Il capostazione di Casalino
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Il capostazione di Casalino

e altri 15 racconti

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il capostazione di Casalino

e altri 15 racconti

Informazioni su questo libro

Un "viveur senza famiglia, curioso di donne più che libertino", numerose, incisive figure femminili, altri personaggi dalle "vite sprecate, gettate al vento" in una serie di situazioni fra il grottesco e il patetico.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804431206
eBook ISBN
9788852062032

Gli Arnaboldi alla porta

Interrogare il Cuniberti, intrattenerlo sul suo passato e in particolare sui suoi amori, non era cosa facile. Restio a dire di sé e convinto di avere avuto delle vicende niente affatto eccezionali bisognava, per smuoverlo e fargli prendere il largo con una buona storia, toccarlo nel meccanismo anche a lui poco noto dei suoi sentimenti.
Il Cuniberti escludeva addirittura di avere avuto dei sentimenti. Affermava di essersi solo divertito moderatamente, con le donne come con le carte e anche con i libri, per ingannare il tempo e per riuscire a sopportare la noia della vita di provincia.
Invece aveva amato e sofferto, anche se non si era mai indotto ad ammetterlo, neppure dentro il cosiddetto foro interno, che non conosceva del resto, perché evitava di riflettere sui suoi casi o lo faceva soltanto indirettamente, quando qualcuno riusciva a farlo raccontare.
Per me il Cuniberti, o il Pippo come veniva chiamato dagli amici, era un maestro di vita, un uomo d’esperienza col quale mi onoravo di stare al tavolo del poker o anche soltanto al caffè, dietro i vetri, a veder passare la gente.
Una mattina che stavo di fianco a lui a un tavolino del Caffè Principale, lo vidi seguire con un lento giro di testa il passaggio d’una signora. Non si contentò di guardarla mentre passava davanti alle tre vetrate verso la piazza, ma si spostò sulla sedia per seguirla con l’occhio anche quando la signora, voltato l’angolo, passò davanti alle due vetrate laterali. L’insistenza del Cuniberti venne premiata, perché proprio all’ultima vetrata la signora voltò la testa di scatto verso l’interno del caffè e diede un’occhiata fredda ma precisa al Cuniberti, scoprendolo tutto avvitato su se stesso per seguire fino all’ultimo il suo passaggio.
Quando scomparve, il Pippo, ricomponendosi, si accorse che avevo notato la sua manovra.
«È la Tina» disse senza interesse. «Non la vedevo da almeno cinque anni.»
La Tina ormai scomparsa era una signora qualsiasi, insignificante, che nessuno avrebbe notato. Ma quindici anni prima, quando era diciottenne, aveva messo in agitazione il mondo maschile della nostra città.
Cresciuta nel retrobottega della Merceria Mentasti e nei locali sopra il fondaco dove da tre generazioni i Mentasti si erano insediati, era stata fino ai sedici anni una ragazzina come tante altre, né bella né brutta, piena di foruncoli e con una specie di crosta lattea che le compariva di tempo in tempo sulla faccia e sulla fronte. Ma arrivata a maturazione, quando la madre credette bene di farle portare un reggipetto, apparve miracolosamente sbocciata.
La madre, che aveva visto crescere le due figlie maggiori piuttosto sgraziate, si domandava da quali lombi fosse discesa la sua Tina, nella successione dei Mentasti o dei Carabelli dai quali veniva lei. Ma per tali fenomeni non v’è spiegazione. Accade che nel giro delle generazioni, dentro una serie di semicretini appaia un uomo geniale, un inventore, un artista, un poeta. Così, nel ripetersi delle facce e delle strutture corporee di una casata qualunque, può avvenire che si rompa il solito schema con l’intrusione di un mostro, ma anche con l’apparizione di una creatura che sembra venuta da un altro pianeta, ricca di tutte le bellezze che la figura umana può adunare in sé.
La Merceria Mentasti, la più antica del vecchio centro urbano, era un ampio magazzino con un gran banco dietro il quale sporgeva, dalla cintola in su, il titolare signor Doro, attento a ogni cliente, con un vago sorriso scolpito in viso fin dal mattino e gli occhiali da presbite sulla punta del naso. Al di là di una monumentale cassettiera e dopo lo schieramento di tre commesse di varia età, sporgeva da un altro banco, anche lei con gli occhiali sulla punta del naso, la signora Costanza, moglie del Mentasti, occupata a riordinare cassetti e scatoloni di cravatte e di bretelle, di maglierie di lana e di cotone, di bottoni e di bindella, di reggipetti, di calze, di elastici, di nastri e degli altri articoli che facevano la fama di quel negozio, dove si trovava di tutto: dagli spilli alle cinture, dal filo colorato alle più incredibili passamanerie.
I coniugi Mentasti, appena sposati avevano avuto due figlie a distanza di un anno, poi una terza dieci anni dopo: Clementina detta Mentina e poi semplicemente Tina. Mentina Mentasti, un’assonanza più gentile di quella del nome paterno, che figurava sulla carta intestata della ditta: Artidoro Mentasti.
Sbucata da quel fondaco come se fosse stata tenuta nascosta per anni, la Tina si domandava per quale ragione i garzoni del salumiere Tagnochetti e i lavoranti del sarto Todeschini corressero sulla porta al suo passaggio. Alla Torrefazione Brasiliana, quando andava a comperare per incarico di sua madre i soliti tre etti di miscela speciale, i commessi ammiccavano tra di loro e i clienti maschi si immobilizzavano. Vestiva modestamente, gonna e camicetta, scivolava tra la gente per non apparire spavalda, eppure al suo passaggio i colli si torcevano e capitava perfino che qualcuno tornasse sui suoi passi per seguirla.
Di vita sottile e di larghe spalle, la Tina aveva il corpo di certe senegalesi, di quelle che camminano con un peso sulla testa, diritte e a gambe strette, senza ostentare ma anche senza poter nascondere un seno inverosimilmente eretto e un tondo posteriore che a causa della meccanica del passo ha un movimento, un po’ cavallino se si vuole, ma di un’espressione tale che si potrebbe ritenere divina, se non fosse così umana nei suoi effetti.
Teneva la testa alta, ma spesso la abbassava, come quella dei capretti quando vanno a darsi di cozzo, un po’ per modestia naturale e un po’ per respingere in qualche modo l’indiscrezione di chi la guardava per strada come si guarda una Ferrari o qualche altra prodigiosa macchina nella quale sia contenuta una potenza non comune.
Probabilmente ignari delle attrattive della figlia, che non vedevano molto dissimile dalle due maggiori già sposate, i coniugi Mentasti, che avrebbero dovuto tenere la Tina in una gabbia di ferro, la lasciavano circolare liberamente, e furono ben contenti quando il vecchio avvocato Tirinnanzi la richiese come impiegata. In negozio, fra le commesse, non la volevano, dal momento che aveva fatto le scuole medie. Da un avvocato invece, di prestigio come il Tirinnanzi, pareva ai due esercenti collocata vantaggiosamente, almeno fino al matrimonio, che non poteva mancare, tanta era la fama dell’agiatezza dei Mentasti, gente solida, risparmiatrice e di buon nome. Oltre a una buona dote, le figlie Mentasti avevano avuto in sorte una notevole “maritabilità”, che è inspiegabile prerogativa di certe bruttone, le quali trovano marito senza sforzo, mentre ragazze avvenenti invecchiano senza nozze, o come si dice, vanno in semenza.
Le due sorelle maggiori della Tina, proprio in forza di tale privilegio, prima dei ventidue anni erano già sposate. «Figuriamoci la Tina!» esclamava la madre quando il signor Doro guardando la figlia arricciava il naso: «Non ha un bel carattere come le altre» diceva. «È musona.»
Nello studio Tirinnanzi la Tina faceva il possibile per riuscire cordiale coi clienti, ma era di poche parole, timida e riservata.
Il Cuniberti era da sempre cliente dell’avvocato Tirinnanzi, che amministrava il suo patrimonio e quindi anche il palazzo Cuniberti, uno dei più imponenti del centro, più alcune vecchie case sempre del centro, che sfuggite o fatte sfuggire al piano regolatore, attendevano di venir demolite per far posto a un altro palazzo. Tutto era nelle mani dell’avvocato, nel cui studio almeno una volta la settimana il Cuniberti doveva andare, sebbene di malavoglia. Malavoglia che si dissipò d’un tratto quando cominciò a trovarvi la Tina, spesso sola, perché l’avvocato, se non era in tribunale, stava volontieri nella sua bella villa a curare il roseto o a dormicchiare nelle poltrone.
La Tina prese in simpatia il Cuniberti, che essendo uomo di oltre quarant’anni, serio e contegnoso, non l’avrebbe mai messa in difficoltà, come altri clienti e per esempio il figlio dell’orefice Viganò, che avendola trovata sola aveva osato passarle un braccio intorno ai fianchi provocandole un improvviso giramento di testa e quasi uno svenimento, per il dispetto provato e anche per il contatto improvviso, che aveva sconvolto le sue difese.
Il Cuniberti sedeva in una “savonarola” con le gambe accavallate, parlava e ascoltava, sempre senza muoversi. La Tina stava dietro la scrivania del suo ufficio, tra l’anticamera e lo studio, coi gomiti sul piano di legno e il mento poggiato sulle mani. Ma un giorno in cui il Cuniberti doveva soltanto ritirare la copia di un contratto, già pronto sulla scrivania della Tina, avvicinandosi per scorrerlo rapidamente e dovendosi pertanto chinare col capo sopra quello della ragazza, venne solleticato su di una guancia da un capello che le sfuggiva dalla pettinatura. Le posò allora, con naturalezza, una mano sulla spalla, pur continuando a leggere l’atto. La Tina non si muoveva, ma quando bisognò voltare la pagina alzò il viso a guardare il Cuniberti, che abbandonata la lettura la fissò negli occhi e toltale la mano dalla spalla le accarezzò il sottomento.
Non ci fu altro per quel giorno e neppure in quelli successivi. Ma una settimana dopo, quando la Tina gli telefonò per dirgli che era pronto un altro atto, il Cuniberti la pregò di portarglielo a casa, all’uscita dall’ufficio.
Quella sera la Tina salì con l’ascensore fino all’ultimo piano del palazzo Cuniberti senza alcun pensiero e come addormentata. Non prevedeva nulla, ma il suo essere sapeva già tutto, da sempre, da quando le cellule di cui era formata vagavano in altre catene di cellule e si generavano l’una con l’altra per arrivare a quella associazione benedetta della quale il Cuniberti stava per verificare la consistenza.
La verificò, quella consistenza, nel giro di un’ora.
Quando la Tina tornò a casa con un ritardo che non venne neppure rilevato, nessuno avrebbe potuto notare la modificazione avvenuta in lei. Era andata, per prima cosa, nel bagno a constatare che non vi fosse alcuna traccia, sulla sua biancheria, del poco sangue che aveva sparso nel letto del Cuniberti, poi si era lavate le mani, prima di sedere a tavola come tutte le sere, silenziosa e composta.
Un particolare simile non potrebbe esser noto a chi racconta questa storia, per cui si dovrebbe ritenerlo frutto della sua immaginazione, della sua fantasia e della necessità di entrare nell’intimo dei personaggi perché la storia regga. Ma in questo caso non si tratta di immaginazione, in quanto il Cuniberti, alcuni giorni dopo aver visto passare la signora Tina davanti al Caffè Principale, acconsentì a raccontarmi per filo e per segno la storia di quell’amore che aveva segnato profondamente gli anni della sua maturità e addirittura il corso intero della sua vita.
«Se c’era una donna che avrebbe potuto indurmi al matrimonio» cominciò «non poteva essere che la Tina. Giovane, di eccezionale bellezza, di buona famiglia, docile, affettuosa, era l’ideale per chi come me aveva quasi passato l’età di prender moglie. Era il tempo giusto per mettere al mondo un figlio o due e avviarsi a un decoroso tramonto. Ma quando non si è destinati alla vita coniugale, o meglio quando si è condannati alla solitudine, a vivere di contrabbandi amorosi fino alla vecchiaia, non ci sono occasioni che tengano.»
Questo discorso il Cuniberti me lo faceva nel suo studio, che era anche il suo locale di soggiorno e il luogo dove riceveva, nell’appartamento all’ultimo piano del suo palazzo. Aveva a quel tempo dai sessantatré ai sessantacinque anni ed era lucidissimo, non privo di donne e ancora lontano dal rimbambimento che lo colse verso i settantacinque e che ne ha fatto una specie di ammonimento vivente per tutti coloro che abusano dei piaceri amorosi. Alcuni medici della città sono infatti concordi nel ritenere, forse per invidia, che l’attuale stato di intontimento o di rincoglionimento del Cuniberti sia dovuto a una congestione cerebro-spinale provocata da eccessive prestazioni sessuali.
A questo proposito, profittando dell’amicizia e della confidenza che avevo col Cuniberti, il quale mi faceva l’onore di credermi uomo della sua specie, qualche anno dopo, quando non pativa ancora di smemoratezza, gli domandai quante donne avesse avuto.
«Non più di nove» rispose «che abbiano contato nella mia vita. Ho settant’anni e ho cominciato a diciotto: in cinquantadue anni, se fossero state anche solo cinque all’anno, farebbero un totale di oltre duecentocinquanta. Ma che contano sono le nove che ho detto prima. Delle altre, duecentocinquanta e forse più, ne ricordo sì e no una trentina.»
«Quanto lavoro!» notai. «E per che scopo? Se ne hai dimenticate delle centinaia vuol dire che non aveva senso ripetersi. Era solo fatica.»
«Ti sbagli» rispose. «Intanto non era fatica ma piacere. Poi le donne, tutte insieme, formano un mondo, un continente del quale non si arriva mai ai confini. Un paesaggio dopo l’altro, si va avanti a vederne sempre di nuovi nella speranza di possedere il tutto, senza arrivare mai a poter dire: ora ci sono. Più si scopre e meno si capisce. È un mistero nel quale si sono persi tanti prima di me e chissà quanti si perderanno ancora. Le donne invece sanno tutto, hanno capito tutto e lasciano fare agli uomini quasi con indifferenza. Per loro non è un mistero. I misteri, come si sa, esistono solo per coloro che ne sentono la necessità.»
Tornai alla storia della Tina, della quale sapevo solo che la faccenda era durata due anni e si era interrotta col fidanzamento della ragazza, seguito un anno dopo da un matrimonio che la tolse dalla circolazione.
«La conobbi» riattaccò il Cuniberti «nello studio dell’avvocato Tirinnanzi e la invitai a casa mia, dopo un certo corteggiamento, col risultato che ti ho già detto.
«Il giorno dopo il fatto andai a vederla nello studio dell’avvocato e la trovai di ottimo umore. Le domandai come aveva passato la notte e mi rispose, arrossendo: “Benissimo”. Le dissi che l’avrei aspettata in casa l’indomani e annuì piegando la testa.
«La Tina chiudeva la sua giornata nello studio dell’avvocato alle diciotto e rincasava senza passare dal negozio, di modo che i suoi la trovavano in casa alle diciannove e trenta, quando abbassavano le saracinesche e salivano nella loro abitazione.
«In quel frattempo avrebbe potuto trattenersi in casa mia. Ma bisognava tener presente che una donna, specialmente se giovane e bella, la quale varcasse più di tre o quattro volte il portone del mio palazzo, era giudicata. Cento occhi, dalle botteghe della st...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Giovanni Tesio
  4. Cronologia
  5. Bibliografia critica essenziale
  6. Nota al testo
  7. IL CAPOSTAZIONE DI CASALINO E ALTRI 15 RACCONTI
  8. L’italiano Pettoruto
  9. Alla luce delle stelle
  10. Il bombardino del signor Camillo
  11. Come se la cavò Cavalcalovo
  12. Tutto si accomoda, volendo
  13. Chi va alla notte...
  14. Che tempi, che fichi
  15. Un posto meraviglioso, ben nascosto
  16. Gli Arnaboldi alla porta
  17. Il capostazione di Casalino
  18. La fuga di Viviani
  19. L’uomo di Petrovaradino
  20. Il re Chiappero
  21. Le storie del Botti
  22. I fratelli Mascherpa
  23. Trenck, il mansueto
  24. Copyright