
- 288 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La strada di Wigan Pier
Informazioni su questo libro
Un romanzo verità sullo sfruttamento e la disoccupazione esistente in una cittadina mineraria dell'Inghilterra settentrionale durante gli anni Trenta. Un problema sociale denunciato dal grande scrittore inglese a tutt'oggi di grande attualità.
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Informazioni
Print ISBN
9788804479369eBook ISBN
9788852060373PARTE PRIMA
Capitolo I
IL primo suono la mattina era il calpestio degli zoccoli delle operaie giù per l’acciottolato. Prima di quello, suppongo, c’erano le sirene della fabbrica che non ero mai sveglio per udire.
Eravamo generalmente in quattro nella camera da letto, che era una vera tana, con quell’aria degradata, provvisoria delle camere che non servono al loro giusto scopo. Anni prima lo stabile era stato una comune casa d’abitazione, e quando i Brooker l’avevano presa per attrezzarla a tripperia e pensione, avevano ereditato alcune delle suppellettili più inutili e non avevano mai avuto l’energia di rimuoverle. Noi dormivamo pertanto in quello che era ancora identificabile come un salotto. Dal soffitto pendeva un massiccio lampadario di vetro su cui la polvere si addensava al punto da sembrare pelame. E a ricoprire quasi del tutto una parete c’era un immenso, odioso rottame, una via di mezzo tra una credenza e una bancarella, con un mucchio di sculture in legno, cassettini e specchietti, e c’erano un tappeto, un tempo sontuoso, con le impronte di anni di secchio dell’acqua sporca, e una di quelle antiquate poltrone di crine, dalle quali uno invariabilmente scivola a terra ogni qual volta tenti di sedervi. La camera era stata trasformata in stanza da letto con l’introduzione a viva forza di quattro squallidi letti in mezzo a tutto l’altro ciarpame.
Il mio letto si trovava nell’angolo a destra della parete più vicina alla porta. C’era un altro letto posto trasversalmente ai piedi del mio e a stretto contatto (doveva essere così, o la porta non avrebbe potuto aprirsi), così e ero costretto a dormire con le gambe piegate in due; se le tendevo, davo un calcio nella nuca dell’altro dormiente. Questo era un uomo anziano chiamato signor Reilly, meccanico, o qualcosa del genere, occupato in superficie in una delle miniere di carbone. Per fortuna doveva recarsi al lavoro alle cinque del mattino, così che potevo allungare le gambe e godermi un paio d’ore di sonno regolare dopo che se n’era andato. Nel letto di fronte dormiva un minatore scozzese che, rimasto infortunato lavorando in un pozzo (un grosso macigno lo aveva inchiodato sul terreno e c’erano volute due ore per toglierglielo di dosso), aveva ricevuto un’indennità di cinquecento sterline. Era un bell’uomo robusto sulla quarantina, dai capelli brizzolati e i baffetti, che assomigliava più a un sergente maggiore che a un minatore e soleva starsene a letto la mattina fino a tardi, fumando una corta pipetta. L’altro letto era occupato da tutta una serie di commessi viaggiatori, piazzisti e traffichini in genere, che generalmente non si fermavano più di un paio di notti. Era un letto a due piazze e di gran lunga il migliore della camera. Io stesso ci avevo dormito durante la mia prima notte nella pensione, ma ne ero stato abilmente allontanato per lasciare il posto a un altro cliente. Credo che tutti i nuovi venuti passassero la loro prima notte nel letto a due piazze, che era usato, per così dire, come esca. Tutte le finestre erano tenute rigorosamente chiuse da un rosso sacchetto di sabbia incastrato nel fondo, e la mattina la stanza puzzava come la gabbia di un furetto. Non te ne accorgevi quando ti levavi, ma se uscivi dalla stanza e poi ci rientravi, il fortore ti colpiva in piena faccia come un ceffone.
Non ho mai scoperto quante camere da letto contenesse la casa, ma, strano a dirsi, c’era un bagno, che risaliva a prima dei Brooker. A pianterreno c’era la solita cucinasoggiorno, con la sua immensa stufa sempre aperta, accesa giorno e notte. La illuminava un semplice lucernario, perché un lato di essa era la bottega vera e propria e l’altro comprendeva la dispensa, che si apriva in una specie di oscuro sotterraneo, dove si teneva la trippa. A bloccare parzialmente la porta della dispensa si stendeva un sofà informe su cui la nostra padrona di casa, signora Brooker, giaceva perennemente ammalata, avvolta in sudice coperte. Aveva una gran faccia giallo-pallida, ansiosa. Nessuno sapeva con certezza che male avesse; io sospetto che il suo unico disturbo vero fosse il troppo mangiare. Di fronte al fuoco c’era quasi sempre una corda con appesa della biancheria appena lavata e nel centro della stanza troneggiava il gran tavolo di cucina su cui la famiglia e tutti i pensionanti consumavano i pasti. Non ho mai visto quella tavola del tutto allo scoperto, ma ho visto i suoi vari involucri in diverse occasioni. Sul fondo, c’era uno strato di giornali vecchi, macchiati di Worcester sauce; sopra, una tela cerata bianca e appiccicosa; sopra, una coperta di saia verde; e sopra ancora una tovaglia di ruvido lino, mai cambiata e rarissimamente tolta. Generalmente, le briciole della prima colazione si trovavano ancora in tavola all’ora di cena. M’ero abituato a riconoscere le briciole individuali a vista e a seguire il loro procedere su e giù per la tavola di giorno in giorno.
La bottega era un locale freddo e angusto. Sull’esterno della vetrina alcune lettere bianche, relitti di antiche pubblicità di cioccolata, erano sparpagliate come stelle. All’interno, una lastra di pietra su cui stavano le grandi e bianche pieghe di trippa, con quella sostanza grigia, fioccosa, detta black tripe, trippa nera, e gli spettrali, translucidi piedi di porco, già bell’e bolliti. Era la comune tripperia di paese, del tipo detto tripe and pea, trippa e piselli, e non vi si vendeva molto altro, se si eccettui pane, sigarette e scatolame. “Tè diversi” era annunciato sulla vetrina, ma se un avventore chiedeva una tazza di tè, era solitamente rimandato con una scusa. Il signor Brooker, sebbene disoccupato da due anni, era minatore di mestiere, ma lui e sua moglie avevano gestito botteghe di vario genere, come attività secondaria, per tutta la loro vita. C’era stato un periodo in cui avevano avuto un pub,1 ma era stata tolta loro la licenza per avere permesso il gioco d’azzardo nel locale. Non credo che il loro commercio abbia mai reso; apparteneva a quel genere di persone che si occupano di commercio soprattutto per avere qualcosa di cui brontolare. Brooker era un uomo bruno, dalle ossa minute, acido, d’aspetto irlandese e sbalorditivamente sudicio. Non credo di avergli visto una sola volta le mani pulite. Con la signora Brooker perennemente invalida era lui che si occupava quasi totalmente della cucina e come tutti coloro che hanno sempre le mani sporche aveva un modo di maneggiare le cose peculiarmente intimo, prolungato. Se ti porgeva una fetta di pane imburrato, ci trovavi sempre la nera impronta di un pollice. Anche la mattina di buon’ora, quando scendeva nella misteriosa tana dietro il sofà della moglie a pescare la trippa, le sue mani erano già nere. Ho udito dagli altri pensionanti racconti paurosi sul luogo dove si conservava la trippa. Si diceva che gli scarafaggi vi scorrazzassero a sciami. Non so quante consegne di trippa fresca ordinassero i Brooker, ma certo a lunghi intervalli, perché la signora Brooker soleva datare da esse gli eventi della vita quotidiana. «Vediamo un po’, ho ordinato tre quantitativi di trippa congelata dopo quel fatto» ecc. ecc. A noi pensionanti non veniva mai data trippa da mangiare. Allora credevo che lo si dovesse al fatto che la trippa era troppo cara; mi sono poi convinto ch’era semplicemente perché la sapevamo troppo lunga in merito alla trippa. Gli stessi Brooker, m’ero accorto, non ne mangiavano mai.
I soli inquilini permanenti erano il minatore scozzese, signor Reilly, due vecchi pensionati e un disoccupato di nome Joe: era il tipo di persona che non aveva cognome. Il minatore scozzese era uno scocciatore, appena lo si fosse conosciuto un po’. Come moltissimi disoccupati passava troppo tempo a leggere giornali, e se non lo si teneva a bada era capace di sproloquiare per ore e ore su argomenti come il “pericolo giallo”, gli infortuni in miniera, l’astrologia, il conflitto tra scienza e religione, I due vecchi pensionati erano stati scacciati dalle loro case, come al solito, dal Means Test.2 Versavano i loro dieci scellini settimanali ai Brooker, e ricevevano in cambio il genere di trattamento che ci si può aspettare per dieci scellini; vale a dire, un letto in soffitta e pasti principalmente a base di pane e burro. Uno di loro era di tipo “superiore” e moriva di un male di natura maligna, cancro, credo. Scendeva dal letto soltanto nei giorni in cui andava a ritirare la pensione. L’altro, chiamato da tutti old Jack, era un ex minatore di settantotto anni, che aveva lavorato per più di mezzo secolo nei pozzi. Era sveglio e intelligente, ma, cosa abbastanza curiosa, sembrava soltanto ricordare le esperienze della sua infanzia ed avere dimenticato completamente le moderne tecniche meccaniche e i progressi degli scavi minerari. Soleva raccontarmi episodi di lotte con cavalli selvaggi nelle anguste gallerie del sottosuolo. Quando seppe che mi proponevo di scendere in alcune miniere di carbone, assunse un tono sdegnoso e dichiarò che un uomo della mia statura (sei piedi e due pollici e mezzo) non sarebbe mai riuscito a fare il “viaggio”; fu inutile dirgli che il “viaggio” era grandemente migliorato rispetto ai suoi tempi. Ma si mostrava cordiale con tutti e soleva salutarci tutti con un simpatico urlo di “Buonanotte, ragazzi!”, mentre si arrampicava su per le scale verso il suo letto, posto chi sa dove sotto i travicelli. Ciò che più ammiravo in old Jack era che non mendicava mai; verso la fine della settimana restava generalmente senza tabacco, ma rifiutava sempre di fumare quello degli altri. I Brooker avevano assicurato la vita dei due vecchi pensionati presso una delle compagnie da mezzo scellino alla settimana. Si diceva che li si fosse uditi chiedere ansiosamente all’assicuratore «quanto potesse vivere la gente quando avesse il cancro».
Joe, come lo scozzese, era un gran lettore di giornali e passava quasi tutta la giornata nella biblioteca pubblica. Era il tipico disoccupato scapolo, una creatura dall’aria abbandonata, chiaramente cenciosa, con una faccia rotonda, quasi infantile, su cui era visibile un’espressione ingenuamente maliziosa. Sembrava più un povero bimbo trascurato che un uomo fatto. Suppongo che sia la completa mancanza di responsabilità che fa sembrare tanti di questi uomini più giovani della loro età. Dal suo aspetto, davo a Joe un ventotto anni e sbalordii nel sapere che ne aveva quarantatré. Aveva il gusto delle frasi sonore ed era molto fiero dell’astuzia con cui era riuscito a non sposarsi. Spesso mi diceva «Le catene matrimoniali sono troppo pesanti» con l’impressione, evidentemente, che questa fosse un’osservazione quanto mai sottile e peregrina. Il suo reddito totale si aggirava sui quindici scellini alla settimana, e ne pagava sei o sette ai Brooker per il letto. A volte lo vedevo prepararsi una tazza di tè sulla stufa della cucina, ma per il resto consumava i pasti fuori; pasti che dovevano essere, suppongo, principalmente di pane e margarina, con sacchetti di pesce e patatine fritte.
Oltre a costoro, c’era poi una clientela volante di commessi viaggiatori della specie più povera, di attori girovaghi – sempre numerosi nel Nord dell’Inghilterra, perché quasi tutti i pubs maggiori assumono artisti di varietà per la fine di settimana – e produttori di abbonamenti giornalistici. Questa categoria era di un tipo che non avevo mai incontrato. Il loro lavoro mi sembrava così senza speranze, così scoraggiante che mi chiedevo come qualcuno potesse rassegnarvisi, quando la prigione si presentava come un’alternativa meno squallida. Erano assunti principalmente da periodici settimanali o domenicali che li inviavano di cittadina in cittadina, forniti di carte topografiche e con una lista delle strade che essi dovevano “lavorare” ogni giorno. Se non riuscivano a fare un minimo di venti abbonamenti al giorno, erano licenziati. Fino a quando mantenevano i loro venti ordini al giorno ricevevano un piccolo salario, due sterline alla settimana, mi pare; per una cifra di abbonamenti superiore alla ventina, percepivano una provvigione minima. La cosa non è poi così impossibile come sembra, perché nei distretti operai ogni famiglia acquista un settimanale da due penny e lo cambia con un altro dopo due o tre settimane; ma dubito che uno riesca a conservare un lavoro di quel genere molto a lungo. I giornali assumono poveri rottami umani, impiegati e commessi viaggiatori senza lavoro e altri disperati del genere, che per un po’ fanno sforzi frenetici e riescono a mantenere le vendite al minimo necessario; poi, appena il bestiale lavoro ha ragione di loro, stremandoli, sono licenziati e nuovi elementi sono assunti al loro posto. Ne conobbi due che lavoravano per uno dei settimanali più diffusi. Entrambi erano uomini in età con famiglia a carico, e uno anzi era nonno. Si arrabattavano dieci ore al giorno, sempre in piedi, “lavorando” le strade affidate loro, e poi restavano in piedi fino a tardi, la sera, a riempire moduli per qualche imbroglio che il loro giornale aveva organizzato: uno di quegli schemi per il quale ti viene “dato” un servizio di terracotta se sottoscrivi un abbonamento di sei settimane e insieme mandi anche un vaglia di due scellini. Quello grasso, il nonno, di solito si addormentava con la testa su un mucchio di moduli. Né l’uno né l’altro potevano permettersi la sterlina settimanale che i Brooker esigevano per la pensione completa. Pagavano una piccola somma per il letto e consumavano tutti vergognosi in un angolo della cucina dei pasti a base di pancetta e pane e margarina, tolti dal fondo delle loro valigie.
I Brooker avevano un esercito di figli e figlie, gran parte dei quali se n’erano andati da un pezzo di casa. Alcuni erano in Canada, «al Canada» come soleva dire il signor Brooker. Avevano soltanto un figlio che viveva nei paraggi, un giovanottone di tipo porcino che, impiegato in un garage, veniva spesso a casa per i pasti. La moglie era presente tutto il santo giorno coi suoi due bambini e quasi tutto il bucato e la cucina erano sbrigati da lei e da Emmie, la fidanzata di un altro figlio, che lavorava a Londra. Emmie era una ragazza bionda, dal naso aguzzo e l’aria infelice, che, operaia in una delle fabbriche con un salario di fame, passava comunque tutte le sue sere in schiavitù nella famiglia Brooker. Venni a sapere che il matrimonio era continuamente rimandato e non ci sarebbe stato mai, probabilmente, ma il signor Brooker s’era già impadronito di Emmie come nuora e la rimproverava di continuo in quel particolar modo, guardingo e affettuoso, che hanno gli invalidi. Il resto delle faccende domestiche era sbrigato, o non sbrigato, dal signor Brooker. La signora Brooker ben di rado si levava dal suo sofà in cucina (vi passava anche la notte, oltre che la giornata) e si sentiva troppo male per fare qualunque cosa che non fosse la ingestione di pasti grandiosi. Era Brooker che attendeva al negozio, serviva ai pensionanti i pasti e “faceva” le camere da letto. Passava sempre con lentezza incredibile da un’odiata faccenda a un’altra. Spesso i letti erano ancora da fare alle sei del pomeriggio e in qualunque ora del giorno avevi la probabilità d’incontrare sulle scale Brooker, con un vaso da notte pieno, ch’egli stringeva in una mano, il pollice ben dentro l’orlo. La mattina, se ne stava seduto accanto al fuoco con una tinozza d’acqua sporca, sbucciando patate alla velocità di un film al rallentatore. Non ho mai visto nessuno capace di sbucciare patate con un’espressione simile di accigliato risentimento. Potevi vedere l’odio per quel “maledetto lavoro da femmina”, come lui lo chiamava, fermentargli dentro, specie di amarissima linfa. Era uno di quegli uomini che possono rimasticare i loro rancori come in un rumine.
Naturalmente, poiché me ne stavo in casa parecchio, ero venuto a sapere di tutti i guai dei Brooker, e di come ognuno li truffasse e si mostrasse ingrato con loro, e di come la bottega non rendesse e la pensione permettesse loro appena di vivere. In base al tenor di vita locale non si può dire che i Brooker se la passassero poi molto male, perché, in un modo che mi sfuggiva, Brooker stava eludendo il Means Test e riceveva un sussidio dalla P.A.C., ma il loro principale piacere consisteva nel parlare dei loro guai a chiunque avesse la pazienza di ascoltarli. La signora Brooker aveva l’abitudine di lagnarsi per ore intere d’orologio, distesa sul sofà, flaccida montagna di grasso e di autocommiserazione, ripetendo le stesse cose all’infinito. «Sembra che non vengano più clienti da noi al giorno d’oggi. Non so proprio come sia. La trippa è là sul banco che aspetta, per giorni e giorni, ed è una trippa così bella, anche! Non è duro, sopportare una cosa simile, eh?» ecc. ecc. ecc. Tutte le lamentazioni della donna finivano con quel «Non è duro, sopportare una cosa simile, eh?» come il ritornello d’una ballata. Certo, era vero che il negozio non rendeva. In tutta la bottega si respirava...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Nota biobibliografica
- La strada di Wigan Pier
- PARTE PRIMA
- PARTE SECONDA
- Copyright