Effi Briest
eBook - ePub

Effi Briest

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Pubblicato nel 1895, Effi Briest è unanimemente ritenuto il capolavoro di Theodor Fontane e uno dei grandi romanzi europei sull'adulterio come Madame Bovary e Anna Karenina. In queste pagine si racconta la vicenda di una fanciulla, Effi Briest appunto, che sposa giovanissima un antico spasimante della madre, salvo poi tradirlo più per noia che per passione. L'amore clandestino ha vita breve ed Effi ritorna a essere una sposa devota e fedele. Ma il destino è in agguato, e dopo anni di serena vita coniugale il marito scopre l'antico adulterio. Nei tragici sviluppi della vicenda a Effi, innocentemente colpevole, rimarrà solo l'affetto del padre cui aggrapparsi. Narrato con tocco delicato e profonda compassione umana, Effi Briest è il ritratto di un'indimenticabile figura di donna, ma anche una lucida quanto spietata denuncia dell'inesorabilità e della crudeltà delle leggi della cosiddetta "buona società".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804563877
eBook ISBN
9788852061264

Effi Briest

PRIMO CAPITOLO

Davanti alla casa padronale di Hohen-Cremmen, abitata dalla famiglia von Briest fin dai tempi del principe elettore Giorgio Guglielmo, la chiara luce del sole illuminava la strada del villaggio immersa nella quiete del mezzogiorno mentre, sul lato del parco e del giardino, un’ala laterale aggiunta a formare un angolo retto gettava una vasta ombra prima su un passaggio a piastrelle quadrate bianche e verdi e poi, più avanti, su una grande aiola rotonda, bordata di canna indica e arbusti di rabarbaro e con al centro una meridiana. Una ventina di passi più in là, perfettamente parallelo per orientamento e posizione all’ala laterale, correva il muro del cimitero, ricoperto ovunque da un’edera a foglia piccola e interrotto solo, a un certo punto, da una porticina di ferro dipinta di bianco, oltre il quale svettava il campanile di Hohen-Cremmen, con il tetto a scandole e la banderuola segnavento che scintillava per la recente doratura. Facciata della casa, ala laterale e muro del cimitero formavano un ferro di cavallo che racchiudeva un piccolo giardino e il cui lato aperto mostrava uno stagno con un pontile e una barca ormeggiata e, proprio lì vicino, un’altalena con l’assicella orizzontale assicurata alle estremità da due funi, mentre i pali di sostegno erano già un poco inclinati. Tra lo stagno e l’aiola rotonda, a nascondere in parte l’altalena, crescevano un paio di imponenti vecchi platani.
Quando il cielo era coperto anche lo spazio davanti alla casa padronale – una rampa con degli aloe in vaso e un paio di sedie da giardino – permetteva di intrattenersi piacevolmente e distrarsi in molti modi, e tuttavia, nei giorni in cui il sole bruciava, la preferenza andava senz’altro al lato sul giardino, soprattutto da parte della padrona di casa e della figlia che infatti anche quel giorno sedevano all’ombra, sul passaggio piastrellato, dando le spalle a un paio di finestre aperte incorniciate dalla vite americana e con a fianco una piccola scala i cui quattro gradini di pietra portavano dal giardino al piano rialzato dell’ala laterale. Entrambe, madre e figlia, erano assorte nella confezione di un paliotto formato da quadrati che dovevano essere cuciti insieme; un’infinità di matassine di lana e di seta erano sparse alla rinfusa su un grande tavolo rotondo assieme a un paio di piatti da dessert rimasti dalla colazione e a una coppa di maiolica piena di grosse e belle bacche di uva spina. Gli aghi da lana delle due signore si muovevano avanti e indietro con rapidità e sicurezza, ma mentre la madre non alzava gli occhi dal lavoro, la figlia, che chiamavano Effi, di tanto in tanto posava l’ago e si alzava per eseguire l’intera serie degli esercizi di ginnastica da camera, piegandosi e stirandosi abilmente in tutte le direzioni. Era evidente che si dedicava agli esercizi con particolare piacere e li eseguiva apposta in modo un po’ caricaturale, e quando se ne stava così, in piedi, e univa i palmi delle mani sopra la testa sollevando lentamente le braccia, anche la madre alzava gli occhi dal lavoro, ma sempre per un attimo e di nascosto, perché non voleva mostrare quanto trovasse incantevole la sua stessa figliola, un moto d’orgoglio materno per il quale d’altronde era del tutto giustificata. Effi portava un vestito di tela a righe bianche e blu, dal taglio a casacca, segnato e chiuso in vita soltanto da una cintura di pelle color bronzo; il collo era libero e sulle spalle e la schiena ricadeva un largo colletto alla marinara. In tutto ciò che faceva si univano grazia e spavalderia, mentre i ridenti occhi castani tradivano una grande intelligenza naturale e molta gioia di vivere e bontà d’animo. La chiamavano la «piccola» e doveva rassegnarsi perché la madre, bella e slanciata, era di un palmo più alta di lei.
Effi si era appena alzata per fare le sue torsioni a destra e a sinistra quando la madre, sollevando di nuovo gli occhi dal ricamo, esclamò: «Effi, avresti dovuto fare l’acrobata. Sempre al trapezio, sempre figlia dell’aria. Credo quasi che ti piacerebbe».
«Forse, mamma. Ma se fosse così, di chi sarebbe la colpa? Da chi ho preso? Solo da te. O credi che abbia preso dal papà? Viene da ridere a te per prima. E poi, perché mi fai mettere questo sacco, questo camiciotto da ragazzo? A volte penso che tornerò a usare i vestiti corti. E quando li avrò indosso farò di nuovo l’inchino come una ragazzina e quando poi verranno quelli di Rathenow mi siederò sulle ginocchia del colonnello Goetze e farò cavalluccio. E perché no? Per tre quarti è uno zio e solo per un quarto è un corteggiatore. È colpa tua. Perché non ho mai vestiti eleganti? Perché non fai di me una signora?»
«Ti piacerebbe?»
«No.» E così dicendo corse dalla madre e la abbracciò impetuosamente e la baciò.
«Non essere tanto sfrenata, Effi, tanto passionale. Mi preoccupo sempre quando ti vedo fare così…» E la madre sembrò seriamente intenzionata a esprimere ancora le sue preoccupazioni e i suoi timori. Ma non ne ebbe la possibilità perché proprio in quel momento dalla porticina di ferro del cimitero entrarono nel giardino tre adolescenti e, percorrendo un sentiero di ghiaia, si diressero verso l’aiola rotonda e la meridiana. Tutte e tre salutarono Effi con gli ombrellini e si affrettarono poi verso la signora von Briest per baciarle la mano. Lei rivolse alle ragazze qualche rapida domanda e le invitò a tener compagnia per una mezz’ora a entrambe, o per lo meno a Effi. «Io comunque ho ancora delle faccende da sbrigare e i giovani preferiscono stare tra loro. Divertitevi.» E salì la scala di pietra che portava dal giardino all’ala laterale.
E così le giovinette rimasero sole.
Due delle ragazze – figurine piccole e paffute dai capelli ricci e fulvi che andavano perfettamente d’accordo con le loro lentiggini e il loro buon umore – erano figlie del maestro Jahnke il quale, da convinto sostenitore della lega anseatica,1 della Scandinavia e di Fritz Reuter, imitando il suo compatriota meclemburghese e poeta preferito, e sul modello di Mining e Lining, aveva dato alle gemelle i nomi di Bertha e Hertha. La terza era Hulda Niemeyer, unica figlia del pastore Niemeyer; rispetto alle altre due aveva modi più da signora ma in compenso era noiosa e piena di sé, una biondina linfatica con occhi vacui e un po’ sporgenti che sembravano cercare sempre qualcosa, tanto che persino Klitzing degli ussari aveva detto: «Non pare che stia aspettando da un momento all’altro l’arcangelo Gabriele?». Effi riteneva che Klitzing, con il suo spirito un po’ critico, avesse fin troppo ragione, ma evitava di fare differenze tra le amiche. Tanto meno ci pensava in quel momento e puntando le braccia sul tavolo disse: «Che noia questo ricamo. Grazie a Dio siete arrivate».
«Ma abbiamo fatto scappare tua madre» disse Hulda.
«Per niente. Come vi ha detto se ne sarebbe andata comunque, aspetta visite, un vecchio amico di quand’era ragazza del quale vi parlerò dopo, una storia d’amore con tanto di eroe, eroina e rinuncia finale. Sgranerete gli occhi per la meraviglia. Del resto ho già visto il vecchio amico della mamma a Schwantikow: è presidente distrettuale, bell’uomo e molto virile.»
«È la cosa principale» disse Hertha.
«Sì, è la cosa principale: “le donne femminili e gli uomini virili”, come sapete è una delle massime preferite di papà. E adesso per prima cosa aiutatemi a fare ordine qui sul tavolo, altrimenti sentirò un’altra predica.»
In un attimo le matassine finirono nel cestino e quando furono di nuovo tutte sedute Hulda disse: «Ma adesso, Effi, è arrivato il momento della storia d’amore con rinuncia. O non è poi così terribile?».
«Una storia con rinuncia non è mai terribile. Ma non posso cominciare prima che Hertha abbia preso un po’ di uva spina, non fa che guardarla. Prendine pure quanta ne vuoi, più tardi possiamo raccoglierne dell’altra; soltanto butta lontano le bucce o meglio ancora mettile qui, su questo foglio di giornale, poi ne faremo un cartoccio e getteremo via tutto. La mamma non sopporta che ci siano bucce in giro e dice sempre che si rischia di scivolare e di rompersi una gamba.»
«Non ci credo» disse Hertha facendo diligentemente onore all’uva spina.
«Neanch’io» confermò Effi. «Pensa che cado almeno due o tre volte al giorno e non mi sono ancora rotta niente. Una buona gamba non si rompe tanto facilmente, certo non la mia e neanche la tua, Hertha. Cosa ne dici, Hulda?»
«Non bisogna sfidare la sorte, quando la superbia galoppa la vergogna siede in groppa.»
«Sempre didattica, sei proprio una zitella nata.»
«E invece spero di sposarmi lo stesso. E forse anche prima di te.»
«Fai pure. Pensi che non aspetti altro? Ci mancherebbe. Del resto uno lo troverò e forse presto. Ma non mi preoccupo. Poco tempo fa il piccolo Ventivegni di Rathenow ha detto: “Signorina Effi, scommettiamo che entro l’anno festeggeremo un matrimonio?”.»
«E tu cos’hai detto?»
«“È possibile” ho detto, “è possibile, Hulda è la più grande e può sposarsi da un giorno all’altro.” Ma lui non ne ha voluto sapere e ha detto: “No, si tratta di un’altra signorina che è tanto bruna quanto la signorina Hulda è bionda”. E mentre diceva così mi guardava tutto serio… ma salto di palo in frasca e dimentico la storia.»
«Sì, continui a interromperti, forse non vuoi raccontarcela.»
«Oh, certo che voglio, ma mi interrompo sempre perché è tutto un po’ strano, anzi, quasi romantico.»
«Ma hai detto che è presidente distrettuale.»
«Infatti, è presidente distrettuale. E si chiama Geert von Innstetten, barone von Innstetten.»
Risero tutte e tre.
«Perché ridete?» disse Effi piccata. «Che vuol dire?»
«Ah, Effi, non vogliamo certo offenderti, e neanche il barone. Innstetten, hai detto? E Geert? Qui non c’è nessuno che si chiami così. È vero che i nomi dei nobili hanno spesso qualcosa di strano.»
«Sì, mia cara, è vero. Proprio per questo sono nobili. Possono permetterselo, e quanto più vanno indietro, intendo nel tempo, tanto più possono permetterselo. Ma voi non ne capite niente e non potete prendervela con me per questo. In ogni caso restiamo amiche. Dunque Geert von Innstetten e barone. Ha la stessa età della mamma, nato nello stesso giorno.»
«E quanti anni ha la tua mamma?»
«Trentotto.»
«Una bella età.»
«Sì, soprattutto quando si ha un aspetto come il suo. È proprio una bella donna, non sembra anche a voi? E come capisce tutto, sempre così sicura e poi così elegante e mai inopportuna come papà. Se fossi un giovane ufficiale me ne innamorerei.»
«Ma Effi, come puoi dire una cosa del genere» disse Hulda. «È contro il quarto comandamento.»
«Stupidaggini. Come può essere contro il quarto comandamento? Credo che la mamma sarebbe contenta se sapesse che ho detto una cosa del genere.»
«È possibile» intervenne a quel punto Hertha. «Ma adesso raccontaci la storia.»
«Be’, stai tranquilla, comincio subito… Dunque, il barone Innstetten! Quando non aveva ancora vent’anni prestava servizio nel reggimento di Rathenow e frequentava molto le tenute dei dintorni e soprattutto Schwantikow, quella di mio nonno Belling. Naturalmente non era per mio nonno che ci andava così spesso e quando la mamma ne parla chiunque può capire facilmente per chi lo faceva. E credo che la cosa fosse reciproca.»
«E poi cos’è successo?»
«È successo quello che doveva succedere, quello che succede sempre. Era ancora troppo giovane, e quando è comparso mio padre, che era già consigliere della dieta provinciale e possedeva Hohen-Cremmen, non è stata tanto a pensarci su, l’ha sposato ed è diventata la signora von Briest… E quello che è successo dopo, be’, lo sapete… dopo sono arrivata io.»
«Sì, dopo sei arrivata tu, Effi» disse Bertha. «Grazie a Dio, se fosse andata diversamente non saresti con noi. E adesso raccontaci, che cosa ha fatto Innstetten, cosa gli è successo? Certo non si è tolto la vita, altrimenti oggi non sareste qui ad aspettarlo.»
«No, la vita non se l’è tolta. Ma è stato un po’ come se l’avesse fatto.»
«Ci ha provato?»
«Neppure. Ma non ha più voluto rimanere da queste parti e allora la vita militare dev’essergli venuta a noia. Del resto era tempo di pace. Per farla breve, si è congedato e ha cominciato a studiare legge, con uno “zelo veramente eccessivo”, come dice papà; è rientrato nell’esercito solo quando è scoppiata la guerra del ’70, ma con quelli di Perleberg invece che nel suo vecchio reggimento, e ha anche la Croce di ferro. Certo, perché è molto coraggioso. E subito dopo la guerra è tornato alle sue carte e pare che Bismarck lo stimi molto e anche l’imperatore, e così è diventato presidente distrettuale, presidente del distretto di Kessin.»
«Kessin? Non conosco nessuna Kessin da queste parti.»
«No, non è nella nostra regione, è piuttosto lontano da qui, in Pomerania, addirittura nella Pomerania ulteriore, il che non vuol dir niente perché è una località balneare (tutti quei posti sono località balneari) e la vacanza del barone Innstetten in realtà è un viaggio per vedere i cugini o qualcosa del genere. Vuol rivedere i vecchi amici e i parenti.»
«Allora ha dei parenti da queste parti?»
«Sì e no, dipende da cosa si intende. Qui non ci sono Innstetten, o comunque credo che non ce ne siano più. Ma ha dei lontani cugini da parte di madre e soprattutto avrà voluto rivedere Schwantikow e la casa dei Belling a cui lo legano tanti ricordi. C’è andato l’altro ieri e oggi vuol venire qui a Hohen-Cremmen.»
«E tuo padre cosa ne dice?»
«Assolutamente niente. Non è un tipo geloso. E poi conosce la mamma. Si limita a prenderla in giro.»
In quel momento suonò mezzogiorno e ancor prima dell’ultimo rintocco comparve Wilke, il vecchio factotum della famiglia Br...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Amos Oz
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. EFFI BRIEST
  7. Note
  8. Copyright