Ragazzo della Bovisa
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Ragazzo della Bovisa

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ragazzo della Bovisa

Informazioni su questo libro

Tra la Milano buia dei rifugi del 1943 e la Milano luminosa dei balli nei cortili del 1945, passando per le strade di periferia, il borgo contadino di Treviglio e una colonia estiva sul Lago Maggiore, in queste pagine Ermanno Olmi racconta la vita di un ragazzo lombardo che molto gli somiglia, rievocando gli anni del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, segnati dalle amicizie di quartiere, le inquietudini del periodo bellico, l'ardore e il tremore dei primi amori, il dolore per la morte del padre, le incursioni al luna park, le prime malizie consumate nei cinemini di periferia. Con uno stile che alterna folgoranti accensioni liriche a disincantate sfumature ironiche, Olmi ricostruisce un perfetto quadro d'epoca, tra scorci d'ambiente e gustosi aneddoti, dando vita a una piccola commedia umana del Novecento milanese, un romanzo intenso, vibrante, bellissimo, in cui la grande Storia si intreccia e diventa tutt'uno con le piccole storie degli uomini.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804529972
eBook ISBN
9788852059223

Otto

1

Dopo la morte di mio padre non tornai più in colonia. L’anno scolastico lo terminai a Milano, andando avanti e indietro tutti i giorni col treno degli operai. Andavo a scuola dai preti. La sera tornavo troppo tardi e così non potei più accompagnare Bambina. La vidi una domenica in via Roma, ma era già in compagnia di altri e mi salutò appena.
Anche la mamma viaggiava con me, perché la ditta dove lavorava mio padre le diede un posto d’impiegata per poter tirare avanti la famiglia.
Mio fratello invece viaggiava di meno; sempre più spesso si fermava a studiare a casa di un suo amico che abitava nelle campagne della periferia. Mia madre ogni tanto si preoccupava:
«Ma cosa diranno i genitori del tuo compagno ad averti sempre lì, in casa?»
«Sono contenti!» rispondeva mio fratello. «Perché così studiamo meglio.»
E mia madre insisteva:
«E per il mangiare?»
«Non preoccuparti. Loro vivono in campagna e ne hanno sempre.»
E il discorso finiva lì, perché erano frasi scambiate alla stazione mentre il treno stava per partire.
I treni erano sempre affollatissimi ed era difficile trovare un posto. Ogni tanto qualcuno lasciava sedere mia madre e io me ne stavo in corridoio o nella piattaforma dove c’erano delle ragazze che vedevo quasi tutte le sere. Addirittura, appena arrivavo in stazione, percorrevo tutto il treno in su e in giù per vedere dove erano salite. Una in particolare mi piaceva, anche se era molto più vecchia di me: avrà avuto almeno diciott’anni. Lei s’era accorta che io la guardavo e una volta mi fece anche un mezzo sorriso. Ma proprio in quel momento mia madre mi chiamò per dirmi che c’era un posto vicino a lei. Risposi che preferivo stare al finestrino e dovetti anche insistere per non andarmi a sedere. Quando mi rigirai verso la ragazza, vidi che lei stava ridacchiando con una sua amica: ridevano forse di me? Salirono dei giovanotti che si fermarono in compagnia delle ragazze: uno di loro era in divisa militare, ma sembrava ancora un ragazzo. Fu lui che offrì sigarette a tutti, e anche quella che piaceva a me si mise a fumare. Dal modo con cui ascoltava e rideva, capii che lei ci stava con quello in divisa. Ero geloso. Avrei voluto vedere se fossi stato anch’io in divisa e avessi avuto le sigarette! L’avrei sfidato a buttarsi dal ramo più alto! Ma erano ancora pensieri da bambini.
Ormai era diventato buio e nei corridoi non c’erano luci. Non riuscivo più a scorgere neppure le loro sagome. Ma qualcuno accese all’improvviso un fiammifero e vidi lei che si faceva baciare da quello in divisa!
Un giorno non ci fu doposcuola, perché i preti avevano una loro riunione e così appena dopo mangiato ci lasciarono liberi. Avevo quasi tre ore di tempo per andare al treno e allora pensai di tornare a vedere la mia casa bombardata e speravo anche di poter incontrare qualche mio compagno di quando si giocava in via Cantoni.
Ci andai a piedi anche se c’era un bel pezzo di strada per arrivare fino a casa mia. Ogni tanto chiedevo a qualcuno di indicarmi la direzione e poi mi mettevo a correre. Dappertutto c’erano i segni delle bombe: macerie e case abbandonate. A un certo punto riconobbi i luoghi che mi erano familiari. Rividi il villino di Gabriella: aveva la porta sfondata e i vetri rotti. Era vuoto e devastato. Guardai il balconcino e mi tornò in mente Gabriella, quando, di carnevale, lanciava stelle filanti colorate e poi le legava al parapetto di ferro battuto.
Dal fondo della strada veniva avanti un furgoncino a pedali: lo spingeva un ragazzo dall’aria stracciona. Quando mi fu vicino si fermò a guardarmi. Lo riconobbi.
«Pedrini!»
«Ciao» disse lui. «Da dove vieni? Sei tornato a casa?»
«No, la casa è bombardata. Adesso sto da mia nonna. Sono solo venuto a vedere.»
Guardò i miei libri:
«Tu vai ancora a scuola?» mi chiese.
«Eh, sì» risposi e dopo un’esitazione domandai. «E tu?»
«Io sto andando a fare un po’ di carbone alla ferrovia. C’è un posto qui avanti dove si passa. Hanno fatto un buco nella murella.»
Andai con Pedrini. Dopo qualche passo disse:
«Dai, monta!»
Voleva che montassi nel cassone del furgoncino.
«Ma mi sporco tutto!»
«Metti sotto un fazzoletto» insistette lui, porgendomi il suo fazzoletto ch’era conciato da far schifo.
«Allora metto sotto i libri» e così feci: mi sedetti sui libri reggendomi alle sponde, mentre lui cominciò a pedalare a tutta forza.
Arrivammo al buco nella murella (il muro di cinta dello scalo ferroviario) e potei assistere a come Pedrini si procurava il carbone. Mi spiegava ogni mossa:
«Prima bisogna vedere se c’è la milizia» e così dicendo saltò come un gatto dal furgoncino fino in cima al muro e cominciò a scrutare l’orizzonte.
«Di solito a quest’ora giocano a carte.»
Saltò giù di nuovo, prese un sacco, l’arrotolò e mi disse:
«Tu, intanto, curami il furgoncino.»
E sparì nel buco. Rimasi lì come un cretino senza sapere cosa fare. Per fortuna non passava nessuno. Allora andai a sbirciare nel buco. Vidi Pedrini che saltava fra i binari, si accucciava dietro a dei vagoni fermi e poi sparì del tutto. Ma subito rispuntò in cima a un carro carico di carbone. Lavorava rapido come un animale sulla preda. In breve riempì mezzo sacco e, lasciando libera l’altra metà, per poterlo meglio manovrare, lo fece scivolare giù dal carro. Poi anche lui saltò a terra. Non lo vidi più, ma dopo poco eccolo spuntare proprio lì davanti al buco. Posò il mezzo sacco sul furgoncino e prese subito l’altro vuoto.
«Vedi come si fa?»
«Ma non hai paura? Se ti prendono?»
«Ai bambini non fanno niente. Se mi prendono, mi fanno lasciar giù il carbone e basta.»
«E t’hanno già preso qualche volta?»
«No, mai.»
Rimontò in cima al muro per ricontrollare la situazione.
«Una volta a uno hanno anche sparato, però non l’hanno preso!»
«Ma allora c’è pericolo?» chiesi preoccupato.
Lui rispose: «L’unico pericolo è la terza rotaia. Sai cos’è la terza rotaia?».
«No» risposi.
«La terza rotaia è dove passa la corrente. Quella lì, anche se solo la sfiori, resti secco!»
Intanto era saltato giù ed era partito per un altro giro. E, come prima, mi misi a seguire ansioso i suoi movimenti. Ogni tanto guardavo anche la strada per vedere se arrivava gente. Infatti stava avanzando qualcuno in bicicletta. Porca miseria, sembrava proprio un ferroviere! Non sapevo cosa fare: se andar via o far finta di niente. Se mi avesse chiesto qualcosa avrei risposto: io non so niente, non è roba mia!
E invece il ferroviere passò indifferente, buttando solo una breve occhiata.
Tornò Pedrini col secondo sacco. Io lo informai subito:
«È passato di qui un ferroviere, ma non ha detto niente!»
«I ferrovieri non dicono mai niente. Loro fanno finta di non vedere. Sono i militi, i carogna!»
Ripartimmo alla svelta. Questa volta io lo seguivo a piedi e dovevo trotterellare. Appena si sentì al sicuro, rallentò le pedalate. Soffiava.
«Oggi è già la terza volta!»
«Però.»
«Dei giorni anche cinque o sei.»
«E cosa te ne fai di tutto ’sto carbone? Non lo consumerete mica tutto?»
«Lo vendo!» disse, saltando giù dalla sella. «Guarda!» e ritirò fuori dalla tasca il fazzoletto sporco che passò nell’altra mano, e dopo il fazzoletto una manciata di soldi. «Col carbone e il rottame che si trova nelle macerie si guadagnano dei bei soldi!»
«E cosa te ne fai?»
«Vado al cinema o compero quello che voglio. Anche il furgoncino l’ho comperato con i miei soldi!»
Camminammo un po’ in silenzio, poi lui mi disse ancora:
«Adesso cosa fai?»
«Vado a prendere il treno. Sono sfollato da mia nonna.»
«Se vieni un’altra volta ti pago il cinema.»

2

I bombardamenti erano quasi cessati. Invece capitava sempre più spesso che mitragliassero i treni. Due o tre aerei calavano in picchiata all’improvviso e scaricavano le loro raffiche micidiali. Un mattina capitò quando c’eravamo anche noi: mia madre e io. Era una mattina gelida e i rami degli alberi erano carichi di brina. La gente si buttava dal treno, inciampava e cadeva sulla massicciata. Lungo il terrapieno dei binari correva un fosso pieno d’acqua. Era troppo largo per poterlo saltare. Alcuni tentavano, ma cadevano dentro. Altri si rassegnavano e lo attraversavano immergendosi fino alle ginocchia. In un certo punto c’era anche una passerella fatta con un trave quadrato, ma quelli che tentavano di passarci sopra venivano urtati da altri che spingevano alle spalle. Io non feci in tempo ad attraversare: mi ero messo al riparo sotto il vagone come avevano fatto altri. C’era foschia e non si poteva vedere il cielo né tanto meno distinguere gli aerei.
«Non si sentono i motori. Forse si sono allontanati del tutto!» dicevano quelli intorno a me.
«Per fortuna non è successo niente.»
«Avranno visto che è un treno passeggeri.»
La locomotiva fischiò due volte. Quelli che erano andati nei campi tornavano al treno mezzi fradici e qualcuno rideva e li prendeva in giro:
«Ohè, non è mica ferragosto per fare il bagno!»
«Ma va’ in malora!» rispondevano.
Io non vidi mia madre; non era neanche nel vagone vicino: la ritrovai alla stazione di Treviglio.
La sera, in casa della nonna, la mamma disse che forse adesso era meglio fermarsi in città, perché era meno pericoloso.
«C’è una stanza libera nella casa accanto alla nostra. Potremmo sistemarci lì con un paio di reti e un tavolo.»
«E dopo?» domandò la nonna, che non sapeva cosa dire.
«Dopo si vedrà» rispose la mamma. «Così anche lui» accennò a me «potrà dormire un po’ di più al mattino. Gli farà bene.»
Verso la fine dell’inverno facemmo il trasloco. Ci portammo dietro le cose essenziali: le due reti, una branda, i materassi e le coperte, un tavolo e quattro sedie, una stufa parigina, una cesta di pentole, piatti e posate. Venne un parente della nonna con carro e cavallo. Ci aiutò anche lo zio, che poi attaccò anche un paio di mensole fatte con assi e fil di ferro.
«Caso mai, se qualche sera v...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Goffredo Fofi
  4. Ragazzo della Bovisa
  5. Uno
  6. Due
  7. Tre
  8. Quattro
  9. Cinque
  10. Sei
  11. Sette
  12. Otto
  13. Copyright