Il mito è un grande contenitore, capace di prendere le fantasie più angoscianti e renderle rappresentabili, limitando in tal modo il loro impatto distruttivo.
Inevitabile perciò che il tema dell’abuso e della violenza sui bambini sia finito al centro d’antiche narrazioni, come in quella di Pelope, nella storia di Laio e Crisippo, e ancora di Zeus e Ganimede.
La prima vicenda riguarda Tantalo, il re della Lidia: il sovrano ha ricevuto il privilegio assoluto d’essere invitato alla tavola degli dei, a dividere con loro nettare e ambrosia, una cortesia tanto eccezionale da essere ricambiata non solo con un invito, ma anche con un piatto sorprendente.
E Tantalo di certo riesce a stupire i suoi divini commensali, ammannendo loro le tenere carni del figlioletto Pelope, cucinato per l’occasione.
Solo Demetra tuttavia ne assaggia una parte, la spalla per la precisione, mentre gli altri inquilini dell’Olimpo, orripilati, maledicono Tantalo, condannandolo in eterno al celebre supplizio, mentre restituiscono la vita al piccolo, con un innesto d’avorio al posto del pezzo mancante.
Pelope non solo se la cava, ma finisce per conquistare il cuore di Poseidone, che ne fa il suo coppiere e amante. Peccato che, tornato sulla terra, si macchi di un delitto simile a quello di cui era stato vittima, uccidendo per poi smembrare il corpo di Stinfalo, re dell’Arcadia: qualcosa che ricorda molto il ciclo dell’abuso, quella condizione che descrive come chi è stato oggetto di violenza da piccolo rischi da adulto di trasformarsi in carnefice.
La seconda storia è quella di Laio, re di Tebe; costretto alla fuga, trova asilo alla corte di Pelope, ma infrange i sacri doveri dell’ospitalità rapendo e violentandone il figlio Crisippo. Il quale, per la vergogna, si toglie la vita.
La morte di Crisippo viene allora vendicata dagli dei, e a Delfi Apollo fa pronunciare al suo oracolo una terribile profezia: Laio troverà la morte per mano di suo figlio, Edipo, proprio come lui era stato responsabile della fine di Crisippo.
L’ultimo mito parla di Zeus e del suo amore per Ganimede. Il padre degli dei assume le sembianze di un’aquila, rapisce il giovane e lo fa coppiere dell’Olimpo, donandogli l’immortalità.
Ganimede non invecchierà mai, resterà per sempre fanciullo, proprio come accade ai bambini vittime d’abuso.
A livello fantastico, però, il tema della pedofilia non è rappresentato solo nei miti, ma anche in quella forma di narrazione popolare che sono le fiabe.
Basta rileggersi Pelle d’asino di Perrault e, dello stesso autore, la famosissima storia di Cappuccetto Rosso, con la sua esplicita conclusione: Le bambine non devono dare ascolto ai lupi, specie a quelli tranquilli, compiacenti e dolci, che possono seguirle anche dentro le case e per le strade.
Le fiabe, lo sappiamo, hanno sempre un fine didattico e una morale.
E i lupi, nella realtà, purtroppo esistono.
Adam Walsh scompare il 27 luglio 1981 quando ha solo 6 anni. È andato con la mamma in un centro commerciale, perché c’era da comprare una nuova lampada per la casa. Ma a lui non interessano le questioni d’arredamento, piuttosto vuole fermarsi nel reparto giocattoli e vedere le ultime novità. E Revè, la madre, deve arrendersi.
Si allontana per pochi minuti, ma quando torna di Adam non c’è traccia. Lo fa cercare con gli altoparlanti, poi scopre che gli addetti alla sicurezza gli avevano imposto di uscire dai magazzini, perché pensavano che facesse parte di un gruppetto di ragazzini chiassosi.
E proprio lì, nel piazzale del parcheggio, qualcuno lo ha caricato su un’auto e se l’è portato via.
Il suo corpo viene ritrovato quindici giorni più tardi, mutilato e gettato in un canale.
L’omicidio di Adam rimane un caso irrisolto.
Amber Rene Hagerman di anni ne ha 10 quando, con i suoi genitori, va a trovare i nonni che stanno ad Arlington, nel Texas. Insieme al fratellino prende la bicicletta e si dirige poco lontano, appena qualche isolato. Un paio d’ore e il piccolo torna a casa, perché sta facendo buio, mentre la sorellina resta a farsi ancora qualche giro. Fino a quando un uomo, descritto come giovane bianco, oppure ispanico, la carica a bordo di un pick-up nero e si allontana. Un colpo di coltello alla gola mette fine alla vita di Amber, il cui cadavere viene ritrovato quattro giorni dopo.
Nemmeno in questo caso viene identificato il colpevole, anche se il 9 luglio 2007 la polizia arresta un tizio che si chiama Terapon Adhahn per l’omicidio di un’altra bimba, la dodicenne Zina Linnik. Nonostante Terapon si dichiari estraneo al delitto Hagerman, gli investigatori sono convinti sia lui l’assassino di Amber.
La terza, terribile tragedia, capita a Hamilton, nel New Jersey, un posto tranquillo dove vivere, dove non succede mai niente di brutto, almeno fino a quel pomeriggio di luglio del 1994.
Sono passate solo tre ore da quando Megan è sparita, ma la sua mamma è già spaventata, pensa che le sia capitato qualcosa di brutto, magari un incidente. Cercano tutti di tranquillizzarla, con scarsi risultati però, perché la donna sente che sua figlia è in pericolo, e allora avverte la polizia. Vicini di casa, conoscenti e amici affiancano gli agenti e si mettono a cercare la bimba, che ha solo 7 anni. Tra loro c’è anche un uomo un po’ strano che si chiama Jesse Timendaquas, ha circa trent’anni e da poco si è trasferito nella zona. Jesse cerca di dare una mano, distribuisce la foto di Megan, e poi partecipa alle ricerche. È proprio Jesse a trovare il corpo di Megan, uccisa e gettata in una parte poco frequentata del parco cittadino.
Tre storie che assomigliano a molte altre, storie di assassini e piccole vittime innocenti che però hanno toccato così a fondo il cuore e la sensibilità della gente, da trasformarsi nei momenti fondanti di nuovi progetti di legge.
John, il padre di Adam Walsh, è diventato uno dei più attivi sostenitori della lotta per i diritti delle vittime, contribuendo alla creazione del National Center of Missing and Exploited Children. È pure riuscito a calamitare importanti finanziamenti a sostegno dei minori scomparsi, convincendo la catena di supermercati Wal Mart a sponsorizzare un programma nazionale che si chiama Adam Code. Il 26 luglio 2006, il presidente Bush ha convertito in legge l’Adam Walsh Child Protection and Safety Act, che prevede la costruzione di un archivio di tutti coloro che siano stati condannati per gravi violenze sui minori, e di incrementare le pene previste per questi reati.
La morte di Amber ha invece portato alla realizzazione dell’Amber Alert, dove Amber non è solo il nome della povera bimba uccisa nel 1996, ma è anche l’acronimo di America’s Missing: Broadcasting Emergency Response, un sistema con cui viene immediatamente segnalata ai cittadini la sparizione di un minore utilizzando tutti i media a disposizione.
Quanto a Megan, in sua memoria è stata creata la cosiddetta Legge di Megan, in termini giuridici definita come «1994 – Sexual Offender Act». Perché alla fine si è scoperto che a uccidere la piccola era stato proprio Jesse Timendaquas, e che addirittura aveva precedenti per reati di violenza sessuale su minori.
Quello che la legge di Megan prevede è semplice: vuole mettere in guardia la comunità. Tutte le informazioni che riguardano i criminali sessuali devono essere rese pubbliche, naturalmente con modalità diverse, caso per caso. Se il tribunale competente ritiene che un pregiudicato sia a basso rischio di recidiva, i suoi dati circoleranno solo tra i dipartimenti di polizia, o tra il personale delle scuole, ma se rappresenta un potenziale pericolo per la comunità, allora tutti sapranno di lui.
E in Italia?
Seppure – e per fortuna – con numeri decisamente meno impressionanti rispetto all’esperienza degli Stati Uniti, anche da noi ci sono bambini che scompaiono, vittime di assassini perversi, anche da noi ci sono storie terribili di killer pedofili, come quella di Luigi Chiatti, il mostro di Foligno, o come quella, meno nota, di Giulio Collalto, il serial killer dei bambini.
Il 15 agosto del 1979, a Cremona, nei sotterranei di un vecchio ospedale sistemati per accogliere una sartoria teatrale, viene trovato il corpo di Luca Antonazzi, un bimbo di appena 7 anni.
Un delitto orribile, ancor più sconcertante e inaccettabile quando si scopre che l’assassino, Giulio Collalto, ha già ucciso, e solo tre anni prima, e anche quella volta era toccato a un bambino che si chiamava Roberto Auglia e aveva 10 anni.
Ma chi è Giulio Collalto, e perché ha commesso crimini tanto gravi, senza che nessuno sia riuscito a fermarlo?
Giulio nasce a Roma, nel 1953, e la sua è una vita segnata dal dramma e dalla malattia. Non si sa chi sia suo padre, e anche la madre lo abbandona in un orfanotrofio, dove resta fino all’età di 14 anni.
Cresce nell’Istituto Santa Rita di Grottaferrata e, per capire i maltrattamenti e gli abusi che gli tocca sopportare, basta ricordare come la direttrice, suor Maria Diletta Pagliuca, nel 1972 sia stata condannata a quattro anni di carcere per le torture e le sevizie che esercitava sui piccoli ospiti della sua casa. Torture e sevizie che ha cercato sempre di contrabbandare per metodi educativi.
Ma non sono soltanto le ferite e le umiliazioni, a turbare la mente di Giulio, perché il giovane si porta appresso anche un’insufficienza mentale, e poi una forma epilettica, alterazioni forse congenite, o forse esito dei «pedagogici» colpi di bastone di suor Maria Diletta e delle sue zelanti collaboratrici.
Dimesso dal collegio romano per limiti d’età, Giulio Collalto non è però capace di autonomia, e perciò finisce al manicomio di Mombello, piccola frazione non lontana dalla città di Monza. Ci passa due anni prima di scappare, e finire di nuovo in ospedale, questa volta al Paolo Pini di Milano.
Solo nel 1971 la sorte sembra riservargli una benevola attenzione, mettendogli sulla strada un commerciante di buon cuore, Amedeo Cervini, un cinquantenne che s’impietosisce a vederlo camminare per strada, sporco e con i vestiti a brandelli dopo l’ultima fuga.
Amedeo lo accoglie in casa sua, se ne occupa come fosse un figlio, e finalmente Giulio sembra trovare un poco di serenità. Certo ha sempre i suoi problemi, quelli legati a un intelletto debole e alle crisi epilettiche, e ogni tanto gli tocca di finire in ospedale. E proprio in corsia, all’inizio del febbraio del 1976, conosce Robertino, ricoverato per un piccolo intervento chirurgico.
Tra i due corrono tredici anni di differenza, ma solo per l’anagrafe, perché i ragionamenti di Giulio non sono poi così distanti da quelli del bambino. Diventano amici e continuano a frequentarsi anche dopo esser stati dimessi.
Giulio va a trovare Roberto a casa sua, ci passa ore a parlare, poi però comincia a guardarlo con occhi diversi, gli occhi del desiderio. Il 10 febbraio, le attenzioni per il piccolo amico prendono la forma dell’approccio sessuale, e la reazione di Robertino precipita il dramma.
Giulio è sconvolto: ha paura d’avere rovinato tutto, ma insieme ha il terrore d’essere denunciato. Allora afferra un cuscino, lo piazza sulla faccia del bimbo, e poi preme forte, fino a soffocarlo.
Ma non basta.
Ha la lucidità di pensare a una messa in scena, qualcosa che convinca chi troverà Roberto che non si è trattato di un omicidio: apre le manopole del gas della cucina, poi trascina il corpo del bambino e adagia la sua testa giusto sui fornelli, a simulare un suicidio.
Ipotesi che non convince, intanto per l’età della vittima, ma soprattutto perché il medico legale scopre la vera causa della morte di Roberto Auglia.
Il cerchio si stringe attorno a Giulio Collalto, che grida la sua innocenza, e disperato tenta di togliersi la vita. Ma il pubblico ministero non gli crede, e va a interrogarlo in ospedale, dove è piantonato giorno e notte.
Alla fine è una perizia psichiatrica a determinare il suo destino. Gli specialisti che lo esaminano trovano in lui una ...