La scelta di seguire il consiglio del mio amico giornalista e scrittore, di fare cioè luce sulle vicende di Emilio Riva, mi conduce fino alle origini della vita di Emilio. Nato a Milano, da una famiglia non agiata, fin da piccolo vuole qualcosa di meglio, e cresce con l’ambizione di avere di più, non sa mai accontentarsi di ciò che ha. Si capisce già allora che è una persona speciale, diversa, uno con qualcosa dentro che lo porterà lontano. La sua dev’essere una storia simile a quella di tanti self-made man di successo. Vogliono avere, devono avere, si sentono spinti freneticamente verso quell’unico obiettivo: arrivare. Hanno nell’anima il cosiddetto «sogno americano».
Quando compie 17 anni, Emilio non riesce a scampare all’arruolamento tra i repubblichini di Salò. Ma a lui quel percorso non piace per niente, così appena gli è possibile scappa a Rho, dove abita la fidanzatina dell’epoca. Colei che lo aiuterà a prendere il diploma di ragioniere alle scuole serali. Ma più che la ragazza, può la fame, e a Rho in quei giorni si mangia davvero poco. Anzi, quasi niente. Così torna sui suoi passi e si consegna al maresciallo tedesco, che gli assegna l’incarico di approvvigionatore dell’esercito. Non poteva andargli meglio. Non solo adesso ha cibo a sufficienza per sfamarsi, ma riesce a procurarne quanto basta anche alla sua famiglia. Va ogni giorno a Milano e fischia sotto la finestra di casa. Quando la madre cala giù dalla finestra il cestino, lui furtivamente lo riempie di pietanze sgraffignate all’esercito. Con Emilio, quel sottufficiale è sempre disposto a chiudere un occhio, soprattutto perché si rende ormai conto che le truppe tedesche in Italia sono destinate a durare pochissimo.
«Io adesso aiuta te. Quando Germania kaputt, tu aiuta me.»
Per questo, appena la guerra è finita, Emilio accetta di tenerlo nascosto in casa propria per sei mesi. Il maresciallo lascia il piccolo appartamento dei Riva solo quando le acque sembrano finalmente più calme, e a quel punto può ripartire per la Germania senza correre grossi rischi per la sua pelle.
Adoravo sentir parlare Emilio del suo passato, per me era come ascoltare una favola. Emilio e il suo modo di raccontare mi intrigavano moltissimo, le sue parole mi restituivano un mondo sconosciuto. Mi pareva sempre abilissimo a sfruttare ognuna delle occasioni che gli si presentavano davanti. Me lo vedo, era un magro adolescente che a bordo della sua bicicletta pedalava per le vie di Milano a cercarsi opportunità per fare affari.
Non ho mai riso tanto come al racconto delle sue avventure. Come quella che gli capitò mentre le truppe alleate stavano ormai arrivando nel Nord dell’Italia e i tedeschi stavano fuggendo dal paese abbandonando tutto alle loro spalle. In quei giorni, Emilio era in compagnia del suo solito gruppetto di amici alle porte di Milano. Una mattina, proprio durante una delle loro frequenti escursioni, ebbero la sensazione che la fortuna fosse stavolta tutta dalla loro parte. Avevano trovato due camion abbandonati.
A bordo di uno c’erano cassette piene di soldi, ed era tutta moneta della Repubblica di Salò, sul secondo c’erano invece dei paracadute. Emilio prese a saltare da un camion all’altro, fino a che scelse per sé quello coi paracadute. Pensò che, una volta arrivati anche dalle loro parti gli anglo-americani, la valuta di Salò sarebbe immediatamente uscita fuori corso e sarebbe perciò diventata carta straccia. Coi paracadute, invece, si potevano fare più facilmente un po’ di soldi, ricavandone magari dei reggiseni o altro materiale di seta.
Aveva condiviso la scoperta dei camion con un contadino, girovago come loro, al quale andarono perciò le banconote di Salò. Finita la spartizione, Emilio e i suoi amici iniziarono a prenderlo in giro:
«Quel denaro è solo spazzatura. Già adesso non vale più niente. Prendi qualche paracadute anche tu, piuttosto, questi sì che sono moneta sonante. Vedrai al mercato nero come si venderanno bene.»
Il contadino si limitò a scrollare un po’ le spalle:
«Fa niente,» rispose «userò le banconote come carta per tappezzare la stalla.»
Ci volle poco per capire che le autorità anglo-americane, in realtà, non avrebbero affatto annullato così presto il corso del denaro di Salò. La beffa fu così bruciante e il danno così enorme che Emilio e i suoi amici decisero di tornare sul luogo in cui era avvenuta quella pessima spartizione, ma del contadino non c’era più traccia. E di quel camion pieno di denaro non esisteva più nemmeno l’ombra.
La fortuna fu invece tutta dalla sua parte quando, messo finalmente da parte un po’ di denaro, si attivò per recuperare relitti abbandonati lungo le spiagge della Campania, per poi rivenderli alle grandi acciaierie bresciane su al Nord. Un giorno si ritrova però al porto di Ancona, dove compra dagli americani una nave Liberty, che stiva diecimila tonnellate. Una volta che se ne impadronisce, scopre che la nave è piena di fusti di benzina. È un affare enorme per l’epoca, tanto che grazie a quell’acquisto adesso comincia veramente a disporre di quantità rilevanti di denaro. Può insomma inseguire il sogno di mettersi in proprio.
Per capire Emilio devo per forza andare indietro nel tempo, soprattutto perché sono certa che noi siamo il nostro passato, malgrado i piccoli continui cambiamenti che viviamo e che incidono sulle nostre scelte. Le ombre di ciò che siamo stati e ciò che abbiamo vissuto continuano a inseguirci.
Mi accorsi anni fa che Emilio non mangiava mai la frutta. Gliene chiesi il motivo.
«Non ti piace?»
«Mi piace, la ragione per cui non la mangio volentieri è un’altra.»
«Cioè?»
«Avevo 8 o 9 anni e un giorno entrai in cucina per mangiare una mela che era sul tavolo e che avevo adocchiato da un po’. Mia madre mi bloccò subito: “Ce n’è una sola, dividila con tuo fratello”. Non mangiavamo troppo spesso, avevo fame, ma non la divisi, gliela diedi tutta e andai via. Da allora, la frutta continua a ricordarmi quell’episodio.»
Sorrisi. E pensai proprio a quelle ombre. Alcune inseguivano anche Emilio.
So bene com’è fatto, e immagino cos’abbia borbottato mentre lasciava quella mela tutta al fratellino più piccolo. “Questa tienila tu, un giorno di mele io ne comprerò vagonate.”
Nel ’54, dopo aver continuato per anni a comprare e vendere rottami, riesce a costruirsi il suo primo vero stabilimento a Caronno Pertusella, dove subito inizierà a dare del filo da torcere ai vecchi siderurgici. Sempre in quel periodo, allestisce anche la prima mensa con un fornelletto a gas. Accanto al suo ufficio, aveva fatto allestire una piccola cameretta con un letto e una poltrona. Gli occorreva per riposare nell’orario di intervallo, subito dopo il pasto. A lui per ricaricarsi non serviva altro.
Nei primi anni Sessanta, per risparmiare tempo era costretto a mangiare alla trattoria di fronte alla fabbrica. Ma i continui bruciori di stomaco e le frequenti dissenterie lo convinsero a installare un fornellino all’ultimo piano, in modo da mandar giù quando voleva un piatto di spaghetti conditi con un sugo fatto al volo che naturalmente preparava lui stesso.
Con gli anni, quel fornelletto è sparito e sono via via apparse vere strutture da cucina, con in più cuochi e camerieri che facevano invidia a un ristorante stellato. Per Emilio è proprio vero che il cibo e la sua preparazione sono cultura. Cultura alla quale ha sempre dedicato tantissimo del suo tempo libero.
«A cucinare bene e a cucinare male ci impieghi lo stesso tempo» diceva spesso.
Perciò, la differenza non è nella quantità di minuti impiegati, ma nella mano di chi si dedica ai piatti e nella qualità degli ingredienti, cioè nella bontà delle materie prime. Ecco perché all’olio di Taranto, come ad altri prodotti simili, riservava tanta attenzione come alle arance e al capretto della Puglia, che diventeranno per tutti noi della famiglia una leccornia abituale.
A Natale, Emilio regalava regolarmente lattine d’olio prodotto nei terreni dell’Ilva, con etichetta Ilva, la cui prima spremitura era riservata a un numero ristrettissimo di amici e parenti. Il capretto tarantino era invece uno dei due protagonisti della nostra tavola durante il pranzo di Pasqua, l’altro era il capretto che veniva dalla Val Camonica. E ogni volta ai commensali si poneva il quesito su quale fosse il migliore. A Emilio si riservava il ruolo naturale di giudice unico e supremo del verdetto finale.
Lo spirito col quale organizza le mense è più o meno quello di cui si serve per scegliere le segretarie. Intanto, alle impiegate in ufficio impone a tutte la divisa: gonna scura e camicia bianca che loro stesse hanno scelto liberamente consultandosi. Lui si è solo premurato di affidare il lavoro a un sarto.
Non gli sta tanto a cuore di quale divisa si tratti, ma tiene al fatto che siano tutte uguali. Perché, come spiega lui:
«Anche le hostess indossano una divisa. Non mi piace vedere sfilate di abiti e colori diversi in un ufficio nel quale tutti fanno lo stesso lavoro.»
Ma nel corso degli anni sempre più spesso i figli lo prendono in giro. Si lamentano perché, a differenza di altri uffici come il loro, la sede del Gruppo Riva non ha e mai ha avuto una segretaria coscialunga, una vamp che accolga gli ospiti col compito di togliere il fiato.
Eppure, un giorno sembra che si celebri una piccola rivoluzione. Riescono finalmente a fargliene assumere una. Dopo qualche mese, accade che il calendario indichi una festività che cade di giovedì. Ogni impiegato cova nella testa il sogno del weekend lungo. Ma ognuno si guarda bene dal proporlo, sa quali sono le regole lì dentro. La nuova arrivata, tuttavia, può essere stavolta il messaggero adatto. E lei, così sicura del proprio aspetto, accetta l’incarico.
«Se volete» sussurra «vado io a chiederlo al presidente.»
Si fa annunciare ed entra ancheggiando nell’ufficio di Emilio, con due bottoni della camicetta bianca ben aperti. Tenete presente che sarà lo stesso Emilio a raccontarmi tutto. La segretaria, prima di chiedere il permesso, siede accavallando le gambe, mentre come per magia la gonna le si alza fin quasi a raggiungere l’inguine. Poi, con voce calda dice:
«Presidente, sa che giovedì prossimo è festa? Avrei pensato che si potrebbe fare il ponte e tornare al lavoro lunedì mattina. Cosa ne pensa?»
La risposta la conoscevo bene, già prima che Emilio me la riferisse. Lui la osserva con uno sguardo freddo, e senza alcuna esitazione nella voce risponde:
«Signorina, alla Riva si fanno i guadi, non i ponti.»
Quando la vamp lascia l’ufficio, Emilio alza il telefono e parla alla responsabile della segreteria.
«Da domani, la signorina che è appena uscita dal mio ufficio non lavora più con noi.»
Nessuna delle vecchie segretarie la invidiò più. In cuor loro sapevano già che, in un ufficio come quello, un tipo così sarebbe durato poco.
Anche la regola della mensa in ufficio un giorno conosce un’eccezione. Emilio mi comunica che avremmo dovuto organizzare una colazione ufficiale per il visconte Étienne Davignon, che era stato presidente del ramo siderurgico della Comunità europea, e per il professor Romano Prodi, al tempo presidente dell’Iri. Siamo nel 1994. Ed è una delle primissime volte in cui Emilio porta in casa il suo lavoro. Di comune accordo, decidiamo che la sede migliore sia la villa di Malnate, dove attorno all’enorme tavolo da pranzo si poteva stare anche in sedici.
Io mi occupo degli ospiti e della tavola. A lui come al solito spetta il menu. Scopro presto che a Davignon era giunta voce del meraviglioso risotto di Emilio Riva. Ricordo quella colazione soprattutto per un lato che colsi nel professor Prodi, un suo profilo che non avevo mai immaginato: un delizioso senso dell’umorismo. Mentre il risotto di Emilio raccoglieva complimenti a scena aperta, Prodi ci raccontò una barzelletta che stranamente ancora ricordo, probabilmente proprio a causa dei personaggi che si ritrovavano attorno a quel tavolo.
«Il signor Francesco» cominciò il professor Prodi «sta passando davanti a un negozio di animali, quando l’occhio gli cade su un pappagallo con uno ...