
- 192 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuove avventure di Gérard
Informazioni su questo libro
Il séguito e la conclusione delle rocambolesche imprese del colonnello Gérard sullo sfondo delle guerre napoleoniche, dalle esaltanti vittorie del suo generale fino al triste esilio di Sant'Elena.
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Informazioni
VI
Waterloo
Di tutte le grandi battaglie in cui ebbi l’onore di combattere per l’Imperatore e per la Francia, nessuna venne perduta; a Waterloo, sebbene in un certo senso fossi presente, non mi fu possibile combattere, e il nemico ottenne la vittoria. Non spetta a me dire se vi sia un rapporto tra le due cose, ma senza dubbio vi è motivo di riflettere sulla coincidenza e di trarne conclusioni lusinghiere… per qualcuno. Dopo tutto, a Waterloo sarebbe bastato rompere alcuni quadrati della cavalleria inglese e la vittoria sarebbe stata nostra; e se gli ussari di Conflans, guidati da Etienne Gérard, non sarebbero stati in grado di farlo, allora tutti i giudici più competenti in materia si sono sbagliati. Ma non parliamone più: era destino che io non dovessi combattere e che l’Imperatore cadesse; ma era destino anche che in quel giorno tristissimo io dovessi compiere più gloriosamente il mio dovere.
Innanzi tutto, per dimostrarvi che fu davvero il destino a vincere, lasciate vi dica che in tutta la sua vita Napoleone non aveva mai avuto un esercito come quello di Waterloo; quando avrò detto che era perfetto, non sarà necessario aggiungere altro. Nel 1813 la Francia era esausta, e per ogni veterano avevamo cinque ragazzi; ma nel 1815 le cose erano diverse. Tutti i prigionieri erano tornati: dalle nevi della Russia, dai tetri castelli spagnoli, dai pontoni inglesi; ed erano uomini temibili, veterani di venti battaglie, ansiosi di battersi e di vendicare le loro lunghe sofferenze, tutti fanatici dell’Imperatore, che adoravano come i mamelucchi adorano il Profeta, pronti a trafiggersi con le loro baionette pur di essergli utili. Era così alto il morale della Francia in quei giorni che qualunque altra nazione avrebbe indietreggiato, atterrita. Qualunque altra nazione, fuorché l’Inghilterra. Gli inglesi, vedete, non hanno anima, non hanno immaginazione, non hanno entusiasmo; ma hanno una cosa: le bistecche. Contro le bistecche ci scontrammo invano. È così, amici, non sto scherzando. Da una parte poesia, sacrificio, cavalleria, tutto quel che è bello ed eroico; dall’altra… le bistecche. Le nostre speranze, i nostri ideali, i nostri sogni, tutto si infranse contro le terribili bistecche della vecchia Inghilterra.
Saprete certamente, amici miei, come l’Imperatore riunì le sue forze, quindi come lui e io, con centotrentamila veterani, raggiungemmo a marce forzate la frontiera settentrionale e piombammo sugli inglesi e i prussiani. Il 16 giugno Ney impegnava gli inglesi a Quatre-Bras mentre noi battevamo i prussiani a Ligny. Non sarò io a dirvi quanto abbia contribuito io stesso a quella vittoria; ma che gli ussari di Conflans si batterono gloriosamente è cosa nota. Anche i prussiani si battevano bene, e ottomila ne rimasero sul campo; l’Imperatore credette di non avere più nulla da temere da quel lato, ma in ogni caso mandò il maresciallo Grouchy con trentaduemila uomini a inseguirli, perché non dovessero poi rovinare i suoi piani di battaglia; quindi, con gli altri ottantamila che gli rimanevano, affrontò gli inglesi e le loro bistecche. Dovevamo vendicarci di molte cose sugli inglesi: le sterline di Pitt, i pontoni di Portsmouth, l’invasione di Wellington, le perfide vittorie di Nelson… E il giorno della vendetta sembrava infine giunto.
Wellington aveva con sé sessantasettemila uomini, molti dei quali però erano olandesi e belgi poco desiderosi di battersi contro di noi. Trovandosi contro l’Imperatore, con i suoi ottantamila uomini, venne paralizzato dalla paura al punto che non riuscì a far muovere il suo esercito. Avete mai visto un coniglio quando gli si avvicina il serpente per divorarlo? Così erano schierati gli inglesi a Waterloo.
La notte precedente, l’Imperatore, che aveva perduto a Ligny un suo aiutante di campo, mi ordinò di sostituirlo, e io dovetti lasciare i miei ussari al comando del maggiore Victor. Non so chi ne fosse più addolorato, tra me e i miei uomini; ma gli ordini sono ordini. Così, al seguito dell’Imperatore, passai lungo il fronte nemico la mattina del 18. Napoleone guardava gli inglesi con l’aiuto del suo solito cannocchiale, e faceva piani sul modo di sterminarli al più presto. Gli erano accanto Soult, Ney, Foy, e altri che avevano combattuto contro gli inglesi in Portogallo e in Spagna.
«Badate, sire, la fanteria inglese è ottima» ammonì Soult.
«Voi la credete ottima perché vi ha battuto» fu la risposta dell’Imperatore.
A queste parole, noi giovani nascondemmo un sorriso; ma Ney e Foy apparivano sempre più seri e preoccupati. Le linee inglesi erano avanzate silenziosamente fino a due tiri di fucile da noi, su una delle alture della stretta vallata; sull’altra altura i nostri, che avevano appena finito il rancio, si schieravano per la battaglia. Fino a poco tempo prima aveva piovuto a dirotto, ma in quel momento il sole tornò a splendere rivelando in tutta la sua temibile bellezza la forza del nostro esercito. A quella vista non potei trattenermi e, sollevandomi sulle staffe, gridai agitando il colbacco:
«Viva l’Imperatore!»
Subito quel grido fu ripetuto dai più vicini e si diffuse come un tuono in tutte le linee. I cavalieri agitavano le sciabole, i fanti le baionette. Gli inglesi sembravano impietriti: sapevano che era venuta la loro ora.
E sarebbe stato così, credetemi, se in quel momento l’Imperatore avesse dato l’ordine e tutto il nostro esercito avesse attaccato. Anche mettendo da parte ogni problema di valore e coraggio, noi eravamo più numerosi. Ma l’Imperatore voleva fare le cose con ordine e aspettare che il terreno si indurisse perché l’artiglieria potesse manovrare. Così si perdettero tre ore preziose, ed erano già le undici quando vedemmo avanzarsi dalla nostra sinistra le colonne di Girolamo Bonaparte e sentimmo il rombare dei cannoni che annunziava l’inizio della battaglia. Quelle ore perdute furono la nostra rovina. Sulla sinistra l’attacco era diretto contro una fattoria occupata dalla guardia inglese; la guardia resisteva e le colonne di D’Erlon avanzarono dalla destra per impegnare un’altra parte delle linee inglesi, quando la nostra attenzione venne distolta dalla battaglia combattuta sotto i nostri occhi per rivolgersi a un punto lontano.
L’Imperatore, che osservava con il cannocchiale l’estrema ala sinistra inglese, si voltò improvvisamente verso il duca di Dalmazia, o Soult, come noi soldati preferivamo chiamarlo, esclamando:
«Che cosa c’è laggiù, maresciallo?»
Guardammo tutti nella direzione indicata dall’Imperatore, alcuni con i cannocchiali da campo, altri facendosi schermo agli occhi con la mano. Da quel lato c’era un fitto bosco, poi un lungo pendio appena erboso, e più oltre un altro bosco. Nel pendio erboso si vedeva una massa scura e incerta, simile all’ombra di una grossa nuvola.
«Credo sia una mandria, sire» rispose Soult.
Ma proprio in quel momento in quella massa scura si vide come un luccichio.
«No, è Grouchy» disse tranquillamente l’Imperatore; e riabbassò il cannocchiale. Grouchy, come senza dubbio ricorderete, era stato mandato con trentaduemila uomini a inseguire i prussiani. L’Imperatore credette che si trattasse di lui, tornato alla testa del suo corpo, e continuò: «Adesso gli inglesi sono doppiamente perduti; li tengo in pugno, e non possono sfuggirmi».
Si guardò attorno e fissò la sua attenzione su di me.
«Ecco il principe dei messaggeri» esclamò. «Siete ben montato, colonnello Gérard?»
Ben montato? Cavalcavo Violette, l’orgoglio della brigata, e non esitai davvero a rispondere di sì.
«Allora raggiungete il più rapidamente possibile il maresciallo Grouchy» riprese l’Imperatore «le cui truppe vedete laggiù, e ditegli che gli ordino di attaccare gli inglesi sul fianco sinistro e alle spalle, mentre io li attaccherò di fronte. Fra tutti e due, li schiacceremo, e non uno ci sfuggirà.»
Salutai e partii senza una parola, il cuore che mi martellava in petto per la gioia di una simile missione. Diedi appena un’occhiata alle linee inglesi: erano tutti perduti quegli uomini, lo aveva detto l’Imperatore, e toccava a me trasformare in realtà quelle parole.
Il primo bosco a cui ho accennato era la cosiddetta Foresta di Parigi, un folto querceto attraversato appena da qualche stretto sentiero. Mi fermai un momento e tesi l’orecchio, ma non sentii alcun suono, né il calpestio dei soldati, né uno squillo di tromba. Dietro di me infuriava la battaglia, ma davanti a me tutto era silenzio, uno strano silenzio che mi faceva pensare alla tomba in cui presto tanti uomini valorosi avrebbero dormito per sempre. Per parecchie miglia galoppai al passo che solo Violette poteva tenere, e infine scorsi, ancora incerti tra gli alberi, alcuni soldati, evidentemente dell’avanguardia di Grouchy; erano ussari, non ci si poteva sbagliare, ma troppo lontani perché potessi riconoscerne il reggimento. Poi mi arrivò il lontano rullare di un tamburo, e il rombo cupo di un esercito in marcia. Stavo finalmente per portare al maresciallo l’ordine che avrebbe schiacciato per sempre i nemici della Francia!
Uscito dall’altro lato del bosco, vidi di fronte a me, oltre il lieve pendio, la foresta di Saint Lambert. Compresi allora perché le truppe impiegavano tanto tempo ad attraversare quel breve tratto e a entrare nella foresta di Parigi: il pendio era come tagliato in due da una gola, e su entrambi i lati vedevo lunghe colonne di truppe, fanteria, cavalleria, artiglieria, che avanzavano in due file. Stavo per riprendere la corsa e chiedere al primo ufficiale che mi capitasse a tiro dov’era il maresciallo, quando improvvisamente compresi che gli artiglieri avevano, sì, un’uniforme turchina, ma non il dolman a risvolti rossi della nostra artiglieria. Stupito, mi stavo chiedendo che cosa potesse significare, quando una mano mi si posò sul ginocchio.
Poco lontano, proprio sul limitare della foresta, c’era una piccola osteria, dove i taglialegna e i carbonai si fermavano a riposare; passando, avevo visto l’oste ed era lui che ora mi stava accanto.
«Siete pazzo?» mi sussurrò vivamente. «Che fate qui?»
«Io? Cerco il maresciallo Grouchy.»
«Ma questo è l’esercito prussiano! Fuggite subito.»
«No, è impossibile, amico: queste sono le truppe del maresciallo Grouchy.»
«Ma chi ve lo ha detto? Vi sbagliate.»
«Non posso sbagliarmi: lo ha detto l’Imperatore.»
«Allora si sbaglia l’Imperatore, e si sbaglia terribilmente. Poco fa si è fermata alla mia osteria una pattuglia di ussari della Slesia. Non li avete visti nel bosco?»
«Sì, ho visto degli ussari, ma…»
«Erano ussari tedeschi.»
«Ma allora dov’è Grouchy?»
«Dietro i prussiani, che lo hanno oltrepassato.»
«E dunque come posso tornare indietro? Devo proseguire e trovare il maresciallo dovunque sia: sono questi gli ordini dell’Imperatore.»
L’oste rifletté un istante, poi afferrò la briglia di Violette esclamando:
«Presto, fate come vi dico, e forse potrete ancora salvarvi. Non vi hanno visto: venite con me e vi nasconderò finché saranno passati; poi, se vorrete, potrete proseguire.»
Dietro l’osteria c’era una stalla, in cui l’oste condusse Violette; poi mi spinse nella cucina, una stanza nuda dal pavimento di mattoni, in cui una donna grossa e colorita cuoceva delle costolette sulla brace.
«Che cosa c’è adesso?» esclamò guardando con aria accigliata ora il marito ora me.
«È un ufficiale francese, Marie. Non possiamo lasciare che i prussiani lo prendano.»
«E perché no?»
«Come sarebbe, perché no? Non sono stato anch’io soldato di Napoleone? Non mi sono guadagnato un moschetto d’onore nella guardia? E vuoi che io veda un compagno catturato sotto i miei occhi? Dobbiamo salvarlo.»
«Già» fece la donna guardandomi di traverso. «Tu non sarai contento, Pierre Charras, fino a quando non ti avranno bruciato la casa. Ma non capisci, stupido che sei, che se ti sei battuto agli ordini di Napoleone era perché allora Napoleone era padrone del Belgio? Adesso non lo è più, è nostro nemico, e i prussiani sono nostri alleati. Non voglio francesi in casa mia; manda via quest’uomo, e che facciano quello che vogliono.»
L’oste si grattò la testa e mi guardò disperato: palesemente, la moglie non pensava né alla Francia né al Belgio, ma soltanto alla sicurezza della sua casa.
«Signora» intervenni io, con tutta la dignità e la fermezza possibili in un momento simile «l’Imperatore sta sconfiggendo gli inglesi e prima di sera il nostro esercito sarà qui. Se vi sarete comportati bene con me, avrete la ricompensa meritata; se mi denunciaste, sareste puniti e la vostra casa bruciata.»
Mi accorsi che la donna era rimasta scossa da quelle parole, e mi affrettai a incalzarla con altri argomenti.
«E poi mi sembra impossibile» aggiunsi «che una donna così bella possa avere un cuore così duro. Non è forse vero, signora, che non mi rifiuterete l’aiuto di cui ho bisogno?»
Lei guardò un momento i miei baffi, e vidi che si addolciva. Le presi la mano, e in due minuti la nostra amicizia progredì tanto che il marito si mise a imprecare, dicendo che se avessi continuato così, mi avrebbe consegnato lui stesso ai prussiani.
«Ma ecco che vengono!» esclamò a un tratto. «Presto, presto, andate su in solaio!»
«Presto, presto, in solaio!» gli fece eco la moglie; e tutti e due mi spinsero verso una scala a pioli che portava a una botola aperta nel soffitto.
In quel momento batterono con forza alla porta, e non ci misi molto, credetemi, a scomparire attraverso la botola che mi affrettai a richiudere. Un istante dopo sentivo aspri accenti tedeschi nella cucina sotto di me.
Mi trovavo in un solaio dal tetto spiovente, che copriva tutto un lato dell’edificio; poiché le tavole del pavimento erano sconnesse, attraverso le fessure potevo vedere bene quel che accadeva in cucina e nella sala comune. Non c’erano finestre, ma parecchie tegole che mancavano al tetto davano aria e luce sufficienti e permettevano di vedere anche all’esterno. Da un lato c’era un mucchio di fieno, a un altro molte bottiglie e fiaschi vuoti; poi fasci di paglia, qualche sedia rotta e altre cianfrusaglie gettate qua e là alla rinfusa.
Mi misi a sedere su un fascio di paglia, e per qualche minuto rimasi a pensare al da farsi. Era molto grave che i prussiani arrivassero sul campo di battaglia prima delle nostre riserve; ma non erano molti, e, con un uomo come l’Imperatore, non avrebbero potuto cambiare di molto le sorti della giornata. La miglior cosa da farsi, dal momento che Grouchy era dietro i prussiani, era aspettare che passassero e poi rimettermi subito in cammino per portare gli ordini al maresciallo. Se egli avanzava prendendo gli inglesi alle spalle, invece di seguire i prussiani, tutto sarebbe andato per il meglio. In breve, amici miei, il destino della Francia e dell’Europa dipendeva dalla mia mente e dal mio coraggio.
Era dunque chiaro che non potevo agire fino a quando i prussiani non fossero passati. Così mi misi a guardare gli uomini entrati nell’osteria. Avevano portato un compagno privo di sensi, e altri ne portavano continuamente, mentre un giovane medico militare, poco più che un ragazzo, prestava i primi ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- I. L’orecchio tagliato
- II. Un’avventura d’amore
- III. La ragazza di Minsk
- IV. La principessa
- V. Gérard e il diavolo
- VI. Waterloo
- VII. L’ultima avventura
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