Piacere, sono Rosy. Chiedo scusa in anticipo per la mia timidezza e il mio pudore: quello esplosivo è mio marito, tant’è che io sono sempre stata non “Rosy”, ma “Rosy-la-moglie-di-Bruno”, detto tutto di seguito, come se fosse una parola sola. Un soprannome. L’ho sempre trovato un po’ straniante, venire identificata come “la moglie di” e non come persona, fino a quando Bruno si è ammalato. Man mano che lui affrontava il processo di guarigione, a me diventava chiara una cosa: che io non ero né volevo essere altro da “Rosy-la-moglie-di-Bruno”, e che quel nomignolo nascondeva un dono preziosissimo.
Bruno e io abbiamo sempre parlato tanto. A volte ci siamo letteralmente sfiniti di parole, e l’abbiamo fatto proprio perché siamo marito e moglie, innamorati da più di vent’anni. Lo conosco come conosco me stessa, forse persino di più.
È grazie a questo se oggi, che lui non può parlare, posso essere anche la sua voce. E raccontarvi la nostra storia a nome mio e a nome suo.
Rosy-la-moglie-di-Bruno
Con Bruno non ci si annoia mai.
Ci conoscevamo da quindici giorni quando mi ha regalato un biglietto colorato, poi mi ha chiesto di sposarlo. Sui bordi del foglio aveva disegnato la mappa di quei tre o quattro luoghi che avevamo fatto in tempo a frequentare insieme. L’aveva intitolata Tappe di un vero amore. Sul retro, invece, aveva trascritto il testo della nostra canzone, Cuori di Gesù, di Lucio Dalla.
Al centro aveva scritto questo:
Sono quindici giorni che vivo, che respiro, che guardo avanti senza paura, che sorrido, che mi gaso, che sono felice, che voglio vivere dividendo tutto quello che ho, che canto, che ho voglia di correre, che mi sveglio contento, che sogno, che parlo più volentieri, che amo le cose semplici, che mi piace la gazzosa, che ho tanto bisogno di affetto, che so scegliere, che amo le caramelle mordicchiate e succhiate, che ho voglia di dividere il mio letto, che la notte è bella, che il 112 con le ruote lisce… Che ti amo.
Io gli ho detto: «Sì, ti sposo». Cos’altro potevo fare?
Già al nostro primo appuntamento nella testa mi rimbombava questo pensiero: “Rosy, non puoi permetterti di sbagliare”. Bruno è forte, sicuro di sé, rigoroso, carismatico, divertente, lunatico, ma anche molto sensibile. Ho capito subito che, con lui, non avrei potuto impegnarmi per meno dell’eternità. Prendere o lasciare, con Bruno è così. E io ho preso.
Perché prima non mi era mai successo, di fidarmi totalmente di una persona che non fosse la mia mamma, una delle mie sorelle, un’amica d’infanzia. Non mi era mai successo di sentirmi completamente a casa. Con Bruno, invece, avvertivo di essere al mio posto.
Noi varesotti non siamo inclini a lasciare la nostra terra, e l’idea di dovermi spostare per amore, o per lavoro, mi aveva sempre un po’ disturbato. Eppure con lui sarei andata ovunque, non mi importava niente del posto, del contesto. Mi sarebbe andato bene il Burundi come Gavirate, la villa come la capanna.
Era il 16 maggio 1988, e non ci siamo più lasciati.
In questi ventisei e passa anni, ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare: Bruno che gioca con i nostri figli a inventarsi sketch e spettacolini, sempre più raffinati con il passare degli anni, e fissa tutto su una quantità incomprimibile di filmini Super 8, che occupano diversi metri cubi in cantina; Bruno che imita la Benedetta Parodi in cucina, facendomi scompisciare mentre cerco di finire di arrostire il coniglio; Bruno che si sveglia e come prima cosa mette su un disco, e la casa risuona di musica fino a notte fonda; amici che vengono a trovarci per pranzo, per cena, di pomeriggio, e Bruno che tutte le volte – invece che con le diapositive – li sfinisce uno per uno con la visione di una qualche edizione del Palio di Siena; Bruno che si inventa una sorpresa per il mio compleanno, ma non riesce a tenere il segreto e canta lui stesso con giorni d’anticipo; Bruno che va in bicicletta con i nostri figli, si distrae e si spiaccica contro un albero, e Gianluca e Lorenzo, ridendo come matti, finiscono per abbracciarne altri due, di alberi.
Con Bruno, come dicevo, non ci si annoia mai. Neanche adesso. Negli ultimi due anni lui ha ricevuto una botta dal destino alla quale proprio non eravamo preparati; ma abbiamo trovato il modo di riprenderci e siamo andati avanti, noi due, come la squadra che siamo sempre stati e che sempre saremo.
Negli ultimi due anni abbiamo rinnovato i nostri voti, Bruno è tornato a sorridere, a guardare le comiche di Stanlio e Ollio, a farsi sbaciucchiare volentieri dalle ragazze del basket che ha allenato per anni prima di diventare un Fico d’India, a divorare quintali di cioccolata, e io a cercare di razionargliela. Siamo andati sul lago di Lecco a prendere un gelato, a San Siro a vedere l’Inter, a Siena a tifare per la contrada dell’Istrice, in vacanza con gli amici, fuori a cena nel nostro ristorante preferito. Siamo tornati al mare.
Non è come prima. Però ci siamo, e siamo insieme.
Il presagio della catastrofe, a ben pensarci, è già insito nei voti coniugali: “Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, in ricchezza e in povertà, nella salute e nella malattia”. Te lo fanno addirittura promettere, di esserci in caso di problemi, ma chi ci fa caso veramente?
Certo, c’è la consapevolezza che uno dei due, a meno che non ci si separi, dovrà prendersi cura dell’altro, che uno dei due prima o poi rimarrà da solo. Ma chi ci pensa? Bruno e io siamo sempre stati bene, per fortuna, e ci siamo sentiti a lungo immortali, invincibili, persino giovani. Non ci siamo accorti di commettere un errore. Bruno ha 58 anni, io 52: negli anni Sessanta, probabilmente, saremmo stati nonni, oggi siamo appena fuori dalla fascia d’età che si permette di definirsi “ragazzo”. Fino al 17 gennaio 2013 ci siamo sentiti proprio così: due ragazzi, forse con un principio di spelacchiamento, che però sapevano godersi la vita.
La sera, prima di dormire, Bruno e io ci siamo spesso detti che, qualsiasi cosa fosse accaduta, ci saremmo stati l’uno per l’altra. Non era tanto per dire, un ritornello vuoto di significato, del quale però è bello ammantarsi. Lo dicevamo dando peso a ogni parola. Però, pensavamo di più alla ricchezza e alla povertà, che alla salute e alla malattia. Siamo due solidi lombardi con i piedi per terra: prima che Bruno lasciasse il posto fisso per dedicarsi solo alla comicità, abbiamo passato serate e notti intere a ripeterci che “questo lavoro oggi c’è e domani può non esserci”. L’avevo incoraggiato a buttarsi, per amore. Per una gelosa mitologica come me, il marito che frequenta il “mondo dello spettacolo” è un incubo che si avvera. Ma sapevo che per lui era importante, ed ero disposta a fare non uno, ma centomila passi indietro purché si realizzasse come artista. E quanto alla sicurezza economica, be’, ero convinta che – se ci fossero stati problemi – saremmo potuti ripartire dal niente, come avevamo già fatto. L’importante era altro, era rimanere uniti. Ce lo siamo sempre detti: se saremo insieme non avremo niente da temere, la forza del nostro amore ci permetterà di superare ogni ostacolo.
Ed è così. È proprio vero. L’ho vista, la forza del nostro amore, vincere su tutto, anche sulla malattia.
Io sono nata l’11 gennaio, Bruno il 12. Abbiamo sempre festeggiato insieme, nel nostro ristorante preferito di Varese, tranne l’anno in cui lui ne ha compiuti cinquanta e io, a sorpresa, l’ho portato a Parigi: ha scoperto la destinazione solo in aeroporto.
Quando i cinquanta sono toccati a me, Bruno ha voluto ricambiare. Non mi ha portato a Parigi, ma mi ha fatto una sorpresa. Regalo ancora più grande! Chi lo conosce bene sa che per lui tenere un segreto è impossibile: è noto che non bisogna mai confessargli qualcosa che si vuole tenere nascosto perché non riesce a trattenersi, neanche sui regali. È capitato decine di volte che, due o tre giorni prima dell’11 gennaio, mi abbia detto: «Amore, scusa ma non ce la faccio più: devo darti il mio regalo».
E invece, me l’ha proprio fatta. Mi ha proposto di andare a cena nel “nostro” ristorante, ma non quello di Varese, quello di Riccione. Noi due e i ragazzi. Sono felicissima: amo Riccione, ci vado sempre volentieri, anche solo per bere un aperitivo e ritorno, nonostante i quattrocento chilometri che ci separano. Essere là, avere tutti per me lui, Gianluca e Lorenzo: un sogno.
Arriviamo nel primo pomeriggio. Tempo di stabilirsi in casa e appendere il vestito per la serata che mi sento dire: «Vieni con me». Bruno mi prende per mano e mi porta dal mio gioielliere preferito, quello dove tutte le estati rimango con il naso incollato alla vetrina come un bambino al bancone della gelateria. Entriamo e insieme scegliamo un anello troppo carino, da giorno, sobrio, come piacciono a me: è il suo regalo.
Passo a casa per il trucco e parrucco e la sera, tutta elegante, mi avvio con i miei uomini verso il ristorante. Là, però, c’è un intoppo. Il ristorante è chiuso. O almeno sembra. Bruno non si capacita, comincia a bussare. La maître apre una spanna la porta, ci squadra, tutti fasciati nei vestiti della festa, vede Bruno e riconosco il suo sguardo: è quello che gli rivolgo anch’io quando mi accorgo che si è infilato in qualche situazione improponibile e mi cascano le braccia. È arrabbiatissima: «Bruno, accidenti» gli dice, «potevi dirmelo prima, no?! Siamo chiusi per una festa privata, non posso farvi entrare!».
“Ecco” penso, “ci siamo.” Bruno ha un talento non comune nel cacciarsi nei casini. Per esempio, nel 2003 aveva deciso che dovevamo assolutamente partecipare alla festa dell’Ancona: il suo amico Gigi Simoni aveva guidato la squadra alla sua seconda, storica promozione in serie A e lui voleva essere al suo fianco per festeggiare. Anni e anni con lui mi avevano insegnato a riconoscere le sòle a distanza, e quella era una sòla al cento per cento, solo che – come al solito – mi ero lasciata convincere. In fondo, con noi sarebbero venuti anche Claudio e Silvano, due amici molto divertenti, e altri li avremmo incontrati là. E poi non saremmo stati in mezzo al marasma ma avremmo avuto accesso a un’area riservata. Un’ora di macchina più tardi ho scoperto che l’area riservata consisteva in quattro sedie con scritti sopra i nostri nomi e che i tifosi erano in lite con la dirigenza. L’intervento del presidente è durato tre minuti: i tifosi hanno invaso il palco e la festa si è conclusa tra petardi e fumogeni.
Questa volta, invece, tre sono i minuti che ci impiego a capire che stanno tutti fingendo e che il ristorante è chiuso, sì, ma per noi. Dentro ci sono tutti i nostri amici, in mezzo a un tripudio di palloncini e cuori giganti. È una serata da film, che inizia con il classico “Sorpresa!” e finisce con Bruno che canta l’inno della sua squadra, Pazza Inter, saltellando sui tavoli di un altro locale: a mezzanotte, quando ormai il mio compleanno era passato ma il suo appena cominciato, ci siamo spostati per continuare la festa. Abbiamo cenato, ballato, riso, fatto decine di foto con parrucche di ogni forma e colore, mi hanno persino ammanettato Bruno alla caviglia con un paio di manette di peluche, dono del premuroso Franco Trentalance, che l’ha lasciato scalpitare per diversi minuti prima di confessargli che in realtà non aveva perso le chiavi…
Torniamo il giorno dopo, sabato. La sera Bruno deve essere a Brescia con il Max per uno spettacolo.
Si era tenuto libero per il “Rosy day”, come l’ha sempre chiamato lui, ma per il resto la sua agenda è zeppa di impegni. Ogni sera i Fichi sono in un teatro, un palazzetto, una piazza diversi, al Nord come al Sud, senza soste, sempre in macchina, prendendo l’aereo solo quando è strettamente necessario.
Il suo modo per tenere in ordine appuntamenti e mente è scriversi tutto, in maniera ossessivamente ordinata e precisa, sulla sua agendina, un oggetto sacro e intoccabile, cui nessuno può mettere mano a parte lui. Compra sempre le stesse – nere, piatte e sottili – e non le molla neanche un secondo: le usa per segnare tutto, un colore per i chilometri che fa in bici (e relative statistiche), uno per le serate in teatro, uno per la televisione, uno per gli eventi di famiglia, uno per le battute che gli vengono in mente, le rime, gli spunti che gli suggeriscono i ragazzi, e in particolare Gianluca.
In mezzo a questo guazzabuglio di date e spostamenti, un punto fermo: martedì, mercoledì e giovedì è a Milano, lui e il Max dopo diversi anni tornano a “Zelig”, e quelli sono i giorni dedicati alle riprese.
Il 14 ha un’altra serata libera. Sono superfortunata perché proprio quella sera Claudio Baglioni canta al teatro Arcimboldi di Milano e possiamo andare ad ascoltarlo.
Da fan sfegatata, uno dei miei sogni era conoscerlo, e una decina di anni fa Bruno era riuscito a realizzarlo. Eravamo in vacanza in Sardegna, in un villaggio turistico. Una sera lo staff ci dà la grande notizia: a breve si unirà a noi Claudio Baglioni. All’idea di trovarmelo a pochi metri, magari di stringergli la mano, ero andata in fibrillazione. Era il 2000, forse il 2001: non avevo quindici anni, ma le farfalle nello stomaco non me le ha tolte nessuno. Un giorno, dopo pranzo, eravamo a prendere un caffè al bar: un ragazzo stava cantando accompagnandosi con il pianoforte e Claudio Baglioni era lì, ad ascoltarlo, dall’altra parte della sala. Era con la sua compagna e altri amici. Impegnata com’ero nel cercare di osservarlo senza che lui se ne accorgesse ho perso di vista Bruno, che ho ritrovato poco dopo: era al pianoforte, si stava esibendo in Porta Portese. Volevo morire dalla vergogna, ma sbagliavo: con quel pretesto l’aveva agganciato, dopo dieci minuti erano già amici. Quando me l’ha presentato stavo ancora cercando di smaltire il rossore. Claudio è stato gentile e simpatico, e quel giorno è nato un bel rapporto. Ci siamo sempre visti poco, ma quando capita in zona per un concerto ci piace partecipare.
Se c’è una cosa nella quale Bruno è maestro, è questa. È completamente privo di tutti quei filtri sociali dei quali la maggioranza di noi, me compresa, fa invece largo uso. Il mio aplomb british non mi avrebbe mai permesso di mettermi a cantare Baglioni di fronte a Baglioni, sempre che mi fosse venuto in mente. Bruno, invece, l’ha fatto, e ha raggiunto il suo obiettivo. Io non mi sognerei nemmeno di non salutare qualcuno che incontro per strada solo perché ho la luna storta. Per Bruno, invece, è normalissimo: se è una giornata no e in centro a Varese incrocia sua madre, che adora, tira dritto senza farle neanche “ciao” con la mano. D’altra parte, per lui è altrettanto normale entrare in un ristorante all’aperto, duecentocinquanta coperti almeno, e salutare tutti i presenti, uno per uno. È successo in Romagna, era con Paolo Belli e altri amici: a tutti ha stretto la mano e rubato un sorriso.
Come la possiamo chiamare? Gioia di vivere? Forse, invece, riuscire a fare quello che ci piace il più possibile, fregandosene delle formalità e dando peso alle cose che veramente ne hanno è proprio un talento, che lui ha coltivato e innaffiato per anni, con rigore e metodo, senza che nessuno di noi se ne accorgesse.
Poi il lavoro comincia a riprendersi il tempo che Bruno non gli ha dedicato negli ultimi giorni. Ricominciano gli spostamenti in macchina con il Max, le telefonate, le prove. Il giorno che cambia le nostre vite è un giovedì, giovedì 17.
A pranzo, ci sediamo a tavola noi due soli. L’atmosfera è pesante. Come ogni giorno, anche quello ci poniamo domande sul modo giusto di essere genitori: abbiamo difficoltà nel trovare sintonia con i nostri ragazzi e temiamo di sbagliare. Ci stiamo muovendo a tentoni, come nella nebbia, alla ricerca di un segnale che ci indichi la strada giusta.
Naturalmente, parliamo anche di “Zelig”: Bruno è preoccupato perché il grande ritorno dei Fichi d’India, partito sotto i migliori auspici, non sta andando proprio come avevano sperato.
Lui e il Max avevano raccolto con entusiasmo questa nuova sfida ed erano stati accolti a braccia aperte dalla squadra di sempre. Alla riunione con gli autori – Gino, Michele e Giancarlo Bozzo – s...