La morale dell’occasione e dell’inclinazione.
La differenza è che nulla le ostacola.
Stoccarda aveva annunciato un’intervista ad alcuni aviatori prigionieri. Erano due commilitoni del gruppo aereo vicino al nostro, abbattuti poco oltre le linee. E noi li abbiamo ascoltati, abbiamo riconosciuto le loro voci, ma, una volta di più, abbiamo sentito qualcosa di diverso. Umanamente e tecnicamente, è stata per noi – una volta di più – una dimostrazione. Perché tale dimostrazione non viene gridata, ogni volta, al pubblico francese? Perché si lascia ammorbare a poco a poco l’aria che respiriamo da trucchi così grossolani, senza mai reagire se non con un candido disturbo elettrostatico che non impedisce mai a nessuno di ascoltare?
Li conoscevamo bene, quei commilitoni – di quella conoscenza che sa cogliere le reazioni, che non si lascia ingannare e intuisce in anticipo il comportamento dell’uomo. Possiamo farci garanti della farsa che è stata messa in scena. Che viene messa in scena ogni volta. Eccola.
L’uomo, una volta fatto prigioniero, se è ferito viene portato in ospedale. Subisce un interrogatorio: età, nome e cognome, i suoi genitori sono ancora vivi eccetera. È normale ed elementare che a queste formalità di rito risponda dignitosamente. L’uomo risponde. Poi lo curano, è chiaro. Una vecchia infermiera, magari anche materna, vi si dedica. Non scelgono certo, per questa operazione di propaganda, un infermiere brutale. È facile immaginarsi quell’anziana signora con i capelli bianchi. In tutti i paesi del mondo ci sono donne materne. E il ferito le è grato per la cura con cui gli fa le medicazioni. E la ringrazia.
«Sei tanto triste, caro, di essere lontano dai tuoi e di star male? Ma lo vedi anche tu, di gente che capisce il dolore degli altri ce n’è dappertutto. Hai forse da lamentarti, qui?»
«Oh, no... mi curano benissimo... lei è molto buona, e la ringrazio...»
Ha risposto con la febbre a quaranta, appena dopo l’operazione, dopo la morfina, in quel modo intenerito che un po’ di bontà fa scaturire dal cuore.
«Posso scrivere alla tua famiglia, caro – tu stai troppo male per scrivere. Che cosa vorresti ti mandassero?»
«Dei libri...»
«Quello che spediscono ti arriva?»
«Sì, ricevo tutti i pacchi. Ne sono proprio contento.»
Ha ben diritto di essere contento, quell’uomo, che apre un pacco con l’anima di un bambino in esilio davanti al suo regalo di Natale.
Poi, quando sta meglio, dopo la dura solitudine, lo mettono in contatto con un compagno. Due letti vicini. E quel giorno, per la prima volta:
«Che cosa vi piacerebbe per colazione?»
E intanto aprono le loro cartelle di convalescenti. Quel giorno, il caffellatte nelle tazze è profumato. E l’uomo è fatto in modo tale che, in fondo all’abisso delle peggiori avventure, si meraviglia delle piccole cose. Che felicità per qualche fiore! L’infermiera ne ha appena portati.
«Ho pensato che avrebbero rallegrato il vostro esilio.»
Ed ecco quella corrente di ottimismo in fondo al cuore. La vita è bella, stamattina. Hai ritrovato un commilitone, e vi raccontate l’ultimo combattimento con una specie di spontanea esultanza. Sei precipitato in fiamme eppure sei vivo – e comodamente sdraiato sotto lenzuola pulite. È bello. Vi raccontate il combattimento senza odio, perché tra di voi rispettate il nemico.
E poi l’ultimo atto.
«Vuole fare una dichiarazione alla radio?»
«No.»
«Ma qui gliene saremmo grati.»
«Me ne frego, il mio rifiuto è categorico.»
«Benissimo. Qui rispettiamo i soldati coraggiosi. Il suo rifiuto è degno di un soldato. Non le chiederemo niente. E per dimostrarle la nostra stima, le permettiamo, visto che il microfono è già qui, di informare i suoi che è vivo. Soltanto questo, senza una parola di più che possa servire alla nostra propaganda. Ammiriamo il suo senso del dovere.»
Il prigioniero, un po’ commosso, si raccoglie. E al microfono:
«Sono lieto di far sapere alla mia famiglia che sono vivo e quasi guarito.»
Tutto qui. Simulata o meno, la tenerezza materna dell’infermiera con i capelli bianchi, il caffellatte che fuma sul comodino, i compagni al cuore dei quali ti confidi. Non sai più che ne è di loro, probabilmente non è cambiato nulla. Non sono loro il punto. Hanno così poca importanza, loro!
La parola passa alla tecnica. Conoscete il lavoro di un montatore. Mette insieme spezzoni di pellicola, dopodiché ricomincia. Un disco perfeziona il suo montaggio. E qui dispongono di un’ottima materia prima registrata su nastro, l’interrogatorio per l’identificazione. Poi le confidenze con l’infermiera quando stavi male, e tanta sollecitudine ti inondava il cuore. Poi l’enorme gioia di raccontarti ai commilitoni. Di rivivere l’attimo cruciale in cui la squadriglia di Messerschmitt è piombata su di voi come un fulmine. E il miracolo del paracadute nel bel mezzo dell’incendio...
È davvero troppo facile nascondere un microfono dove si vuole, quando si vuole. È davvero troppo facile procurarsi qualche chilo di documenti, se ne serve qualche chilo. Poi c’è il lavoro da fare. La persona che ha condotto l’interrogatorio lo inframmezzerà con domande abilmente poste, che, nel montaggio finale, andranno a sostituirsi alle battute di dialogo dell’infermiera e dell’amico. Tutto questo viene fatto nella massima disinvoltura, con forbici e pellicola sonora.
«Ci sta bene in Germania?»
«Ma sì, mi curano benissimo, e sono molto buoni con me, sono proprio contento.»
«E fanno tutto il possibile per rallegrare un po’ il suo esilio?»
«Sì, ricevo tutti i pacchi... mi fa piacere.»
«Che cosa pensa dei suoi terribili aguzzini?»
«Sono buoni. Non posso fare altro che ringraziare.»
Magari un giorno gli hanno chiesto: “Come trova questi cioccolatini?”, o qualcosa di altrettanto semplice e insulso. Quanto a “non posso fare altro che ringraziare”, può essere stato detto quindici giorni dopo, a proposito di chiunque: “Hanno trasferito le infermiere, vuole che diciamo loro qualcosa da parte sua?”. «Non posso fare altro che ringraziare.»
«Le va di raccontarci, per il nostro pubblico e per il suo, l’eroico combattimento che si è concluso quando lei è stato abbattuto?»
«Con piacere!» (Chi non ha avuto mille volte l’occasione di dire “con piacere”?)
Ed ecco il racconto accalorato, naturale e ovviamente del tutto spontaneo.
Da ultimo, per completare il montaggio, un cappello iniziale: «Poiché i poveri feriti ci hanno fatto sapere che sarebbero stati felicissimi di comunicare con le loro famiglie, la stazione radio di Stoccarda, desiderosa di rendere meno dura la loro prigionia, ha accettato di trasportare la propria attrezzatura all’ospedale per registrare le loro dichiarazioni».
Certo, il falso e il suo utilizzo sono uno stratagemma di guerra. In questa impresa morale, non riesco più a distinguere se sia più atroce montare abilmente le parole sfuggite a un prigioniero o schiacciare una città polacca sotto il tacco delle squadriglie. Non riesco più a distinguere bene ciò che è accettabile da ciò che non lo è. Quando ci si sottrae a un codice, la morale perde il suo assoluto. Ma posso ravvisare due errori: il primo è che i miei compagni e io vediamo con chiarezza lampante perché combattiamo, quando sentiamo certi uomini di cui siamo sicuri più che di noi stessi servire la propaganda tedesca con quell’arietta allegra.
Combattiamo per il rispetto dell’uomo. E su questo c’è poco da distinguere. Non ci sono amici o nemici. Si rispetta l’uomo e basta, oppure non lo si rispetta. Non è una questione di misericordia. C’è in gioco qualcosa di infinitamente più elevato. Vengono fucilati degli ostaggi? Necessità di guerra. Si può essere più o meno brutali. Si possono risparmiare il sangue inutile e le sterili devastazioni della rabbia, ma allora è una questione di gradi. L’uomo, quando è in pericolo, si mostra sempre un po’ crudele, più o meno brutale, più o meno civile. Ma l’essenza non cambia. E naturalmente si è più crudeli con i nemici che con gli amici. L’esecuzione di un ostaggio, in fondo, può conciliarsi con il superiore rispetto per l’uomo. Esistono carnefici che si sono scoperti il capo davanti alla loro vittima. Fucilare una spia coraggiosa è un conto. Altra cosa è disprezzarla. E mi piace questa stima più forte della vita. Come l’onore delle armi che si concede ai prigionieri.
Ma in questo caso il punto è un altro. Si disprezza l’uomo, tutti gli uomini, fratelli o nemici, quando spudoratamente si fa un tale uso dei loro moti interiori, quando si prendono le espressioni della pietà, della gratitudine, dell’amore, della stanchezza per combinarle in questo spaventoso utilizzo meccanico. Serbo ancora il ricordo di una [parola illeggibile] da bambini. Di quel compagno, timido e maldestro, che in collegio si scambiava con le sorelle ingenue lettere – lettere piene di futili pettegolezzi domestici, ridicole inezie da famiglia povera, speranze e puerili motivi d’orgoglio. Ma non [parola illeggibile] d’orgoglio. Un mascalzone gli rubò quel pacchetto di lettere. Salì in piedi sulla cattedra del professore mentre altri due o tre mascalzoni trattenevano il ragazzino paonazzo obbligandolo ad ascoltare da cima a fondo, interrotta da fragorose risate, la lettura pubblica dei suoi segreti.
Allora nel cuore sorge un unico sentimento. Uccidere. Si può solo accettare o non accettare la profanazione di un certo regno, quello interiore. Esistono frontiere che è mostruoso violare. I cechi, i polacchi e la Finlandia, va bene. Ma questa è una cosa, è l’ingiustizia. Una questione di gradi, e siamo sempre più o meno giusti. È quando si oltrepassa la frontiera interiore, però, che si manifesta in modo eclatante la differenza di razza. Allora viene alle labbra il gusto dell’omicidio. E allora imparammo, noi ragazzini di undici anni che non eravamo d’accordo, che cos’è il sentimento della vergogna. Tutto, ma quello no. Avremmo accettato di vederlo picchiare, anche ingiustamente. Ma così subivamo quell’affronto nella nostra parte più elevata, non nella nostra misericordia, bensì nell’onore, nell’uomo che era in noi. Nell’uomo che ci aveva lasciato la misteriosa eredità del [parola illeggibile] familiare, delle religioni, di non so che di sottile e inestimabile. Prendemmo le armi. Erano righelli piatti, calamai e i nostri pugnetti di undicenni. Vendicammo il compagno torturato, il quale, dopo una simile umiliazione, avrebbe voluto annegarsi per la vergogna. Lo portammo in trionfo, tutto sporco d’inchiostro dopo la scarica di artiglieria:
«Non piangere, stupido, erano [parola illeggibile] le tue lettere, e poi non abbiamo sentito niente.»
E lui si mise a ridere, restituito alla sua dignità. Come riderebbe un finlandese dopo la vittoria definitiva, quando tornato a casa griderà: «Ecco, posso credere quello che voglio».
E questo è il punto fondamentale. Non ci lasciammo vincere dalla pietà. Per quanto sia giusta, nobile, auspicabile, c’è qualcosa di meglio della pietà, poiché essa ha a che fare in qualche modo con il sentimentalismo. Difendemmo quel ragazzino – ma già allora, molto più di quel ragazzino, rispettammo in lui l’uomo.
I nostri obiettivi di guerra! Avevamo già degli obiettivi di guerra, e sono gli stessi. I campi, naturalmente, i boschi, le veglie di villaggio alla sera e i granai pieni, quanto si affida e si appoggia al futuro. C’è bellezza nel movimento della conquista, ma anche nell’immobilità, nel consolidamento del patrimonio, nella lenta usanza chiamata religione che piano piano dà colore alle cose. Un colore che si stende lentamente, ragion per cui, dopo qualche centinaio d’anni di Francia, abbiamo un mondo magico e radici che affondano lontano. Per fare l’anima ci vuole quiete, e il discorso della montagna si sgrana attraverso i secoli. La mobilità tedesca è soltanto assenza. Perché in loro non cova la fiamma interiore. In fin dei conti, e a stretto rigore, non sarebbe neanche questione di prendere le armi per proteggere frontiere utili alla stabilità dei figli dell’uomo. Ma per la stessa inutile frontiera, minacciata per la prima volta.
Sappiamo già che Stato totalitario significa la massa che schiaccia l’individuo, la specie che schiaccia l’uomo. Gran bella scoperta, davvero, quella di Hitler, così tronfio del suo genio! Il nocciolo della sua scoperta, infatti, è che la moltitudine è più forte dell’uomo singolo, e che quindi la resistenza del singolo alla moltitudine è aberrante. Che la massa tedesca è più forte di un popolo ceco. Di conseguenza, il fatto che il popolo ceco insista a pensarla diversamente, pur essendo il meno forte, è una provocazione intollerabile, come un pittore che non dipinge secondo l’ideale della massa.
L’atteggiamento nei confronti della Polonia? Lo stesso che nei confronti dell’uomo interiore in Germania: la mancanza di rispetto. Il disprezzo verso gli intellettuali. Certo, gli intellettuali, nel mondo, hanno preso parecchi abbagli, immaginando che il mondo si esprimesse tramite equazioni differenziali e non tramite atti creatori. Ma ad animare i tedeschi, in primo luogo, non è il disprezzo per gli intellettuali, il disprezzo per quelle repubbliche di professori, bensì il disprezzo per il contenuto intrinseco. Per i beni individuali, le immagini della proprietà privata. La proprietà privata dell’uomo. Tutta la civiltà è consistita nel fondare questo mirabile paradosso, cioè che l’uomo possa equilibrare il potere della folla. E che il viandante, solo in mezzo a una folla straniera, possa tenere i propri vestiti pur non avendo il potere di difenderli. Qui sta la potenza dell’impero spirituale, che prevale sull’egoismo materiale. Quando si abbandona questo punto di vista, si scopre forse una logica profonda, ma non superiore. E le falle dell’avversario. Eh, ma come, quali falle... Chi se ne va per strada disarmato, quant’è ridicolo, quant’è superato, e quanto è urgente assimilarlo in nome della logica.
Ho letto con attenzione lo strano libro di Rauschning.1 Dico “strano” perché, se fossi stato Gamelin,2 avrei pagato per farlo pubblicare in Francia. Che sia voluto o meno, mette in ridicolo l’ideologia hitleriana in modo assai penetrante. E leggendolo ho notato questo: ogni volta che Hitler dice “superato”, o parla di qualcosa di superato spiegando che questo qualcosa di superato non può resistere alle ondate d’assalto, suscita un assenso superficiale poiché sembra mostrare delle banalità. Per recuperare la lucidità, tuttavia, basta sostituire ogni volta “superato” con “fragile e prezioso”.
È palese come la regola del gioco che permette a una debole Olanda di coesistere con numerose nazioni vicine sia soltanto un paradosso superato, con il quale abbiamo convissuto senza accorgerci della sua fragilità («In Europa ci sono troppe capitali»), se a questa esistenza non presiede una convenzione universale. Se l’esistenza dell’Olanda o della Svezia non si fonda innanzitutto sull’accettazione universale. Se, in qualche modo, la massa delle nazioni non è al servizio di ogni nazione, così come la massa degli individui, da noi, è al servizio dell’individuo. Ed è davvero paradossale il fatto che chi pensa diversamente dagli altri non sia stato ancora massacrato, dal momento che gli altri sono più forti per definizione.
Ma la civiltà è la nascita di questo impero interiore. E perché tutti gli altri accettino di difendere proprio tale impero, esso deve pur rappresentare qualcosa di loro. E questo qualcosa è l’uomo. È difficile da definire, ma non da sentire. Quando ci lanciammo nella mischia a dodici anni per un compagno di dodici anni, stavamo difendendo l’uomo dentro di noi.
E noi, che non siamo dominati da concetti di potenza e di espansione, non ci sentiamo lesi bensì arricchiti dall’esistenza di un’Olanda, di una Svizzera o di una Finlandia. La loro debolezza, per noi, non è un mostruoso paradosso. Non vediamo ragioni per asservirle in nome di un magma umano più pesante. Noi apprezziamo chi ci illumina, anche se è un pittore olandese o un musicista scandinavo.
Noi difendiamo ciò che ci illumina. La Svizzera o il Perù non ci offendono: ci aiutano a esistere, a definirci, fosse anche per contrasto a loro. Ci portano i lor...