serata, egli sarebbe stato giustiziato. Come poteva d’altronde graziarlo? Avrebbe forse spifferato in giro della sua manchevolezza, avrebbe potuto dirlo a tutti e ridicolizzarla: “La regina non conosce il giardino dell’anima...”. Che disonore terribile e che brusio raccapricciante sarebbe volato negli altri regni.
Il fuco sembrava tranquillo, le prese la zampetta regale e le disse:
«Sei pronta?»
«Certo, ma quanto c’è da camminare per raggiungere questo giardino? Dovrai portarmi in spalla!»
«Non servirà...» rispose il fuco. «Chiudi gli occhi.»
La regina chiuse gli occhi, sentì una schicchera lieve sul volto, li riaprì e si ritrovò in un giardino incantato dello stesso colore della luce che aveva intorno il fuco.
«Come siamo arrivati fin qui?»
«Non eri tu, regina, che dicevi che i dettagli non sono importanti? È un dettaglio sapere come siamo arrivati fin qui. Non provare a descrivere quel che si vede, prova, per una volta, a descrivere quel che si nasconde alla vista.»
La regina tacque. Per la prima volta nella sua vita non sapeva che cosa rispondere. Avrebbe dovuto sentirsi stizzita e offesa, perché qualcuno aveva osato rimbeccare i suoi pensieri, eppure il fuco la incuriosiva così tanto che perse di vista il suo orgoglio, per una volta. Davanti a lei c’erano tantissimi fiori, sembravano quasi trasparenti ed erano così luminosi. Istintivamente si chinò per raccoglierli, nessuno aveva mai messo in un vaso regale dei fiori di quel genere.
Cos’è questo vento che mi soffia dentro?
Forse è inquietudine.
E cos’è l’inquietudine?
È una sorta di agitazione indomita che ti brucia dentro,
è desiderio di cambiare, di rinascere, a volte è amore.
Il fuco incrociò il suo sguardo e le sorrise. «Prendine il succo.» Il fuco e la regina si chinarono insieme sui fiori e ne raccolsero il prezioso nettare. I fiori sembravano felici e la regina provò una sensazione mai avvertita prima di allora. Non riusciva a spiegarsi cosa le stesse accadendo; lasciò lo stelo del fiore. Il fuco le disse: «Brava, lascialo vivere. Prendine il succo, ma non la vita».
La regina in quel momento provò uno strano compiacimento del tutto diverso da quello che giornalmente provava nel poter scegliere sempre ogni cosa.
Avvertì un sussulto particolare, proveniva dal petto. Si sentiva quasi ubriaca, non capiva se era stato il nettare dei fiori o qualcos’altro; un vento d’ebbrezza la stava avvolgendo, si sentiva una danzatrice al suo primo spettacolo, trepidante, spaurita e allo stesso tempo raggiante.
A un certo punto vide un viottolo. A sinistra vi era un cerchio di sassolini bianchi, a destra un cerchio di sassolini neri.
Il fuco esclamò: «Vedi, questi sono il bene e il male, ogni uomo ha due nature indivisibili. Non possono esistere l’una senza l’altra».
Una fontanella dalle forme leggiadre era posizionata esattamente alla fine del sentiero, fra i due cerchi equidistanti. Dall’imboccatura sgorgava miele e il fuco incitò l’ape regina a berlo.
Le porse le sue zampette e le riempì, e la regina bevve per la prima volta dalle zampette di un fuco, senza aver bisogno di ciotole reali, bicchieri di platino e piatti di cristallo.
Nell’aria vi erano delle strane vibrazioni, sembravano le note di un’arpa in lontananza.
«Che cos’è?» domandò la regina.
«È musica!» rispose il fuco. «Vieni...»
Vi era un coro di cicale su un albero di fichi, cantavano all’unisono.
L’ape regina sorrise, e insieme al fuco volle salire sull’albero. Le cicale le insegnarono le canzoni, l’accolsero nella loro umile dimora, piccola e stretta, ma ricolma di felicità e candore.
L’ape si sentì piccolissima. Cantò a squarciagola per così tante ore da non ricordare più tutti gli impegni del giorno dopo.
Pensò che il fuco sarebbe divenuto un buon re, pensò che lei avrebbe voluto sposarlo e tenerlo per sempre con sé nel suo castello. Pensò anche che le cicale si sarebbero potute trasferire alla sua corte: le avrebbe fatte vivere nel lusso, le avrebbe trattate molto meglio delle sue ancelle.
«Non voglio essere re e loro non vogliono essere schiave.» Il fuco si espresse così in tutta la sua lucentezza.
«Come hai fatto a leggere il mio pensiero?» esclamò l’ape sbalordita.
«Abbandona questa materialità, corri oltre il tuo castello e il tuo denaro. Abbraccia il sentiero dell’anima, vedrai che anche tu riuscirai a leggere dentro di te e dentro gli altri.»
«Cos’è questo vento che mi soffia dentro, fuco?»
«Forse è inquietudine, regina!»
«E cos’è l’inquietudine, fuco?»
«È una sorta di agitazione indomita che ti brucia dentro, è desiderio di cambiare, di rinascere, a volte è amore.»
«L’amore cos’è? È avere bisogno degli altri?»...