
- 128 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La neve del Vesuvio
Informazioni su questo libro
L'intensa storia della scoperta da parte del piccolo Tonino della neve candida e incontaminata sulla cima del Vesuvio e il duro e inaspettato impatto del bambino con la vita degli adulti insieme ad altri delicati racconti di uno dei più significativi autori italiani contemporanei.
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Informazioni
Print ISBN
9788804442554eBook ISBN
9788852062780Antologia critica
Che incantevole oggetto “inattuale” è questo nuovo, piccolo libro di Raffaele La Capria! Vi si raccontano infatti alcuni dei momenti più importanti della vita di un bambino – e assolutamente niente altro. Ma con quale conciso nitore, casta fermezza e impalpabile maestria {…} Forse più d’ogni altro scrittore italiano della sua generazione, La Capria ha sempre aspirato alla narrazione pura. Egli vorrebbe, cioè, che nessuna scoria ideologica, mondana, culturale – e persino “letteraria” – si insinuasse nei silenziosi rapporti fra le cose e le parole, la vita e la scrittura, l’esperienza e l’espressione. Il suo ideale, insomma, è una prosa senza peso, invisibile e trasparente come il più fine e leggero dei veli, il più limpido dei vetri, la più immota delle acque. E forse il sortilegio non gli è mai riuscito così felicemente come nella fredda, delicata, impassibile esattezza di molte delle pagine di questo libro a un tempo umile e temerario.
{…} che La Capria sia riuscito a raccontare simili “momenti” schivando caparbiamente l’analisi psicologica diretta e attenendosi a modo suo al precetto eliotiano di rappresentare le esperienze interiori mediante adeguati “correlativi oggettivi”, è un piccolo prodigio scaturito da una commovente fedeltà allo spirito della poesia.
Ruggero Guarini, «Il Messaggero», 8 giugno 1988
Come stile il libro è quasi una scommessa: raccontandosi bambino, La Capria adegua la scrittura al progressivo dilatarsi del mondo infantile, da quando Tonino (così il narratore si battezza) non è ancora cosciente della propria individualità e “sente’ se stesso in una simbiosi indistinta con sua madre, a quando acquista nozione e possesso della realtà.
La scrittura è nitida, elegante, leggera. Simboli e metafore possono eguagliare la raffinatezza di grafemi orientali (non per nulla un volume di apologhi e racconti di La Capria, s’intitolava, nel 1979, Fiori Giapponesi) efficaci nel mimare sorridendo l’infanzia {…}.
Nello Ajello, «La Repubblica», 22 giugno 1988
È accaduto a Raffaele La Capria e, prima di lui, ad altri scrittori come il Parise dei Sillabari e il Calvino di Palomar, forse tutti gli autori a un certo punto della loro vicenda umana e letteraria, ne sentono la tentazione. Quella di una prosa di assoluta semplicità, senza macchie, sempre uguale a se stessa: una scrittura in qualche modo “bianca”, che si prepari in perfetta castità ad accogliere “epifanie”, i momenti unici dell’esistenza.
Così La Capria, che ricordavamo e ammiravamo soprattutto per il romanzo Ferito a morte – un libro di struttura complessa e stile risentito – si presenta ora con i capitoli netti ma sottilmente elaborati – in levare, in smorzare– di La neve del Vesuvio. In essi si racconta la formazione di un bambino che alla fine del libro avrà forse un dieci anni, ed è già significativo che un’esperienza così compiuta si consumi in un tempo così breve, non abbia bisogno di protrarsi, per diventare esemplare, fino all’adolescenza o alla giovinezza.
{…} Alcuni di questi temi ricordiamo di averli già trovati in Ferito a morte di cui La neve del Vesuvio, nonostante la diversa età del protagonista, rappresenta una specie di filigrana: così come l’infanzia racchiude in sé il midollo dell’intera esistenza. Per questo La Capria non si rassegna, quei momenti, a lasciarli sparire per sempre. Li rivive, li reinventa, li consegna alla nostra complice malinconia.
Lorenzo Mondo, «La Stampa», 2 luglio 1988
Ci incantiamo nello sforzo di riafferrare “la prima volta delle cose, delle sensazioni, dei sentimenti: la prima volta del bosco o del mare, la prima volta di una parola o di un fuoco o di un temporale, di tutti gli infiniti elementi che compongono il tessuto della nostra vita e ai quali l’abitudine ha tolto l’alone magico della scoperta”. Ecco: il libro di La Capria è questo viaggio nel “dominio misterioso”, come lo chiamava Alain Fournier, nel piccolo ritaglio del mondo, le cui distanze si calcolano con l’andirivieni dal sogno alla realtà e non con le normali misure.
{…} A volte una musica accompagna chi legge. A me succede spesso, se il libro veramente mi conquista. E sono lieto di dire che nel fondo di alcune pagine di La Capria, mi è parso di ascoltare la struggente melodia del Träumerei di Schumann, infinitamente dolce nell’abbandono a un sogno sommesso. Questa musica sarà superata e spenta dall’irrompere della vita, quando l’età cresce e la Storia (quella dei “grandi”, degli uomini, della politica) turba con immedicabili ferite anche la minima storia della “formazione di un’anima”.
Giulio Nascimbeni, «Il Corriere della Sera», 6 luglio 1988
La Capria ci dice in sostanza che l’arte, la sua arte, è una disciplina della fantasia, talvolta anche dolorosa; che se ci impone di liberarci dal conformismo, dal non autentico, dal ripetuto, ci avvia al tempo stesso alla responsabilità del dire. “Le mot juste”, per lo scrittore è un gesto morale. Credo proprio che il meglio di La Capria sia qui, nel contrappeso o bilanciamento tra grazia e ragione tra fantasia e verità. In un’intervista, molto bella, a «Panorama», egli sembra aver scritto la propria epigrafe, quando confessa che secondo lui la letteratura è “libertà e rivincita sull’irreversibilità di tutto ciò che scompare nel vissuto”.
I racconti di questo libro sono fatti quasi di nulla; il loro pregio sta nella elegante lievità degli accostamenti di colori e di forme, appunto come in un ikebana.
Geno Pampaloni, «Il Giornale», 17 luglio 1988
La neve del Vesuvio, ora vincitore del premio Chianciano, racconta in modo singolare l’iniziazione alla vita di un ragazzo, Tonino, che in undici miniracconti scopre via via se stesso, gli altri, il dolore, l’egoismo, la felicità, la guerra, la fine di ogni illusione. Un’iniziazione che ci ha ricordato Agostino di Moravia, sia pure con maggior riserbo in La Capria, proprio perché diversi sono gli intenti dei due libri. La Capria cerca la magia e la realtà, il favoloso e il disincanto, la vita e il sogno; e Tonino appunto scopre via via dalle parole e dai gesti i segni più marcati di una personalità in divenire, capace di appropriarsi del mondo intimo e di quello concreto attraverso una sperimentazione viva, sofferta, ma reale e naturale.
{…} Scritto in modo mirabile, concepito come una sorta di favola che via via si accende nei toni per acquistare vigore interpretativo capace di doppiare la crudezza di una vita non sempre rosea, il libro di La Capria ha anche dalla sua la sobrietà di un linguaggio vivo, che restituisce alla fine le sensazioni più intime, le pieghe più riposte dell’anima in quel momento delicatissimo che è il trapasso dalla pubertà alla prima giovinezza, metamorfosi di una crisalide in farfalla, che non sempre riesce a volare.
Giancarlo Pandini, «Giornale di Brescia», 23 luglio 1988
Romanzo di formazione, s’è detto. Ma forse sarebbe più corretto parlare di magica riappropriazione della propria formazione: con lo strumento della poesia, scavalcando ragione e parola elaborata. Una formazione che, comunque, si dà nella quotidianità, nella normalità di un processo insieme individuale e universale, raggrumata attorno a pochi momenti-spia, e che sa però nutrirsi dell’incantesimo, ora piacevole ora doloroso, ora semplicemente spiazzante. Com’è di ogni acquisizione di consapevolezza: di ogni scoperta del nuovo.
Ermanno Paccagnini, «Il Sole 24 ore», 24 luglio 1988
Dico Candido: penso al personaggio di Voltaire, perché un andamento illuminista, esemplificativo percorre tutto il libro, lo anima sottilmente, e ne è la simulata strategia stilistica. Dico Candido anche perché l’atteggiamento che Tonino ha nei confronti dell’esistenza è di stupore e accanito interesse. Solo che il suo interesse e il suo accanimento, il suo candore, sono per dir così violati, ribaltati in malinconia, in pianto. Il mondo che va incontro a Tonino non è il migliore dei mondi possibili. Le verità che egli scopre costituiscono sempre una piccola frana di dolore. {…}
Ma voglio sottolineare un altro aspetto. Le pagine più belle, più delicatamente belle del volume sono quelle dedicate al mare, alla tradizionale bella giornata partenopea di cui La Capria altrove, a cominciare da Ferito a morte si è fatto felicemente autore. Ecco: è proprio una ossessione da autore quella che voglio sottolineare: l’ossessione che spinge un narratore verso il momento in cui la sua immaginazione si accende non per maniera ma per un bisogno che è propriamente di canto. Ne nascono pagine come queste che dico, dove tutto ha la necessità della vita, e la realtà stilistica vibra sull’onda di un suo motivo dominante. Non parlo di una qualità lirica, ma di una qualità narrativa, di un’armonia profonda che sommuove le parole le une verso le altre fino a suggerirci, a essere, l’invisibile sommuoversi dell’esistenza dentro se stessa.
Enzo Siciliano, «L’Espresso», 17 luglio 1988
Sull’onda della memoria oggettivata in una scrittura essenziale, “semplice” solo perché risultato della difficile arte del levare, La Capria evidenzia ancora una volta la sua natura di autore colto e raffinato, sempre memore di quella «éducation civile et littéraire» ricevuta nella Francia post-bellica. Per cui nella sua prosa, sottesa insieme di curiosità psicologica e di impegno etico-sociale, possono liberamente convergere i fremiti emotivi delle madeleines di Proust e i bagliori intellettuali dei mots di Sartre; senza per questo negare fedeltà al proprio specifico mondo poetico, rivolto sempre a cogliere, al di là delle parole e dentro di esse, “le cose, i fatti, le persone”.
Aldo Viganò, «Il Secolo XIX», 6 agosto 1988
Certamente – anche se nel risvolto di copertina La Capria tende a escludere la cosa o, almeno, a defilarla e a minimizzarla – il fondo della narrazione, la sua scaturigine prima, stanno nella segreta, gelosamente segreta memoria che l’autore conserva e ritrova della propria infanzia. Tuttavia è vero che tutta l’impostazione del racconto è tale da allontanare ogni abbandono, ogni effusione o commozione che potrebbero richiamare un proustismo di maniera volto alla rievocazione degli ineffabili “verdi paradisi dell’infanzia”, per scegliere invece la via di una quasi avara registrazione, cui presiede una memoria che è sguardo lucido e fermo. Così la scrittura di La Capria si propone come filtrata attraverso uno sforzo di riduzione e rastremazione, e ne esce una pagina che si direbbe di taglio minimalista, se il termine, liberato dai connotati di una certa moda, potesse esprimere il senso di una brevità tuttavia pregnante, di una concentrazione di “significati” alti in “significati” minimi e non appariscenti.
Giulio Galetto, «Giornale di Vicenza», 1º settembre 1988
e «L’Arena», 1º settembre 1988
e «L’Arena», 1º settembre 1988
La neve del Vesuvio è, appunto, un romanzo semplice. Racconta i momenti decisivi, di scoperta, di un bambino che poi diventa un adolescente. Perciò la narrazione non è fluida come l’acqua di un fiume, ma un po’ sincopata in tanti episodi quasi senza rapporto tra di loro; nasce dalla sottolineatura di momenti privilegiati della vita di un bambino: quei momenti che, per il suo modo particolare di vedere il mondo, di sentirlo, acquistano per lui qualcosa di unico e di indimenticabile. In certo modo si può dire che la “poetica della bella giornata”, licenziata attraverso la porta, rientra dalla finestra. Essa infatti conteneva, come punto centrale, appunto, il sigillo di qualcosa di unico, un’esperienza da ricordare per sempre.
Carlo Sgorlon, «Il Piccolo», 30 giugno 1988
Certo si tratta di uno di quei libri sorretti da una grazia tutta speciale, che riescono a ritrovare la vita del bambino, i suoi traumi, i suoi nodi profondi, secondo una capacità di contatto diretto che sembra miracolosa, se c’è qualcosa di miracoloso nel saper fare a meno di tutti i filtri culturali del nostro tempo: in primo luogo la psicanalisi, che pure è una dottrina nella quale La Capria si è mostrato già assai bene addottorato: basti pensare al romanzo Amore e psiche. Insomma questa Neve del Vesuvio ha tutto il sapore di una testimonianza attendibile e non finalizzata: da quando Tonino, balbettante, scopre che un palloncino rosso è bello, a quando avverte i primi turbamenti della sessualità: e attendibile proprio in quanto niente della narrazione è condizionato a dimostrare la verità di una certa scienza della psicologia, ma tutto si risolve semplicemente nella verità della vita, evitando al tempo stesso il rischio che sta sempre in agguato in casi del genere: fare una letteratura sul filo della memoria.
Luigi Baldacci, «La Nazione», 9 novembre 1988
Trappole e tagliole si aprono, a volte, per quegli autori che affrontano i temi dell’infanzia. Il patetico e la retorica deamicisiana sono spesso incombenti. Non per Raffaele La Capria, il quale ha riunito undici racconti a mosaico, nel volume La neve del Vesuvio, evitando ogni trabocchetto. La Capria ha scritto un libro sicuramente poetico, ma nello stesso tempo quasi scientifico, analitico. L’autore segue, molto da vicino, le fasi dello sviluppo psicologico di un piccolo personaggio, Tonino, colto nei momenti cruciali della sua esperienza.
Inisero Cremaschi, «L’Unità», 14 settembre 1988
Ma quello che forse sottende più al fondo di queste pagine è lo sforzo di descrivere la fatica del crescere, di diventare una persona, di possedere una propria identità, di trovare le parole per esserci per esprimere la propria visione delle cose per imporre l’ordine del proprio mondo interiore. Il linguaggio, dunque, metafora dell’esistere: ma la metafora scivola in un ritmo narrativo docile, sensibile, denso, che cattura per il piacere stesso del raccontare che scaturisce pagina dopo pagina. Come in altre opere dedicate all’infanzia, in quelle riuscite, almeno, accade che si ripeta il semplice miracolo dell’identificazione, della nostalgia, e anche del ricordo che non si spegne, che torna ancora a far soffrire, o a far gioire, senza far tanto rumore.
Caterina Maniaci, «Il Popolo», 17 gennaio 1989
Libro limpido e secco che ha il solo torto – come tutte le cose belle – di avere un termine, questo La neve del Vesuvio di Raffaele La Capria. […] Ma mi accorgo di scrivere frasi confuse contro l’apparente semplicità e facilità della scrittura di La Capria, che riesce ad adeguarsi a ogni stagione del suo Tonino come se fosse vista dagli occhi e con il linguaggio del protagonista. Un piccolo grande romanzo. Fra i pochissimi che contano di questa fine degli anni Ottanta.
Enrico La Stella, «Excelsior», dicembre 1988
Un romanzo? Non mi pare che questo libro ancora fresco di stampa, vincitore del Premio Chianciano, sia un romanzo. Piuttosto è il distillato, mediato, filtrato racconto di un’infanzia e d’una prima giovinezza lontane; un racconto che annoda con instancabile...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Antologia critica
- La neve del Vesuvio
- I. Il tempo e il risveglio
- II. L’io
- III. Le sensazioni
- IV. L’identificazione
- V. Le parole
- VI. Il mare
- VII. La bella giornata
- VIII. Gli idealisti
- IX. L’avallo
- X. Le iniziazioni
- XI. La neve del Vesuvio
- Postfazione
- Copyright