Il giallo di via Tadino
eBook - ePub

Il giallo di via Tadino

Milano, 1950

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il giallo di via Tadino

Milano, 1950

Informazioni su questo libro

Milano, 1950. È sera, una gelida serata di inizio marzo, piove a dirotto. In una vecchia casa di ringhiera, a Porta Venezia, il corpo di una bella donna sulla quarantina, sposata e madre di due figlie, si sfracella sui ciottoli del cortile, precipitando dal quarto piano. L'inchiesta tocca a Mario Arrigoni, capo del commissariato di Porta Venezia. Tutto farebbe pensare a un suicidio, ma qualcosa nella dinamica dei fatti non convince il commissario. Comincia così un'indagine che si svolge in una Milano sferzata dall'ultima coda del freddo invernale, una città da poco uscita dalla guerra, le cui macerie sono ancora visibili nelle strade. Mentre intorno sopravvivono usi e costumi destinati presto a sparire, il piccolo mondo dei coinquilini della presunta suicida sfila davanti ad Arrigoni, rivelando personaggi curiosi, a cominciare da una portinaia molto perspicace, nonché miserie, ambizioni sbagliate, velleità. Al termine degli interrogatori, il suo collaudato metodo investigativo e una felice intuizione finale portano il commissario Arrigoni alla soluzione del caso, tanto amara quanto imprevedibile. Dopo lo straordinario successo di pubblico in Lombardia, viene riproposto, in una versione riveduta e corretta, il romanzo di esordio di Dario Crapanzano. La prima formidabile avventura di una squadra ormai entrata nel cuore dei lettori: Mario Arrigoni e i suoi agenti del commissariato di Porta Venezia, dall'ottuso vicecommissario Mastrantonio, al brillante ispettore Giovine, passando per il giovane Ciro Di Pasquale, irresistibile sciupafemmine. Crapanzano sa ricostruire come nessun altro la magia di un luogo e di un tempo ormai perduti, che nelle sue pagine torna, più viva che mai.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804647652
eBook ISBN
9788852060236

1

Il 2 marzo 1950, giovedì, verso le otto della sera, tutto era tranquillo nella vecchia casa di ringhiera di via Tadino 17/a, a Porta Venezia. Una debole luce filtrava dai vetri delle seconde porte e dalle finestre dei molti appartamenti che si affacciavano sul cortile, distribuiti sui quattro piani dello stabile. Quasi nessuno aveva ancora chiuso la porta principale, quella in legno massiccio, che rimaneva aperta fino all’ora del sonno.
La gente, nella maggior parte dei casi, aveva già finito di cenare. Lì si mangiava presto, sia per una tradizione dura a morire che veniva dalle origini contadine dei più, sia perché la mattina tutti andavano a lavorare di buon’ora. Operai, artigiani o negozianti, finito il pasto, si coricavano subito dopo un po’ di radio o una lettura più approfondita della “Gazzetta dello Sport”. La mattina, fra le sei e le sei e mezzo, suonavano le sveglie. E dopo un caffè o un caffellatte, via verso il lavoro in tram, in bicicletta o in moto, per quei pochi che la possedevano, portandosi dietro l’immancabile schiscèta di alluminio con dentro già pronto il pasto di mezzogiorno, solitamente una frittata, un po’ di minestra, o semplicemente pane, salame, formaggio. A casa rimanevano solo le donne che, dopo aver preparato i figli per la scuola, si dedicavano alle faccende domestiche. Poche, infatti, avevano un lavoro fisso che le impegnava per tutta la giornata.
Il cortile era buio, solo sfiorato dalle luci delle abitazioni. Unica eccezione, il fiotto luminoso che usciva dalla porta del retro del caffè-tabaccheria. Una pioggia insistente e fredda batteva sull’acciottolato, formando piccole pozzanghere e rigagnoli. Due moto erano parcheggiate sotto il ballatoio del primo piano, al riparo dalla pioggia. Fuori, non c’era nessuno, anche la portinaia era barricata nella sua ampia guardiola con vetrata.
All’improvviso, la sonnacchiosa quiete della sera fu violentemente scossa da un grido, un disperato urlo di donna, un agghiacciante e prolungato “noooo!”, subito seguito dal fragore di un tremendo tonfo. Il tabaccaio, sentiti sia il grido sia il tonfo, uscì dalla porta sul retro e si trovò di fronte all’orribile spettacolo di un corpo di donna, immobile e scomposto, disteso sui ciottoli tondi bagnati dalla pioggia.

2

Il commissario di pubblica sicurezza Mario Arrigoni, compatibilmente con le esigenze del mestiere, cercava di mantenere le sue buone abitudini. Come quella di non rincasare troppo tardi, finito il lavoro. Infatti, anche quella fredda sera di inizio marzo, verso le sette, stava uscendo dal commissariato Porta Venezia, a due passi da corso Buenos Aires.
Lo dirigeva ormai da quasi quattro anni. Milanese, nato esattamente all’inizio del secolo, sotto il segno del capricorno, figlio unico di famiglia modesta, si era diplomato al liceo e, dopo un paio d’anni passati senza entusiasmo come impiegato in una compagnia di assicurazioni, aveva coronato il suo sogno di entrare in polizia. Vinto un concorso, ci era riuscito proprio nel 1922, in concomitanza con la conquista del potere da parte di Benito Mussolini. Contemporaneamente, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza dove, passando le serate e le notti sui libri, si era laureato dopo soli cinque anni. Aveva fatto tutta la trafila prevista dalla carriera sempre a Milano, tranne una breve parentesi a Brescia. Era stato prima ispettore, poi commissario e finalmente commissario capo al Porta Venezia. Passando attraverso la dittatura, la guerra, la monarchia, la repubblica, e il primo dopoguerra. Negli anni del fascismo, era riuscito a mantenere un rapporto “neutrale” con il regime, nonostante la fama di istituzione fedele al duce di cui godeva la polizia.
A dire il vero, durante il periodo della Repubblica di Salò, il suo atteggiamento decisamente poco favorevole ai nazifascisti lo aveva messo in difficoltà, emarginandolo da ruoli direttivi e mettendone anche a rischio la libertà, se non l’incolumità, personale. Salvato da provvidenziali interventi dei superiori, ebbe poi un pieno reintegro nelle sue funzioni con l’avvento della democrazia che causò, invece, non poche noie ai più collaborazionisti fra i suoi colleghi.
Si accorse che pioveva forte e rientrò a prendere il fido ombrello nero. Così, protetto dalla pioggia, si incamminò verso la fermata del tram all’angolo fra corso Buenos Aires e viale Tunisia. Viale che si ostinava a chiamare Regina Elena, non per nostalgia filomonarchica, ma per un fatto puramente affettivo, legato ai ricordi del passato. Qui, attese l’arrivo del “suo” tram, il 17, che in poche fermate lo avrebbe portato in piazza Durante, a pochi passi da casa. Abitava in piazza San Materno, proprio di fianco alla chiesa di Santa Maria Bianca della Misericordia, più nota come “Abbazia del Casoretto”, dal nome dell’antico borgo in cui era sorta nella seconda metà del 1100.
Preso il tram, dopo appena dieci minuti già stava aprendo la porta del suo appartamento: tre locali, più un bagno e un’ampia cucina, al primo piano di uno stabile costruito all’inizio degli anni Trenta, decoroso ma niente di più, tant’è vero che non c’era nemmeno l’ascensore.
Accolto da un bel tepore, particolarmente gradito dopo il freddo e la pioggia patiti fuori, si inoltrò lungo l’anticamera.
«Ciao, belle donne!» lanciò l’abituale saluto con il quale annunciava il suo arrivo alla moglie Lucia e alla figlia Claudia.
La moglie, trentanove anni, era proprio una gran bella donna. A un ovale e lineamenti perfetti del viso, illuminati da due splendidi occhi azzurri, si aggiungeva una figura alta e slanciata che ancora faceva voltare gli uomini quando camminava per la strada. Una straordinaria bellezza che, in gioventù, aveva portato Lucia Ravetti al titolo di “Miss Commessa Milano”. L’avvenenza, unita a un portamento naturalmente elegante, l’aveva in seguito portata a intraprendere la professione di indossatrice (mannequin diceva chi voleva darsi un tono), che aveva esercitato con successo, fino a diventare una delle più apprezzate e richieste professioniste non solo per le sfilate organizzate dalle sartorie di Milano e della Lombardia, ma anche di Roma e Firenze.
La bellezza della moglie era sempre motivo di un notevole, anche se non espresso, stupore per tutti coloro che facevano conoscenza della coppia. Come marito di una donna così affascinante ti saresti aspettato un tipo alla Clark Gable o, volendo restare in Italia, almeno alla Amedeo Nazzari. Mentre, a dire il vero, Mario Arrigoni non era proprio un gran bell’uomo. Di oltre dieci anni più vecchio della moglie, fisico tozzo e massiccio (da qui il soprannome di “Orso” con cui era clandestinamente ma affettuosamente chiamato in commissariato), viso largo da mastino, caratterizzato da un naso importante e un folto paio di baffi, ormai grigi come i capelli arruffati e scomposti... insomma, tutt’altro che il tipo del tombeur de femmes. Si salvavano solo gli occhi, castani, dolci, molto espressivi e penetranti.
Intorno al 1938, aveva conosciuto Lucia Ravetti al Caffè Roseto di corso Buenos Aires angolo Regina Elena, dove lavorava come cassiera. La conoscenza si era casualmente rinverdita in commissariato, dove lei si era recata per denunciare il furto della sua bicicletta. All’epoca, non ancora trentenne, Lucia stava attraversando un momento molto difficile, reduce da una forte delusione amorosa che l’aveva anche portata ad abbandonare il mondo della moda, non sentendosi più in grado di sostenerne i ritmi forsennati. La ferita, nonostante fosse passato più di un anno, era ancora troppo fresca per essere dimenticata.
Le visite al commissariato per avere notizie sul furto della sua bicicletta (che non fu mai più ritrovata), unitamente alla assidua frequentazione del caffè da parte di Mario Arrigoni, all’epoca ispettore, avevano reso sempre meno superficiale la conoscenza fra i due. E Lucia aveva avuto modo, gradatamente, di apprezzare, oltre all’intelligenza, la dolcezza e la grande umanità che si nascondevano sotto i modi bruschi di Arrigoni. Questi, chiaramente invaghito della giovane donna, si era fatto coraggio, vincendo la sua timidezza, e, nonostante la sensibile differenza d’età e la forte soggezione in cui lo metteva la bellezza di Lucia, si era lanciato in un garbato quanto goffo corteggiamento. Era la prima volta che l’inesperto Mario Arrigoni si cimentava sul serio nell’assalto a una fortezza femminile! Qualche parola (e qualche caffè...) in più, divagazioni sui fatti del giorno, piccole confidenze sul piano personale, una strana quanto puntuale presenza di lui all’ora di chiusura del locale... un “ti accompagno a casa?” (sì, erano passati al tu) e il saluto finale davanti al portone dell’abitazione di Lucia, in via Felice Casati. Dopo qualche mese, si vedevano praticamente tutti i giorni, compresa la domenica, dedicata solitamente a un film o a uno spettacolo teatrale.
La bella Lucia, dopo un iniziale e comprensibile sconcerto, si era trovata sempre più a suo agio con quello scapolo già un po’ stagionato, in un rapporto che, pur se non caratterizzato da una folle passione, per lo meno da parte di lei, si tramutò naturalmente in qualcosa di più intimo e affettuoso. Tanto che non gli nascose nulla, gli raccontò la sua vita, inclusa la storia sentimentale che gliel’aveva stravolta. Va detto che i due dovettero anche superare qualche momento di imbarazzo, dovuto ai rispettivi, e molto diversi, trascorsi amorosi; per Mario erano praticamente inesistenti, mentre Lucia aveva conosciuto tutti gli aspetti dell’amore, sesso incluso. Nella coppia che si veniva formando i ruoli erano praticamente invertiti, e l’esperienza erotica tutta dalla parte... sbagliata. Ma questo non rappresentò un problema per Arrigoni che, anzi, ci tenne a mantenere il rapporto entro i binari della più tradizionale castità prematrimoniale, quasi a voler deliberatamente ignorare gli eventi del passato.
Infine, si arrivò al fidanzamento ufficiale, con tanto di anello e la piena approvazione, oltre che della mamma di lui, la vedova Arrigoni, anche dei genitori Ravetti. Questi vedevano in quell’uomo gentile e intelligente un solido pilastro, un approdo sicuro per la figlia che, fra l’altro, aveva raggiunto un’età in cui le donne ancora nubili venivano bollate con l’epiteto poco gratificante di “zitella”.
Il fatto che il promesso sposo avesse anche, oltre a un impiego statale prestigioso, un appartamento di proprietà in zona Loreto, fece guadagnare ad Arrigoni altri punti nella considerazione dei futuri suoceri. Ma, ad evitare equivoci sull’atteggiamento favorevole dei Ravetti, va subito detto che i genitori di Lucia vedevano di buon occhio questo possibile matrimonio soprattutto perché si erano accorti che Lucia, finalmente, sembrava essere tornata alla vita, serena e rilassata, persino allegra.
Così, dopo un breve fidanzamento nel corso del quale i due si erano assiduamente frequentati in una Milano che, inebetita dalla retorica fascista, sentiva sempre più vicino l’arrivo di una guerra, Mario e Lucia si sposarono nella chiesa di San Gregorio. Come d’uso, nella parrocchia della moglie, situata nell’omonima via all’angolo con via Settala. Nel bel mezzo di una parte della città dalle molte reminiscenze manzoniane: a cominciare dal Lazzaretto, il ricovero e ospedale per lebbrosi citato nei Promessi Sposi. E infatti, proprio a due passi dalla chiesa, partiva via Lazzaretto che da piazza Cincinnato arrivava fino a via Vittorio Veneto, sotto i Bastioni di Porta Venezia
Dal matrimonio, circa un anno dopo, a guerra appena scoppiata, era nata Claudia. Che ora, a dieci anni, era una ragazzina vivace e intelligente, ma purtroppo non molto carina. Infatti, come voleva la tradizione popolare, aveva preso più dal padre che dalla madre: fisico brevilineo e viso anonimo (senza però il naso paterno!), fortunatamente ravvivato e impreziosito da due splendidi occhi azzurri come quelli della madre. “Speriamo che diventi più bella crescendo” pensava spesso il padre, che si rendeva conto, con forte senso di colpa, di essere l’unico responsabile della scarsa avvenenza della figlia.
Al “ciao, belle donne!” del padrone di casa rispose dalla cucina la voce di Lucia, che subito si affrettò a raggiungerlo accogliendolo con un forte abbraccio e un tenero bacio.
Queste calde e spontanee manifestazioni d’affetto, che Lucia non gli faceva mai mancare, davano una grande gioia al commissario che, a sua volta, ne era stato pian piano contagiato, fino a trasformarsi in un “orso” molto più comunicativo ed estroverso.
«Ciao, Mario, sei arrivato presto. Fra un quarto d’ora al massimo è pronto.»
«Dov’è la piccola? Poteva almeno salutarmi!»
«Sai com’è fatta, in questo periodo poi è particolarmente scontrosa. È in camera sua, sta incollando sull’album le figurine della raccolta degli animali. Dice che le serve anche per la scuola, impara a conoscere tutti gli animali della terra.»
«Ma non l’ha ancora finita?»
«Quasi. Anche a lei, come a tutte le sue compagne, manca quel benedetto koala, non lo trova nessuno, chissà poi se ce l’hanno messo davvero tra le figurine che vendono... non possiamo continuare a comprare bustine, così è contento solo il giornalaio!»
Mentre Lucia tornava ai fornelli e apparecchiava la tavola, il commissario andò a salutare la figlia. Claudia, circondata dal forte odore della coccoina, rispose distrattamente e senza il bacio che il papà si sarebbe aspettato. Da un po’ di tempo, ormai in quinta elementare, si sentiva troppo “grande” per queste manifestazioni che definiva smancerie, pur amando in realtà moltissimo il padre.
Messosi comodo, in pullover e pantofole, Arrigoni ingannò l’attesa della cena accendendo la radio e fu subito assalito dalle réclame che ormai impazzavano a tutte le ore, ma soprattutto prima dei pasti e del Giornale Radio, quando c’era una maggior concentrazione di ascoltatori. In quel momento venivano reclamizzati (nonostante la stagione ancora invernale) i Sali Tamerici di Montecatini, che almeno avevano il pregio di essere presentati da una bella e briosa canzone, Mattinata fiorentina. Solo a sentirla metteva allegria: “È primavera, svegliatevi bambine, alle Cascine Messer Aprile fa il rubacuor... E a tarda sera, madonne fiorentine, quante forcine si troveranno tra i prati in fior...”. Grazie alla pubblicità, la canzone aveva conosciuto una nuova ventata di popolarità, tanto che spesso la si sentiva canticchiare per le strade.
Finalmente arrivò il Giornale Radio. Fra le prime notizie sulla politica spiccava l’annuncio di una prossima importante decisione che avrebbe preso il gabinetto di Alcide De Gasperi, di nuovo in carica dopo la recente crisi di governo: l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, destinata a promuovere e finanziare lo sviluppo del Sud, sempre in ritardo rispetto alla parte più avanzata del Paese. Il Giornale diede anche la buona notizia della conferma dei 290 milioni di dollari di aiuti ERP stanziati dagli Stati Uniti: una boccata d’aria per i conti e la ripresa dell’Italia. Ma, come al solito, non mancavano le cattive notizie: scioperi e scontri dei dimostranti con la polizia, delitti, cruenti regolamenti di conti fra opposte fazioni politiche. Il Giornale Radio era lo specchio che rifletteva la situazione del Paese: da una parte l’inizio della ripresa economica, la buona volontà di molti per far rinascere un’Italia duramente provata dalla guerra, dall’altra la cronaca nera che, come in tutti i periodi postbellici, ogni giorno sfornava brutti episodi di violenza e di morte.
Arrigoni spense la radio, non voleva sentire altro. Il suo Paese stava vivendo un periodo molto difficile, come dimostravano gli scioperi che si susseguivano senza tregua, coinvolgendo operai e contadini dal Nord al Sud. Scioperi che, purtroppo, avevano lasciato sul terreno decine e decine di morti nel solo anno 1949. E il 1950, proclamato anno santo da papa Pio XII, era iniziato nel modo peggiore, con sei persone decedute durante gli scontri fra dimostranti e polizia, il 9 gennaio, a Modena, davanti alle Fonderie Orsi. Come rappresentante delle cosiddette “forze dell’ordine”, Arrigoni si trovava nella delicata posizione di chi da un lato deve, appunto, far rispet...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontispiece
  3. NOTA DELL’AUTORE
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
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  17. Copyright