Povera gente
eBook - ePub

Povera gente

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Un povero impiegato e una sua giovane dirimpettaia si confidano le proprie amarezze attraverso un fitto scambio di lettere. Il primo romanzo dello scrittore russo in cui sono presenti tutti i temi del realismo psicologico dei futuri capolavori.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804377764
eBook ISBN
9788852062476

Povera gente

Oh, questi narratori di favole! Invece di scrivere qualche cosa di utile, di piacevole, di confortante, vanno a scovare quel che è di più recondito!... Io avrei già proibito loro di scrivere! Ma sì, che roba è questa? Si legge... si comincia involontariamente a pensarci su, e tutte le assurdità che son là dentro ritornano in mente; davvero, avrei già proibito loro di scrivere, glielo avrei già proibito, senz’altro.
Principe V.F. Odoevskij
8 aprile

Mia inestimabile Varvara Alekseevna!

Ieri sono stato felice, straordinariamente felice, felice come non si può essere! Almeno una volta nella vita, mi avete dato retta, voi, così ostinata. Mi sveglio verso le otto di sera (voi sapete, cara, che, dopo l’ufficio, a me piace dormire un’oretta o due), prendo la candela, preparo le carte, tempero la penna, all’improvviso, per caso, alzo gli occhi – davvero, il cuore mi ha dato un balzo! Come avevate capito bene quello che desiderava il mio cuore! Vedo un angoletto della vostra tendina ripiegato e appuntato al vaso della balsamina, proprio come vi avevo accennato una volta; e mi è parso anche di veder apparire alla finestra il vostro visino, mi è parso che mi guardaste dalla vostra cameretta, che pensaste a me. E come mi faceva rabbia, piccola mia, non poterlo veder bene, quel vostro grazioso visino! Ci fu un tempo nel quale anch’io vedevo bene, cara. Non è una gioia la vecchiaia, mia cara! Ecco, adesso vedo tutto confusamente; per poco che lavori di sera, che scriva qualche cosa, al mattino gli occhi sono infiammati, e mi vengon giù le lacrime, tanto che ho perfino scrupolo a farmi vedere. Tuttavia, nella mia fantasia riluceva il vostro sorrisetto, angiolino mio, il vostro sorrisetto così buono e affabile; e nel cuore avevo la stessa sensazione di quando vi baciai, Varin’ka – ricordate, piccolo angelo? Sapete, piccola mia, mi sembrò perfino che voi, di là, mi minacciaste col ditino. Non è così, birichina? Dovete senza fallo descrivermi tutto questo più minutamente, nella vostra lettera.
Ah, che trovata la nostra a proposito della vostra tendina, Varin’ka! Graziosissima, non è vero? Sia che mi metta a lavorare, o che vada a dormire, o che mi risvegli, so già che voi, là, pensate a me, vi ricordate di me, e che siete sana ed allegra. Abbassate la tendina, e questo significa: a rivederci, Makar Alekseevič, è ora di dormire! La sollevate, e questo vuol dire: buon giorno, Makar Alekseevič, come avete dormito? – oppure: come state, Makar Alekseevič? Quanto a me, io, grazie al Creatore, sto bene e sono contenta! Vedete, anima mia, come tutto questo è stato inventato abilmente; non c’è nessun bisogno di lettere! È ingegnoso, non è vero? Ah, che trovata la mia! Non sono forse bravo in queste cose, Varvara Alekseevna?
Vi dirò, mia cara, Varvara Alekseevna, che questa notte ho dormito proprio bene, contro la mia aspettativa, e di questo son molto contento; sebbene in alloggi nuovi, per la novità del luogo, non si riesca mai a dormire; c’è sempre qualche cosa che non va! Stamane, quando mi sono alzato, ero gaio come un falcone – che piacevole allegrezza! Che bella mattinata è stata quella di oggi, cara! Qui da me hanno aperto la finestra; c’è un bel sole, gli uccelli cinguettano, l’aria emana profumi primaverili, e tutta la natura ritorna a vivere – e poi anche tutto il resto vi si intona; tutto a posto, tutto primaverile. Io oggi ho anche sognato un po’, abbastanza piacevolmente, e i miei sogni erano tutti pieni di voi, Varin’ka. Vi ho paragonata ad un uccellino del Signore, creato per la consolazione degli uomini e per ornamento della natura. E qui ho pensato, Varin’ka, che anche noi, persone che viviamo in continua inquietudine ed agitazione, dobbiamo invidiare la felicità senza affanni e innocente degli uccelli del Signore – e sì, ho pensato tante altre cose simili a questa; cioè, ho fatto sempre di questi paragoni astratti. Io ho un certo librettino, Varin’ka, e in esso è descritto tutto questo, tutto in modo molto particolareggiato. Per questo vi so dire che si possono fare svariati sogni, cara. Ecco, adesso è primavera, e i pensieri sono sempre piacevoli, sottili, ingegnosi, e vengono dei sogni così dolci; tutto è color di rosa. Perciò io ho scritto tutto questo; e del resto, tutto questo l’ho preso dal mio libretto. L’autore manifesta un simile desiderio nei suoi versi, e scrive:
«perché non sono un uccello, un uccello rapace!»
E così via. Là vi sono ancora altri pensieri, che Dio li accompagni! Ma ecco, dove andavate questa mattina, Varvara Alekseevna? Io non ero ancora pronto per andare all’ufficio, e voi, proprio come un uccellino primaverile, ve ne siete volata via dalla camera e avete attraversato il cortile, così allegra! Come mi sono sentito allegro, guardandovi! Ah, Varin’ka, Varin’ka! – Non v’addolorate; con le lacrime è impossibile recare aiuto al dolore; lo so, questo, mia cara, lo so per esperienza. Ora, poi, voi siete molto tranquilla, e vi siete anche un po’ rimessa in salute. – Bene, e cosa fa la vostra Fedora? Ah, che buona donna è quella! Voi, Varin’ka, mi scriverete come vivete ora con lei, e se siete contenta di tutto. Quella vostra Fedora è un po’ brontolona; ma voi non badateci, Varin’ka. Dio sia con lei! È tanto buona.
Vi ho già scritto della Teresa di qui – è anch’essa una buona donna, e fedele anche. Come mi impensierivo per le nostre lettere! Come trasmettercele? Ed ecco che il Signore ci ha mandato Teresa, per la nostra felicità. È una buona donna, mansueta e taciturna. Ma la nostra padrona è davvero spietata. La opprime di lavoro come se fosse uno straccio.
Ma in che spelonca sono venuto a finire, Varvara Alekseevna! È uno di quegli alloggi! Prima, è vero, vivevo come un gufo, lo sapete: in pace, in silenzio; da me, allora, accadeva che si sentisse perfino volare una mosca. E qui rumore, grida, fracasso! Certo, voi non potete ancora sapere come stanno le cose, qui. Immaginatevi, suppergiù, un lungo corridoio, completamente scuro e sudicio. A destra una parete cieca, a sinistra sempre porte e porte, che si stendono in fila proprio come i quartierini numerati di un albergo. Ebbene, ecco, prendono in affitto questi quartierini; ciascuno di essi è formato di una sola stanzetta e ci abitano due, tre persone. Di ordine non si può parlare – è un’arca di Noè! Del resto, sembra che siano brave persone, tutte così istruite, colte. V’è un impiegato (ha non so dove un incarico letterario), un uomo erudito: parla di Omero, di Brambeus,1 di vari scrittori che ci son da loro, parla di tutto; è un uomo intelligente! Vi sono due ufficiali che giocano sempre a carte. C’è un alfiere di vascello; c’è un maestro, un inglese. Aspettate, vi farò divertire, cara; nella prossima lettera li descriverò in forma satirica, cioè tali e quali come sono, con ogni particolare. La nostra padrona di casa, una vecchietta molto piccola e sudicia, sta tutto il giorno in pantofole ed in vestaglia e sgrida Teresa tutto il giorno. Io abito in cucina, o, per esprimermi molto più precisamente, dirò così: vicino alla cucina c’è una camera (e da noi, bisogna notare, la cucina è pulita, chiara, molto bella), una piccola camera, un cantuccio così modesto... cioè, per dir meglio ancora, la cucina è grande, ha tre finestre e lungo il muro traverso c’è un tramezzo, per modo che ne vien fuori una specie di camera, un vano in soprannumero; tutto è ampio, comodo, vi è anche la finestra, tutto – c’è, in una parola, ogni comodità. Ebbene, ecco il mio cantuccio. Ma voi non pensate, cara, che qui sotto ci sia qualche altra cosa o qualche pensiero recondito; ma come, potete dire, una cucina! – cioè, io, sì, abito proprio in questa camera al di là del tramezzo, ma questo non fa niente; io me ne sto da me, tutto solo, modestamente, tranquillamente. Ho messo qui il letto, la tavola, il cassettone, un paio di seggiole, ho appeso un’icona. Davvero, vi sono anche degli alloggi migliori, – forse ve ne sono di quelli anche molto migliori, ma quello che importa è la comodità; e tutto questo io l’ho voluto per la comodità, e voi non dovete pensare che sia per qualche altra cosa. Di rimpetto, al di là del cortile c’è la vostra finestrella, ed il cortile è così stretto, che vi posso vedere di sfuggita; tutto è più allegro, per me che ero sempre triste, e anche più a buon mercato. Qui da noi la camera più scadente, col vitto, costa trentacinque rubli di carta.2 Non è cosa per le mie tasche! La mia camera invece mi costa sette rubli di carta, e il vitto cinque rubli d’argento, così in tutto sono ventiquattro rubli e mezzo, mentre prima ne pagavo giusto trenta, e perciò mi privavo di molte cose; non sempre bevevo il tè, ed ora invece ne risparmio per il tè e per lo zucchero. È una cosa, sapete, mia cara, che fa quasi vergogna, non bere il tè; qui c’è tutta gente che sta bene, per cui c’è da vergognarsi. E lo bevo per amor degli altri, Varin’ka, per l’apparenza, per il tono; ma per me è lo stesso, io non sono esigente. Mettete poi qualche soldo da avere in tasca, occorre sempre qualche cosa: be’, un po’ di scarpe, un vestituccio – e rimane forse molto? Ecco tutto il mio stipendio. Io però non mi lagno e son contento. Mi basta. Sono già parecchi anni che mi basta; vi sono anche delle gratificazioni. – Bene, ora a rivederci, piccolo angelo mio. Ho comprato due vasi di balsamina e di geranio, non cari. Ma voi, forse, amate anche la reseda? Siccome la reseda c’è, scrivetemelo; e, sentite, scrivetemi tutto nel modo più particolareggiato. Voi, però, non pensate chissà cosa, e non cominciate a domandarvi, cara, perché io abbia preso una camera come questa. No, la comodità mi vi ha indotto, e la sola comodità mi ha tentato. Io, cara, ammucchio denari, metto da parte; ho il mio gruzzolo. Voi non ci badate, se io sono così quieto che una mosca con un’ala pare possa buttarmi per terra. No, mia cara, io, per conto mio, sono accorto, e ho un carattere proprio come è bene che l’abbia un uomo posato e calmo. Addio, mio piccolo angelo! Vi ho riempito quasi due fogli e da un pezzo è ora di andare all’ufficio. Bacio i vostri ditini, cara, e resto il vostro umilissimo servo e fedelissimo amico,
Makar Devuškin
P.S. Di una cosa vi prego: rispondetemi, piccolo angelo mio, con quanti più particolari è possibile. Con questa mia vi mando, Varin’ka, una libbra di confetti; mangiateli dunque, e che buon pró vi facciano, ma, per l’amor di Dio, non state in pensiero per me, e non siate in collera. Be’, ora addio, cara.
1. Barone Brambeus. Pseudonimo burlesco del critico letterario reazionario J.I. Senkovskij (1800-1858).
2. Quelli chiamati qui «rubli di carta», o anche «assegnati», erano biglietti di credito in uso tra il 1843 e il 1847, durante la fase di transizione al nuovo corso del rublo (il cosiddetto rublo d’argento). Un «rublo di carta» equivaleva allora a circa 27 copechi (ovvero centesimi) d’argento.
8 aprile

Gentilissimo signor Makar Alekseevič!

Sapete che mi toccherà, una volta o l’altra, bisticciare sul serio con voi? Vi giuro, mio buon Makar Alekseevič, che a me riesce proprio penoso accettare i vostri regali. So quello che vi costano, quali privazioni e rinunce anche nelle cose più indispensabili. Quante volte vi ho detto che non ho bisogno di nulla, assolutamente di nulla; che io non sono in grado di ricambiarvi tutte le gentilezze di cui mi avete colmata! Ma perché mandarmi questi vasi? Via, la balsamina non è poi gran cosa, ma perché il geranio? Basta dire una parolina senza pensarci, come, per esempio, per questo geranio, e voi lo comprate subito; e certo costa caro, no? Che incanto i suoi fiori! Con chiazze rosse a croce. Dove mai avete comprato un geranio così bello? L’ho messo in mezzo alla finestra, nel posto più in vista; sul pavimento metterò uno sgabello, e sullo sgabello ancora dei fiori; lasciate solo che diventi ricca! Fedora non la smette di rallegrarsi; abbiamo ora nella stanza come un paradiso – tutto è così pulito, luminoso! E poi i confetti, perché? Io, davvero, ho subito indovinato dalla lettera che in voi c’era qualche cosa di speciale – e il paradiso e la primavera e i profumi che volano, e gli uccellini che cinguettano; che cos’è questo? penso: che mi scriva anche dei versi? Perché, davvero non mancano che i versi nella vostra lettera, Makar Alekseevič! E sensazioni dolci, e sogni color di rosa – c’è tutto! quanto alla tendina non ci avevo neppur pensato; certo si è impigliata da sé, quando mettevo a posto i vasi; ecco tutto!
Ah, Makar Alekseevič! Qualunque cosa diciate, per quanto mi facciate il conto delle vostre rendite, per ingannarmi, per mostrarmi che le spendete tutte per voi solo, a me non riuscirete a nascondere ed a celar nulla. È chiaro che voi vi private del necessario, per me. Come vi è venuto in mente, per esempio, di prendere in affitto una stanza simile? Infatti, vi danno fastidio, vi disturbano; siete allo stretto, senza comodità. Voi amate la solitudine, e non vi è niente di tutto questo, intorno a voi! E voi potreste vivere molto meglio, se si giudica dal vostro stipendio. Fedora dice che voi prima vivevate senza confronto meglio di adesso. È mai possibile che abbiate vissuto così tutta la vostra vita nell’isolamento, nelle privazioni, senza una gioia, senza un’affabile parola amica, prendendo in affitto un cantuccio da gente estranea? Ah, mio buon amico, come mi rincresce per voi! Risparmiate almeno la vostra salute, Makar Alekseevič! Voi dite che la vista vi si indebolisce, ed allora non scrivete con la candela; perché scrivere? Il vostro zelo per l’impiego, certamente, anche senza questo è noto ai vostri superiori.
Ancora una volta vi supplico di non spendere tanti denari per me. Lo so che mi amate, ma voi stesso non siete ricco... Oggi anch’io mi sono alzata allegra. Stavo così bene; Fedora lavorava già da un pezzo e aveva preparato del lavoro anche per me. Io ne sono stata così contenta; sono andata soltanto a comprar della seta, e poi mi son messa al lavoro. Tutta la mattina mi son sentita l’anima così leggera, sono stata così allegra! E ora di nuovo tutti pensieri neri, tristezza; tutto il cuore mi duole.
Ah, che cosa sarà di me, come sarà il mio destino! È penoso per me essere in questa incertezza, non avere un avvenire, non poter nemmeno indovinare quello che mi accadrà. Anche guardarmi indietro è terribile. Là c’è sempre un tale dolore, che il cuore si lacera al solo ricordo. E sempre piangerò per le cattive persone che hanno fatto la mia rovina!
Si fa scuro. È tempo di mettersi al lavoro. Vorrei scrivervi molte cose, ma non c’è tempo, si avvicina la scadenza del mio lavoro. Bisogna che mi affretti. Certo, sono una buona cosa le lettere; almeno non ci s’annoia tanto. Ma perché non venite mai a trovarci? Perché, Makar Alekseevič? Ora poi abitate vicino, e qualche volta vi capita di avere un po’ di tempo libero. Venite, vi prego! Ho visto la vostra Teresa. Mi sembra che sia tanto malata; ne ho avuto compassione; le ho dato venti copeche... Ah! per poco non dimenticavo: scrivetemi immancabilmente tutto, con quanti più particolari è possibile, riguardo alla vostra esistenza. Che persone sono attorno a voi, e se andate d’accordo con loro. Io desidero molto di saperlo. Guardate, dunque, di scrivermelo senza fallo! Oggi appunterò su apposta l’angolo. Andate a dormire un po’ più presto! ieri ho visto la luce da voi fino a mezzanotte. Bene, a rivederci. Oggi che nostalgia, che noia, che tristezza! Si vede che doveva essere una giornata così! A rivederci.
Vostra
Varvara Dobrosëlova
8 aprile

Gentilissima signorina Varvara Alekseevna!

Sì, cara, sì, mia cara, doveva capitare a me, infelice, di conoscere un giorno simile! Sì, avete riso un po’ di me, povero vecchio, Varvara Alekseevna! Del resto, io stesso sono colpevole, pienamente colpevole! Non avrei dovuto mettermi, alla mia tarda età e col mio unico ciuffettino di capelli, a parlar d’amore e di frivolezze... E vi dirò ancora, cara: l’uomo talvolta è strano, molto strano. E, santi del cielo! comincia a parlare di qualche cosa, e talora si lascia trascinare. Ed allora che ne viene fuori, che ne consegue? Non ne consegue proprio nulla, e ne vengono fuori tali sciocchezze che... il Signore me ne scampi! Io, cara, io non mi adiro, e mi fa solo molta rabbia il ricordare tutto, mi fa rabbia l’avervi scritto in un modo così ricercato e sciocco. Ed anche all’ufficio oggi sono andato tutto glorioso e trionfante; avevo una tale serenità nel cuore! La mia anima era in festa, senza un perché al mondo; ero allegro! Mi sono messo alle mie carte con grande zelo – ma che cosa poi n’è venuto fuori? Non appena poi mi sono guardato attorno tutto è tornato come prima – grigio, oscuro. Sempre quelle solite macchie d’inchiostro, sempre quelle solite tavole e quelle solite carte, ed anch’io, sempre lo stesso; sono rimasto assolutamente tal quale com’ero – e così, a che cosa è servito viaggiare in groppa a Pegaso? E da che cosa è venuto tutto questo? Perché il sole aveva fatto capolino e il cielo era diventato azzurro. Ma che cosa significa? E perché parlar di profumi, con quel po’ po’ di roba che c’è nel nostro cortile, sotto le finestre? È stata dunque una mia sciocca illusione. Ma pure accade a volte che l’uomo si smarrisca fra i propri sentimenti e si metta a vagare senza meta. E questo non dipende da null’altro che da un’eccessiva e stupida foga del cuore. Non son venuto a casa come al solito, mi vi sono trascinato; senza alcuna ragione al mondo mi doleva il capo; si sa, una cosa tira l’altra (avevo preso un colpo d’aria nella schiena). Mi ero rallegrato stupidamente per la primavera ed ero uscito con un mantello più leggero. Anche riguardo ai miei sentimenti vi siete sbagliata, mia cara. Quell’effusione l’avete presa tutt’in un altro senso. Un affetto paterno mi animava, unicamente un puro affetto paterno, Varvara Alekseevna; perché io mi occupo di voi invece del vostro vero padre, per via della vostra amara solitudine; ve lo dico dal fondo dell’anima, di tutto cuore, paternamente. Comunque sia, pur essendo per voi un parente lontano, molto lontano, tuttavia sono un parente, e sono ora il parente più vicino ed il vostro protettore; perché dove più avreste avuto diritto di ricercare protezione e difesa, avete trovato tradimento ed offesa. Quanto ai versi, vi dirò, cara, che sarebbe sconveniente alla mia tarda età mettersi a comporre dei versi! I versi sono una stupidaggine! Adesso anche nelle scuole battono i bambini, a causa dei versi... ecco tutto, mia cara.
Ma che cosa mi scrivete, Varvara Alekseevna, di comodità, di calma e di varie altre cose? Mia cara, io non sono schizzinoso né esigente, e non ho mai vissuto meglio di adesso; perché dovrei fare il difficile ora in così tarda età? Sono nutrito, vestito e calzato; cosa dovrei andar a fantasticare! – Non son mica un principe! – Mio padre non era nobile e lui, con tutta la famiglia, stava peggio di me, quanto a guadagno. Io non son mica delicato! Del resto, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Povera gente
  5. Copyright