Te l’avessero chiesto prima, cos’è il dolore, avresti detto che è una belva malefica, che ti salta addosso e ti graffia, ti morde, ti squarta. E avresti detto una cazzata.
Perché questo non è il dolore, Serena, questo al massimo è il mostro di un film dell’orrore. Ma cosa ne potevi sapere. Di film ne hai visti un sacco, invece il dolore vero non l’avevi provato mai.
Ora ha riempito la tua vita. Anzi, no, una vita non ce l’hai più, adesso il dolore è la tua vita, e hai capito che non ti salta addosso come una belva, il dolore non ha fretta. Arriva piano, tanto che per un po’ ti guardi intorno e non capisci, cominci a pensare “Ma insomma, dov’è?”. E lui intanto si avvicina, si avvicina e sale, e quando ti arriva addosso è così enorme che non puoi scappare. Il mostro di un film entra dalla finestra, spunta da sotto il letto o da una tomba, e tu puoi tentare di scappare dalla parte opposta, infilarti nel bosco e correre dritto finché ce la fai, ti volti per vedere se si avvicina, inciampi e cadi, però ti rialzi e ricominci a correre zoppicando verso chissà dove, e corri e urli perché è sempre più vicino, sempre più vicino, fino all’ultimo grido fortissimo di quando ti prende e in un attimo è tutto finito.
Il dolore vero invece non arriva da un punto preciso, lui ti sta tutto intorno come il mare quando è mosso, un mare profondo e buio pieno di onde altissime che arrivano da tutte le parti. La corrente ti porta un po’ di qua un po’ di là, poi arriva un’onda più alta e ti travolge e vai sott’acqua, e non respiri e non sai più dove sei, da che parte è il fondo e dove la superficie, e cosa sono queste cose molli e viscide che ti si appiccicano ai polsi e alle gambe e ti portano giù. Allora ti lasci andare e affondi per sempre, e tutto gira più forte e insieme più piano, senti il cuore che batte lento nelle orecchie e il respiro che finisce, e proprio mentre stai per affogare, ecco che l’onda passa e ti ritrovi con la testa fuori dall’acqua, respiri e sei ancora qui, ma dove non lo sai. Ti guardi intorno, cerchi qualcosa a cui reggerti, ma non c’è verso di vedere nulla perché la gobba di un’altra onda scura sale a coprire tutto, e fra un po’ sarai di nuovo sotto, col mare che continua a stringerti nel suo abbraccio che ti chiude la gola, ti pesa sul petto, ti porta a fondo.
È lo stesso mare che si è portato via Luca, lo stesso identico mondo d’acqua scura che ha preso tuo figlio e l’ha fatto sparire, così grande che i suoi amici non se ne sono accorti. Solo dopo un po’ hanno visto la tavola, la sua tavola mezza rossa e mezza blu, si sono avvicinati e attaccato alla tavola c’era ancora il cordino legato alla sua caviglia, solo che Luca stava là sotto. I dottori non hanno trovato niente, nessun colpo, nessuna ferita, niente droghe o alcol, hanno detto che è stata una morte naturale. Un ragazzo di diciassette anni − anzi diciotto proprio quel giorno − alto, forte e con un fisico perfetto, come cazzo fai a chiamarla morte naturale?
Mai un problema, mai una malattia. Al punto che quando tu o Luna prendevate il raffreddore, e Luna d’inverno ha il raffreddore fisso, Luca vi chiedeva in che senso avevate il naso tappato, cosa si prova a soffiarselo e sentire il moccio che ci passa dentro, perché lui un raffreddore non l’aveva avuto mai. E allora come si fa a pensare che Luca sta in mare a divertirsi con gli amici e di colpo basta, di colpo si spegne e lo ritrovano attaccato alla tavola da surf, però sott’acqua, gli occhi verdi aperti, puntati al cielo là sopra. Come si fa a dire che una cosa del genere è naturale. Questo è l’opposto del naturale. È come se... come se... pensi a qualcosa di simile, un’altra cosa così assurda e tremenda, e non ti viene, solo senti il mare che ricomincia a salire e ti porta giù, sempre più giù.
Provi ad alzarti, ma anche stamani le coperte sono troppo pesanti e ti schiacciano lì, stesa a fissare il soffitto. Non sai che ore sono, ma dalle strisce di luce che passano tra le stecche della persiana sono minimo le undici. Meglio quando piove, quando senti il rumore dell’acqua che batte sul tetto e allora è più facile stare a letto ad ascoltarla e aspettare domani. Sollevi il busto, togli le gambe da sotto la coperta e provi a toccare terra coi piedi, ma ti sembra un salto impossibile, ti gira la testa e torni sdraiata. Sarà la pressione bassa, saranno tutte le gocce e le pillole che prendi per calmarti, o quelle per tirarti su, non lo sai e non ti importa nemmeno.
Basta sdraiarti di nuovo, chiudere gli occhi e aspettare che la luce di là dalle persiane finisca e arrivi un’altra notte, che è diventata la tua parte del giorno preferita, perché di notte nessuno si stupisce se stai a letto. Solo che adesso è mattina, e secondo il resto del mondo dovresti stare in piedi.
E però cosa cazzo te ne frega di quel che pensa il resto del mondo? Cioè, di un pezzettino ti importa, un pezzo piccolo e tutto bianco che si chiama Luna, e se non ci fosse lei potresti benissimo... potresti anche prendere e... boh, non lo sai, non sai niente. E comunque Luna c’è, e allora non ha senso pensare a cosa faresti senza.
Avrebbe senso solo alzarti, vestirti e andare a fare la spesa, salutare le persone in strada e fregartene di quegli sguardi addolorati mentre ti chiedono come stai, comprare qualcosa da mangiare e tornare qua e preparare il pranzo per Luna che torna da scuola.
Sì, oggi è ricominciata la scuola. Non lo sapevi. Luna si è svegliata presto, ti ha portato la colazione a letto e le medicine. Le hai chiesto come mai era già in piedi e vestita, lei ti ha risposto appunto che andava a scuola, e a te è sembrata una cosa assurda. Com’è possibile che Luca è morto e la scuola ricomincia? Com’è possibile che il pulmino passa a prendere i ragazzi uno per uno, che loro ci montano sopra, i più secchioni davanti e i più casinisti in fondo, e stanno lì a ridere e a prendersi in giro e a tirarsi la roba, se Luca è morto? Ma davvero i professori sono lì che aprono i registri e fanno l’appello e cominciano un nuovo anno scolastico, anche se Luca è morto?
No, non è possibile.
E infatti è proprio questo che all’inizio tiene lontano il dolore, il fatto che semplicemente non è possibile.
Quel pomeriggio di marzo, l’ultimo giorno che è esistito il mondo, sei tornata a casa con Luna, vi sono venuti tutti incontro e la Gemma ti ha detto di Luca, che stava in mare coi suoi amici, poi non l’hanno visto più, hanno visto solo la tavola che galleggiava e... e allora tu ti sei coperta la faccia con le mani, sei rimasta un attimo così e poi le hai tolte, hai guardato tutti che ti fissavano muti, e sei scoppiata a ridere.
Sì, a ridere. E loro di sicuro hanno pensato che eri impazzita, o che non avevi capito niente. Ma non eri tu, erano loro che non conoscevano Luca. E infatti anche Luna rideva, un pochino, mentre la abbracciavi forte. «Luna! Va tutto bene Luna, non ti preoccupare. Ti ricordi quella volta che c’era quello yacht al largo, Luca è andato a nuoto fino lì e l’hanno portato in gita all’isola del Giglio? Ti ricordi quel giorno che è andato a comprare il gelato, ma ha visto la neve sui monti e allora è salito a piedi fino in cima alla Pania? Ha mangiato la neve e poi è tornato a casa alle... che ore saranno state? Mezzanotte? L’una?»
«Anche più tardi mamma, anche più tardi!»
E tu facevi di sì, e ridevi. Perché sicuramente anche stavolta era successa una cosa così, era impossibile che fosse diverso.
I tipi dell’ambulanza con le loro tute sceme e arancioni ti stavano intorno, la Gemma ti teneva la mano, e intanto tu immaginavi Luca che cavalcava le onde là nell’oceano, e una ragazza francese magari l’ha visto, si è innamorata ed è andata da lui. A Luca succede sempre anche qua, figuriamoci in Francia che sono più liberi di testa. Si sono piaciuti, lei gli ha chiesto se voleva andare a casa sua e Luca ha lasciato lì la tavola ed è andato con lei. Oppure no, oppure mentre surfava ha incontrato un branco di delfini ed è salito in groppa a uno che l’ha portato su un’isola meravigliosa, un posto segreto e splendido, e fra un po’ vi scrive di raggiungerlo e andate a vivere insieme laggiù.
Ecco perché, quando ti hanno raccontato quelle cose, tu ti sei messa a ridere e hai abbracciato Luna. Tutti ti guardavano come una matta e allora gli hai detto che ti dispiaceva ma erano venuti per nulla, non era successo niente, gli hai augurato una bella serata e sei entrata in casa con tua figlia e la Gemma. Sei andata in camera e sei montata in piedi sul letto, hai preso la valigia da sopra l’armadio e hai cominciato a buttarci dentro della roba.
«Dài Luna, aiutami, te cosa ti porti via? Roba leggera eh, e anche un costume, il costume ci vuole.»
«Ma dove andiamo?»
«Da Luca, no? Però vedrai che il sole è forte, prendi la crema, prendi le felpe col cappuccio.»
E Luna ha fatto di sì con la testa e ha cominciato anche lei ad aprire cassetti, ma piano e senza prendere nulla. Mentre la Gemma provava a fermarti, ti stringeva le braccia, ti chiedeva di sederti un attimo solo.
«Gemma, adesso non ho tempo. Quando torniamo si parla di tutto quello che vuoi. E mi spieghi cos’ha combinato stavolta Vincenzo, ok? Intanto lo vuoi un tè? Luna, prepara un tè alla Gemma.»
«No Serena, grazie, non mi va. Però fermati un secondo, te lo chiedo per piacere, e ascoltami. Luca non è sparito. Stava lì vicino alla tavola. Mi dispiace da morire, Serena, ma l’hanno trovato. Capisci? L’hanno trovato.»
«Gemma, abbi pazienza, adesso non posso stare qui a sentire i tuoi problemi, dobbiamo partire. Luna, per piacere, prendi anche un paio di jeans e una felpa per Luca? Non si è portato quasi niente, mi sa che gli servono.»
Tutto quello che trovavi lo buttavi addosso alla valigia, che ormai era una montagna di roba. Mutande calzini maglie scatole di naftalina vecchi fazzoletti ricamati fatti da tua madre e pieni di muffa. E avresti continuato così fino a ripulire la casa, e dopo chissà cosa avresti fatto. Però di colpo le braccia sono diventate pesanti, ti sei piegata, hai sentito un rumore nella testa tipo uno sciame di vespe che volava in mezzo al vento, un vento fortissimo che ti ha presa e ti ha sbattuta giù. E di sicuro Luna e la Gemma hanno visto che cadevi e sono corse a prenderti prima che picchiassi per terra. Ma tu sei stata più veloce.
Hai sbattuto la testa sul pavimento, ma non te lo ricordi, non hai sentito dolore. E uguale mentre ti portavano all’ospedale in ambulanza, e fissavi il bianco del tetto sballottato dalla strada. Il dolore ancora non arrivava. Forse era così enorme che gli serviva tantissimo spazio, e allora prima cominciava a svuotarti dentro: spariva la ragazza francese che invitava Luca a casa sua, sparivano i delfini e l’isola misteriosa, spariva la festa per i diciott’anni di Luca che dovevate fare voi tre soli. E sparivano i suoi occhi verdi, il suo sorriso, il modo che aveva di dirti “Non ti preoccupare mamma, che problema c’è, non ti preoccupare di niente mai”.
Da lì è stato come un buco enorme, dove tutto cade e si perde. Il giorno e la notte, il passare delle ore, il pranzo e la cena e questa luce inutile tra le stecche della persiana. Non ha senso nemmeno che ti alzi e prepari da mangiare a Luna. Tanto fra poco torna e ti dice che si è sbagliata, che la scuola non è ricominciata, è andata là e il cancello era chiuso e c’era scritto sopra che la scuola è finita e non ricomincia mai più.
Perché niente ricomincia, niente va avanti, niente ha più senso. E resti qua, sdraiata nel buio, a respirare in qualche modo tra un’onda e quella dopo.