La suocera come pensiero e come azione
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La suocera come pensiero e come azione

  1. 40 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La suocera come pensiero e come azione

Informazioni su questo libro

Non è un caso se nella cultura contadina «il cuscino della suocera» è il nome dato a uno spinosissimo cactus: il luogo comune che vede la madre del marito (e, in tono diverso, quella della moglie) come figura bisbetica e irritante non muore mai, e nei secoli si è rinnovato come immancabile tòpos della letteratura mondiale. Così in queste pagine, tra citazioni di Terenzio, Pirandello, Flaubert, Goldoni, Giancarlo Lehner si diverte a raccontarci l'antropologia di una delle maschere che da sempre animano la quotidiana commedia famigliare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
eBook ISBN
9788852060052

Sono un uomo pratico, quindi poco incline a cadere nelle trappole del filosofeggiare. Del resto un mio professore, scaciato, cialtrone ma saggio, dopo avere spiegato un argomento o un autore, concludeva la lezione con la nota formula sdrammatizzante: «La filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale il mondo rimane tale e quale».
Avendo così messo le mani avanti, e promettendo di non farlo mai più, confesso di essere rimasto impelagato in un ragionamento insistito e ricorrente sui legami familiari e in particolare su uno, quello più delicato e chiacchierato della storia. Mi accingo dunque a rimettere in ordine considerazioni, acquisizioni documentarie, scoperte, paragoni e paralleli, tanto per comunicare, in primo luogo a me stesso, in modo chiaro e preciso le conclusioni alle quali sono giunto.
La famiglia non è un’istituzione bloccata, pressoché immodificabile, ieri, oggi, domani, come la Costituzione italiana o le confederazioni sindacali. Il primo fondamentale nucleo della società si rinnova e in effetti si è adeguato, nei secoli e specie negli ultimi due, a salti epocali e accelerazioni, talvolta spariglianti e mozzafiato, che hanno riguardato abitudini, costumi, economia, tecnologie, immaginario collettivo, ecc.
Altro fu l’indugiare, gerarchicamente prefissato, sulla palafitta, nella grotta, dentro la capanna, davanti al falò, e poi al focolare e alla stufa a legna, rispetto a quanto accade oggi. Noi siamo al corpo al corpo, tutti contro tutti, per il possesso del telecomando, del decoder, della fotocamera digitale, del mouse, del motorino, dell’iPod nano.
Eppure, nonostante il suo inevitabile soggiacere al cambiamento, la famiglia resiste come un mulo di montagna e tira calci quando la si voglia forzare e troppo allargare. Abbiamo visto come sono finite le comuni, tanto spregiudicate quanto demenziali. E vediamo ogni giorno i naufragi delle coppie cosiddette aperte e libere. Financo gli omosessuali appena sposatisi legalmente degradano presto nelle guerre puniche divorzili.
Non c’è niente da fare: i rapporti stretti finiscono sempre con il perpetuare e riproporre antichissimi schemi drammaturgici. E dico «drammaturgici» perché commedia e tragedia sono eternamente insite e presenti nei legami di parentela, nel brodo primordiale – cito il caro Riccardo Pazzaglia che «se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato» – che ribolle nella nostra psiche.
La famiglia può divenire e modificarsi, dunque, soltanto attraverso interventi graduali, indolori, coerenti e compatibili con l’abbiccì degli stratificati rapporti interni.
I ruoli parentali, infatti, sono quelli dati una volta per sempre, perché l’emotività, colei che li intesse e li scolpì, risponde a comandi anteriori alla ragione, non soggetti, apparentemente, ad alcuna palpabile evoluzione. Affetto, amore, aggressività, possessività, odio, gelosia, invidia – insomma tutto ciò che affolla e ritma i percorsi e i crocevia, dove si incontrano e si scontrano gli ego e gli egotismi – non pare abbiano davvero risentito dell’evoluzione storica, tecnologica, culturale, politica.
Socrate era geloso allo stesso modo di Otello, come ha dimostrato di esserlo il mio pizzicagnolo di fiducia, capace di inseguire, coltellaccio sguainato, la propria moglie per quanto si dipana via dei Banchi Vecchi.
Clio, che non è solo un modello della Renault o la gentile consorte di Giorgio Napolitano, ma anche e ben prima la musa della Storia, credo ammetterebbe senza problemi che all’interno della molecola familiare il fluire degli eventi quasi mai può trovare una spiegazione razionale, per così dire, storiografica. La Storia, anzi, in questa sfera non esiste, non significa, non conta, riguardando nostra signora Clio ubriacature ideologiche, masse e collettivi, grandi sovrastrutture tanto appariscenti quanto apparenti, tristi fenomenologie condominiali, giammai l’unico problema che qui importa: l’autentica, nobile e sacra realtà che è la persona e il suo interagire con i suoi simili.
Il padre non autorevole o, al contrario, il padre padrone, la madre ossessivamente premurosa o, di contro, quella snaturata sono ricorrenze comportamentali che non possono essere contestualizzate, perché non derivano dal regime o dal secolo, semmai da una maschera caratteriale originaria non domata o non domabile né educabile.
In tutti i secoli il figlio o la figlia, per esempio, con qualunque grado di censo, di evoluzione culturale e sociale, hanno dovuto rifare i conti con una tipica imperitura stereotipia: la fase nella quale l’adolescente si sente incompreso, anzi vittima di complotti orditi da uno o da entrambi i genitori, magari con il concorso dei fratelli e di altri parenti, tutti elevati, nell’immaginario filiale, a subdoli associati per delinquere, tesi a contrastare il suo sacrosanto diritto alla felicità.
I figli «incompresi» hanno popolato e bagnato di lacrime la mamma Terra dall’epoca delle palafitte, e continueranno a piangersi addosso fino al giorno in cui sparirà, per la gioia dei fondamentalisti dell’ambiente, la specie umana.
Nel caso della figlia o del figlio unico è ancora peggio: i complottardi contro di loro sono necessariamente di meno, eppure non c’è scampo per l’incompreso figlio unico, giacché le cateratte del vittimismo fanno ricadere su di lui, a valanga e del tutto indivisi, accerchiamenti, disattenzioni, solitudine, malessere, complessi.
Tutto, in famiglia, si ripete, perché tutto è già accaduto.
E così per la moglie, così per il marito, i cognati, le nuore, le zie, i cugini e per tutti gli altri personaggi, maschere fisse della commedia familistica, dentro e fuori le mura domestiche, perché qui non valgono neppure le unità aristoteliche di luogo, di tempo e di azione, e tutti possono, ovunque e quando vogliono, far tutto: il padre, infatti, può recitare anche da marito, figlio, fratello, zio, cugino, suocero, genero, nonno.
Al di là del ruolo, un dato assodato è che angosce, timori, nevrosi e il pathos di sempre si ripresentano pari pari, come se il divenire dell’istituzione-famiglia sia elemento irrisorio e apparente rispetto alle basi immutabili della convivenza.
Del resto, il romanzo storico non si addice alla famiglia, così scandalosamente atemporale, tant’è che per le famiglie esiste il genere letterario delle saghe, dove generazioni si susseguono, rifacendo il già fatto, più spesso in male che in bene.

Nessuno sfugge, neppure la zebra

Le zebre – poniamo che per assurdo si siano convertite alle avanguardie artistiche del XIX secolo – potrebbero pur decidere di ridicolizzare Picasso, pitturandosi il mantello a strisce arancioni astratte e cubiste, a quadrati magici metallizzati e catarifrangenti, ma alla fine, pur sotto il nuovo cromatismo, la gerarchia interna, l’erba, l’acqua, la corsa, il leone e la iena risbatterebbero inesorabili sul loro bel muso, trattandosi dei loro eterni, immodificabili, ossessivi problemi esistenziali.
Noi umani, poi, se non tiriamo le cuoia prima del tempo, abbiamo modo di interpretare quasi tutti i ruoli della tragicommedia parentale, occupando ogni tessera del mosaico gerarchico.
Da figli, avendo fratelli, possiamo sperimentare la guerra civile domestica con le sorelle coltelle e/o i fratelli serpenti. Indi, ci può toccare il fardello affettivo-pedagogico di fare il padre o la madre, pur rimanendo fratello o sorella. Ancor prima, se equivicini incalliti, cioè fidanzati o amanti, si era presentato all’orizzonte l’estuario obbligato, chissà se a lieto fine o no, del marito e della moglie.
Il dio Crono, maratoneta a perdifiato, ricordandoci banalità sgradevoli, tipo che l’unico futuro certo è la dipartita, ci costringerà di passaggio anche alla professione di zii, di nonni e, in tempi di estremismo salutistico – sì ginnastica, sì vitamine, sì crusca, no pasta con le sarde, no abbacchio a scottadito, no smoking – financo di bisnonni.
I diversi abiti via via rivestiti conducono, per la verità, a copioni e comportamenti di vario tipo, più o meno perfettamente ricuciti sulle nuove funzioni, tuttavia l’indole è quella che è. Sotto la canizie del nonno, per esempio, grattando appena un po’ ecco che ci possiamo ritrovare il ciuffetto del pargolo birichino, i cocci del Giamburrasca militante, le trasgressioni e i sogni del discolo e dell’erotomane che fu.
Il passaggio di testimone allo staffettista successivo – tanto a correre siamo sempre noi, trasfigurati e moltiplicati soltanto dall’età – segue generalmente una linea consequenziale: a quarant’anni non siamo, dentro, così radicalmente diversi rispetto al giorno del diploma. Ed è un guaio commovente e patetico la non coincidenza tra l’essere e il sentirsi, i quali si bisticciano e fanno a pugni per via della crescente disparità tra velleità e possibilità fisiche, tra l’immaginarsi pimpante e lo scoprirsi insidiato dall’artrosi.
Ci vorrebbe una medicina per l’invecchiamento solidale e parallelo tra animo e corpo, un’aspirina che sfratti finalmente la psiche adolescente dimorante in noi sino a che morte non ci separi da lei. O, ipotesi migliore, il pillolo dell’elisir dell’eterna giovinezza, con l’intrigante possibilità di morire sani e vegeti, nel pieno della vita e della salute, quando, stanchi del mondo, potendo scegliere tra on e off, ci venga voglia di farla finita, spegnendoci con un clic.
La famiglia, va detto, è sistematicamente derisa, aggredita, addirittura criminalizzata e inseguita da mandati di cattura. Fior di sostituti procuratori della Repubblica, forse perché disabituati alle indagini e impigriti dai pentiti e dalle intercettazioni, si sono improvvisati sociologi, indicando nella «famiglia» il regno del Male. In un certo senso le hanno già varie volte recapitato avvisi di garanzia per manifesto familismo, origine – secondo loro – di tutte le mafie.
E c’è stato anche un esimio pubblico ministero capace di teorizzare in un’articolessa di vent’anni fa che la figura del Padre, nel senso di Nostro Signore, del Creatore, del Dio Onnipotente della Bibbia, sia nient’altro che il prototipo del boss mafioso.
La famiglia, invece, somiglia alle istituzioni liberaldemocratiche: a volte fa schifo, è piena di difetti e di storture, luogo di felicità ma anche di violenza, di salute ma anche di malattia, di affetti e di veleni, di coraggio e di vigliaccheria, di civismo e di barbarie; tuttavia è l’unica soluzione possibile per stare insieme, sostenerci, consolarci di essere nati, trasmetterci amorosi sensi, illuderci di essere insostituibili, procreare, educare, preservare la propria identità, assicurando la continuazione della propria gens, nonché della specie.
Altro e di meglio non c’è a tutt’oggi, nonostante i progressi, perché il nodo alla gola che tutti ci accomuna è l’angoscia di essere o di rimanere soli.
All’inizio del terzo millennio, la famiglia occidentale mostra, per esempio, un visibile cambiamento, non tanto rispetto alla sostanza dei ruoli, quanto all’affollamento: essendoci più figli unici, diminuisce il numero degli attori, a cominciare dal fratello o dalla sorella, e così, con effetto domino, si ha l’abbattimento delle maschere a futura memoria come zii e cugini.
Oggi sussiste una famiglia variamente disboscata. Già nella seconda parte del Novecento, del resto, persero ogni importanza comari e compari, che pure ebbero una funzione fondamentale nella tradizionale famiglia contadina italiana e non solo. Fatto è che la struttura di origine rurale è stata fortemente amputata e circoscritta, anche se, va ripetuto, nei ruoli essenziali ha resistito indenne sino all’era informatica.

Un cactus chiamato «cuscino della suocera»

La suocera fa parte a pieno titolo di cotali figure immortali e invariabili, anzi il suo profilo di bisbetica scocciante e irritante si staglia, forse, come maschera imperitura per eccellenza. La cultura contadina ribattezzò, in proposito, un cactus spinosissimo, chiamandolo «il cuscino della suocera».
Ora, se la pianta grassa Echinocactus, originaria e tipica dell’America del Nord, comprendente dieci specie di cactus, dalla forma globosa, a volte cilindrica, sempre fornita di grosse spine giallo-rosse, ha preso il proprio nome dalla suocera, diffondendolo nell’universo mondo, una ragione ci dovrà pur essere.
Quelle antichissime e stratificate spine, del resto, nell’immaginario collettivo odierno pungono ancora. Nella figura della suocera, infatti, la normale evoluzione nel passaggio tra i ruoli parentali pare prendere le sembianze della mutazione.
Resta mistero grande come sia possibile che una simpatica figliuola, divenuta fidanzata graziosa, moglie affettuosa, amante prodigiosa, madre solerte, possa, nel ruolo di suocera, contraddire tutte le sue precedenti virtù, presentandosi irsuta, sgradevole, arcigna, provocatoria, invadente, in altri termini stronza col botto.
Prendiamo la mamma premurosa, la sorella dal volto umano, la moglie esemplare, la nonna tutta coccole e dolcini, e poniamola davanti alla nuora: un lampo e un tuono marcheranno all’istante il salto mortale caratteriale.
Bisogna, però, premettere qualcosa e distinguere.
Scartiamo subito, e non per maschilismo, la par condicio con il suocero. Il maschio, se rompiscatole di natura – e ce ne son...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La suocera come pensiero e azione
  4. Nessuno sfugge, neppure la zebra
  5. Copyright