Una guerra al tramonto
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Una guerra al tramonto

1944 - 1945 Dallo sbarco in Normandia alla vittoria degli Alleati in Europa

  1. 744 pagine
  2. Italian
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Una guerra al tramonto

1944 - 1945 Dallo sbarco in Normandia alla vittoria degli Alleati in Europa

Informazioni su questo libro

Mentre la pallida luce dell'alba si diffondeva sulla Manica, un corpo d'invasione composto da centotrentamila unità si apprestava a sbarcare sulle coste della Normandia. Era il 6 giugno 1944, il D-Day, «il giorno più lungo», che avrebbe cambiato il corso della seconda guerra mondiale e della storia del Novecento. «È suonata l'ora per la quale siamo nati» proclamava il «New York Times», l'ora che lasciava intravedere l'inizio della fine della Germania nazista. Ma per i soldati stivati nei mezzi da sbarco, paralizzati dal freddo e dalla paura, che a migliaia sarebbero caduti sulle spiagge presto divenute celebri di Omaha e Utah, l'assalto alla Fortezza Europa era solo all'inizio. Sarebbe trascorso un altro anno prima che nella Berlino circondata dall'Armata rossa il cadavere di Hitler bruciasse in uno squallido cortile. Un anno di combattimenti atroci, di battaglie epocali e di luoghi destinati a rimanere per sempre nella memoria e nella coscienza dell'Occidente: il porto di Cherbourg, la valle del Rodano, i boschi delle Ardenne, le lanche del Reno, la foresta di Hürtgen. La strada verso il cuore del Terzo Reich sarebbe stata ancora lunga e lastricata di incomprensioni, dissidi strategici, rivalità personali oltreché di innumerevoli vite spezzate. Un lungo cammino che avrebbe confermato, ancora una volta, che la guerra non è mai lineare, ma è un'impresa caotica, disordinata, fatta di errori e di slanci, di successi e di rovesci. Dopo Un esercito all'alba, sulla guerra in Nordafrica, e Il giorno della battaglia, sui drammatici mesi della campagna d'Italia, Rick Atkinson ripercorre la storia della liberazione dell'Europa da parte degli Alleati. Basato su documenti d'archivio e fonti di prima mano – lettere, diari, rapporti ufficiali –, Una guerra al tramonto è la narrazione intensa e drammatica di uno sforzo bellico senza precedenti per dimensioni, costi, dispiegamento di materiali, uomini, armi e tecnologie; l'affresco imponente dell'ultimo anno di guerra, in cui alle voci dei politici e dei generali – da Churchill ad Eisenhower, da Patton a Montgomery, a De Gaulle – si affiancano le testimonianze dei soldati e dei corrispondenti dal fronte: un racconto epico e corale per celebrare il coraggio e l'umiltà di quanti cercarono di dare un senso al sacrificio della loro vita.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804650782
eBook ISBN
9788852063732
Argomento
Historia

PARTE TERZA

VII

UN BATTITO D’ALI

Una città troppo piccola per una simile tragedia

La mattina di martedì 28 novembre un imponente corteo di diciannove navi da carico scivolava sulle acque grigie della Schelda sotto una pioggia scrosciante. Marinai e ansiosi corrispondenti di guerra affollavano le battagliole strizzando gli occhi alla ricerca di mine. La domenica, tre piccole navi da cabotaggio erano riuscite a giungere ad Anversa senza incidenti, ed erano state le prime navi alleate a risalire l’estuario dal 1940: tuttavia, fino a quando quel primo convoglio non attraccò senza problemi non si poté considerare realmente aperto quel porto, quasi tre mesi dopo la sua cattura. La banchina era affollata di fotografi e dignitari, fra i quali notabili belgi e delegati dello SHAEF. Mentre i rimorchiatori accompagnavano all’ormeggio il mercantile S.S. Fort Cataraqui, costruito nel Québec, una banda di ottoni suonava fragorosamente Heart of Oak, l’inno ufficiale della Royal Navy con testo di David Garrick, celebre attore e impresario del XVIII secolo:
Le nostre navi hanno il cuore di quercia, i nostri uomini sono allegri marinai,
Noi siamo sempre pronti, avanti, ragazzi, avanti!
Combatteremo e conquisteremo più e più volte.
Gli stivatori attesero l’attracco, poi si precipitarono a bordo del mercantile e delle altre navi con gru e imbracature per i carichi. Dalle diciannove stive uscì materiale bellico di ogni tipo, e non un attimo troppo presto: tre giorni prima la COMZ aveva preavvertito di ulteriori, gravi scarsità sul continente, con disponibilità di munizioni «costantemente basse» e «senza alcuna scorta di articoli come il Prestone [un antigelo], soprascarpe, sacchi a pelo, pneumatici, radio, cavi per i telefoni da campo, motori di scorta, assali, veicoli da supporto e da combattimento».
Una svista del protocollo aveva escluso gli emissari dell’esercito canadese dal comitato di ricevimento al molo. Una deplorevole offesa: la Prima Armata canadese aveva sacrificato tredicimila uomini, tra morti e feriti, per conquistare la Schelda. Il protrarsi del «combattimento nei polder» aveva richiesto l’utilizzo massiccio di lanciafiamme, combattimenti di mulino in mulino e il bombardamento delle antiche dighe olandesi per sommergere con le acque del mare del Nord i difensori tedeschi dell’isola di Walcheren. Gli assalti a Walcheren con mezzi anfibi dalla Schelda e dal mare del Nord dell’inizio di novembre ebbero il supporto di fuoco dei cannoni da 15 pollici della nave da battaglia Warspite e dei monitori Erebus e Roberts. I pipers suonavano la cornamusa, i mezzi da sbarco bordeggiavano verso l’isola arrivando da Ostenda, e i Royal Marine vennero salutati da un ragazzino con una fusciacca arancione che, in piedi sulla diga bombardata, sventolava una bandiera olandese urlando «Buongiorno! Buongiorno!». Ma solo quando il comandante tedesco, a Middelburg, venne tirato giù dal letto perché decretasse la resa degli ultimi duemila difensori, la battaglia fu dichiarata vinta: era mezzogiorno dell’8 novembre.
Con i cannoni costieri nemici finalmente ridotti al silenzio, l’operazione Calendar vide oltre duecento dragamine, divisi in quindici flottiglie, ripulire nel giro di tre settimane gli oltre cento chilometri di estuario per diciassette volte. L’equipaggio di ciascuna nave dipingeva una «V» bianca sulla ciminiera per ogni mina scoperta e distrutta. I camion da sminamento sondarono le rive paludose della Schelda mentre i sommozzatori ripulirono palmo a palmo le vaste zone intorno ai moli di Anversa, avanzando a tentoni su migliaia di metri di fondali fangosi e attraversando i bacini gelidi e torbidi. Quando, a metà novembre, non si trovarono mine per tre giorni, la Royal Navy dichiarò sicura la Schelda, salvo ritirare la dichiarazione dopo che il 22 e il 23 novembre nove esplosioni rimandarono al lavoro gli sminatori. Prima che il Fort Cataraqui potesse guidare il convoglio lungo il canale furono disinnescate 267 mine.
Nei due giorni successivi giunsero altre venti navi e, a metà dicembre, ad Anversa sarebbero state scaricate ventitremila tonnellate di materiale al giorno, la metà di tutti i carichi americani in arrivo nell’Europa occidentale, a esclusione di Marsiglia. Giorno e notte le navi entravano e uscivano dal grande porto superando file lunghissime di tozzi magazzini fra il suono delle campane, i fischi delle sirene e le urla dei gabbiani. Seimila stivatori civili e novemila portuali si accalcavano sui moli con l’aiuto di altrettanti militari. Lo scarico aveva inizio quando le prime gomenette venivano lanciate in direzione delle mani che le attendevano sulla banchina e, di solito, tredici ore dopo l’ultima rete da carico si sollevava sopra l’ultima stiva prima che la nave vuota facesse nuovamente rotta verso il mare aperto. Oltre a più di 200 punti di ormeggio e 600 gru, Anversa poteva vantare la più fitta rete ferroviaria europea con 30 chilometri di rotaie ogni 2,5 chilometri quadrati; anche in queste condizioni, per la carenza di materiale rotabile e i calcoli errati della COMZ, nel giro di quindici giorni 85 mila tonnellate di materiale erano impilate sotto i teloni impermeabili e nei capannoni dietro i moli, in attesa di altri carri merci e della costruzione di depositi a Lille, Mons e altrove. Una dozzina di navi cariche di munizioni avrebbe dovuto far parte dei primi convogli, ma il timore che un’esplosione accidentale o una V-1 potesse distruggere il porto in maniera più devastante di qualsiasi sabotatore nemico, fece tardare il loro arrivo fino a quando poterono dirigersi verso ormeggi isolati in un angolo lontano dello scalo.
Quell’autunno le esplosioni erano già diventate la norma ad Anversa, ed erano iniziate quando, il 7 ottobre, il primo razzo V-2 aveva colpito la città, seguito quattro giorni dopo dalla prima bomba volante V-1. Il 13 ottobre colpirono sia le V-1 sia i V-2 danneggiando i dipinti del Museo delle Belle Arti e uccidendo o ferendo oltre venti operai nel macello municipale. (L’intelligence britannica riferì: «Oggi ad Anversa è caduto qualcosa di bestiale».) In seguito fu distrutto un orfanotrofio che serviva anche da ospedale, dove rimasero uccise trentadue persone, fra cui un’équipe chirurgica e molti orfani rimasti schiacciati dal crollo di un muro. Il 27 novembre, a poche ore dal passaggio del primo convoglio sulla Schelda, un razzo V-2 scoppiò in Teniersplaats mentre una colonna militare stava attraversando l’incrocio: uccise centocinquantasette persone e provocò la rottura della rete idrica, creando una sorta di lago artificiale nel centro cittadino, dove galleggiarono membra umane e borsette da donna; il torace di un poliziotto fu ritrovato su un tetto a duecento metri dal luogo dell’esplosione.
Anversa, che sorge appena sopra il livello del mare, non aveva gallerie sotterranee e cantine profonde dove trovare rifugio; i militari la chiamavano la «città della morte improvvisa». Sedicimila uomini assegnati al porto erano stati alloggiati in palazzi di appartamenti costruiti in mattoni, ma gli attacchi li obbligarono a trasferirsi in tendopoli dislocate fuori città. I genieri dell’esercito seguirono lezioni di primo soccorso su come estrarre i sopravvissuti dagli edifici crollati. I vetri per finestre divennero sempre più scarsi, così com’era avvenuto a Londra. Una V-1 colpì un bagno pubblico, schiacciando parecchi uomini sotto pesanti orinatoi di porcellana, e si videro i passanti scrollarsi i detriti dalle pellicce dopo un’esplosione nel distretto a luci rosse. La distruzione di un negozio di fragranze profumò l’aria per giorni, «un odore pesante, incongruo, indesiderato», riferì il periodico militare «Yank». Il rinato teatro dell’opera mise coraggiosamente in scena La Bohème, poi la Carmen; un ufficiale di marina raccontò che, durante una rappresentazione, si sentì il rombo di una V-1 sopra la testa, «mentre il cast continuava a cantare, e nessuno si alzò dai propri posti nel teatro strapieno».
Da tempo Hitler aveva riconosciuto il valore strategico di Anversa e, a metà ottobre, aveva ordinato di concentrare tutti i V-2 esclusivamente sul porto della città oppure su Londra. Nel giro di sei mesi le squadre tedesche avrebbero lanciato su Anversa 1712 V-2 e 4248 V-1: di norma oltre trenta al giorno, ma a volte quel numero veniva quadruplicato. In città, sessantasettemila edifici sarebbero stati danneggiati o distrutti, compresi i due terzi di tutte le case; due navi da carico e cinquantotto imbarcazioni più piccole sarebbero state affondate. Malgrado gli attacchi a linee ferroviarie, strade, moli e gru, la fortuna e l’imprecisione delle armi di rappresaglia lasciarono in gran parte indenni le operazioni portuali. Altrettanto importante fu l’enorme sforzo difensivo degli Alleati, che coinvolse ventiduemila artiglieri della contraerea segretamente organizzati in un’unità chiamata «Antwerp X». Tre cinture difensive parallele a sudest della città, distanti più o meno dieci chilometri una dall’altra, misero in campo seicento cannoni che martellavano ventiquattr’ore al giorno, mentre gli Stati Uniti spedivano al bisogno nuove canne per i cannoni e scorte di munizioni. Settantadue riflettori e diecimila chilometri di nuovi fili per telefono rafforzarono il sistema di allarme della città, e oltre tre milioni di sacchi di sabbia aiutarono a proteggere Anversa dalle esplosioni.
Nel mese di dicembre, all’improvviso, le squadre tedesche delle V-1 aprirono un nuovo fronte di attacco da nordest, portando il preallarme da otto minuti a meno di quattro. Talvolta giungevano simultaneamente su Anversa anche otto bombe volanti, come riferisce uno studio americano, con «il caratteristico rombo del motore in volo, la scia di fiamme che si lasciava dietro, lo spegnimento improvviso del motore, la discesa silenziosa e la violenta detonazione». Eppure gli agili artiglieri si rivelarono efficienti: secondo un calcolo, 211 V-1 sarebbero cadute nel raggio di dodici chilometri dal centro di Anversa, mentre altre 2200 vennero distrutte a mezz’aria o caddero in spazi aperti. Centinaia di altre volarono più lontano, non si sollevarono dalla rampa di lancio o fecero cilecca in altro modo.
I V-2, naturalmente, erano tutt’altra cosa, oltre a essere invulnerabili alle difese alleate. «L’angelo della morte si aggira sulla terra» disse Churchill del razzo. «Semplicemente non si riesce a sentirne il battito delle ali.»
Il 15 dicembre, al cinema Rex, sull’affollata Avenue de Keyser, quasi milleduecento posti erano occupati per la matinée del venerdì pomeriggio. Durante l’occupazione venivano proiettati solo film tedeschi, e dopo la liberazione di Anversa, all’inizio di settembre, i cinefili belgi non vedevano l’ora di recuperare gli anni di pellicole americane e inglesi che mancavano dall’inizio della guerra. La carenza di materia prima per i film – la cellulosa era anche un ingrediente della polvere da sparo – non aveva impedito a Hollywood di produrre milletrecento film nei tre anni precedenti. Oltre un quarto di questi erano film di guerra, ma quel giorno il Rex, che occupava un vecchio pub di proprietà del Partito socialista belga, presentava un classico western: La conquista del West, un melodramma di Cecil B. DeMille con Gary Cooper nella parte di Wild Bill Hickok e Jean Arthur in quella di Calamity Jane. Come storia della frontiera americana il film era mediocre – in 113 minuti DeMille era riuscito a presentare sullo schermo Abraham Lincoln, Buffalo Bill Cody, il generale George Armstrong Custer e un capo cheyenne, Mano Gialla –, ma il pubblico sembrava rapito.
Alle 15.20, nel momento in cui Gary Cooper aveva appena saputo della morte di Custer a Little Big Horn, un’intensa luce bianca balenò nell’auditorium quando un V-2, non sentito né avvistato, lanciato da un nuovo sito in Olanda, attraversò il tetto. La testata da una tonnellata esplose nel mezzanino con un boato che venne udito sulla Schelda, «vomitando l’interno» del cinema, come riferì un testimone. In un attimo l’enorme schermo cadde in avanti e la balconata e il soffitto precipitarono sugli spettatori seduti in platea.
Duecento soccorritori si affannarono per una settimana con gru, bulldozer e torce ad acetilene. Una squadra riuscì a liberare un soldato che era rimasto intrappolato per ore. Lo «Yank» riferì:
Quando uscì incespicando, aveva fra le braccia due bambini morti. Un volontario della Croce rossa cercò di portarglieli via, ma lui rifiutò recisamente ... Era seduto vicino alla madre che era stata decapitata nell’esplosione ... La città è troppo piccola per una tragedia di queste proporzioni.
Le squadre di salvataggio riuscirono infine a recuperare 567 corpi: oltre la metà erano soldati alleati, artiglieri della marina e marinai di mercantili. Quattro erano prigionieri tedeschi rilasciati sulla parola per il pomeriggio. Altri duecento militari furono gravemente feriti. Tra le vittime belghe, mariti, mogli e figli fusi insieme dall’esplosione. I soccorritori trovarono una ragazza morta in balconata e, come scrisse un giornalista dello «Yank», «con un mezzo sorriso, il trucco e il rossetto intatti. Accanto a lei una fila di soldati con lo sguardo fisso in avanti, come se stessero ancora guardando il film». Lo zoo cittadino si trasformò in obitorio, ma il puzzo dentro il Rex divenne così terribile da costringere le squadre di decontaminazione chimica a spruzzare i corpi ancora intrappolati fra le macerie prima che gli altri potessero riprendere il lavoro.
I morti non avevano fatto a tempo a vedere l’ultima bobina di pellicola, e non videro mai Wild Bill colpito alla schiena mentre giocava a carte a Deadwood e una disperata Calamity Jane cullare il suo corpo alla fine del film. I funzionari cittadini chiusero immediatamente tutti i cinema e i teatri a tempo indeterminato. Carmen non avrebbe cantato ad Anversa fino a quando non fosse tornata la pace e l’angelo della morte non si fosse più aggirato sulla terra.

«La fede in un universo amico»

Nonostante il duro lavoro nella foresta di Hürtgen, Omar Bradley riacquistò l’ottimismo e assicurò ai suoi luogotenenti che l’operazione Queen – il 12° gruppo d’assalto dell’esercito creato per disturbare le difese nemiche a est e a nord di Aquisgrana – sarebbe stata «l’ultima, grande offensiva necessaria a mettere in ginocchio la Germania». Bradley faceva la spola fra la Città di Lussemburgo e Spa, consolidando le divisioni, incoraggiando i comandanti ed esaminando attentamente le previsioni del tempo. A suo parere un affondo vittorioso attraverso le linee tedesche fino a Düren avrebbe potuto portarli oltre il fiume Rur per altri quaranta chilometri verso il Reno ripetendo la controffensiva da St.-Lô verso la Senna.
Subito dopo mezzogiorno del 16 novembre, duemilaquattrocento bombardieri pesanti scaricarono diecimila tonnellate di alto esplosivo e bombe incendiarie su obiettivi nei pressi di Aquisgrana. La quantità di zolfo fu tale che un tedesco, arrendendosi, confessò: «Mi fa molto piacere essere catturato». Poi fiammate bianche eruttarono dalle milleduecento bocche d’artiglieria lungo tutto il fronte, e decine di migliaia di proiettili detonarono sugli obiettivi «come fiori gialli che scoppiano su una carta da parati grigia», scrisse il corrispondente W.C. Heinz. Pannelli color arancio fosforescente drappeggiati sugli Sherman che avanzavano li identificavano come amici per i bombardieri che volavano numerosi sopra di loro, e i battaglioni d’assalto della fanteria avanzarono nuovamente verso est in direzione del fiume Rur correndo piegati e cercando di farsi piccoli. Il rumore degli spari divenne generale e si dice che i soldati avessero «tutti la stessa espressione perché erano totalmente privi di espressione». In alcuni settori i proiettori da 60 pollici, ciascuno di essi un piccolo sole con ottocento milioni di candele, indicavano il percorso attraverso le tenebre autunnali, illuminando campi minati e difensori abbagliati.
Il nemico rafforzò le trincee. Nel VII corpo di Collins, che conduceva la Prima Armata sulla destra con nove reggimenti di fanteria d’assalto e un commando d’assalto di blindati, alcune compagnie riuscirono a percorrere solo ottocento metri prima del crepuscolo. I carri armati ebbero un effetto modesto sul corridoio Stolberg, ma ne pagarono il prezzo: quarantaquattro dei sessantaquattro Sherman in testa alla formazione di attacco. In quattro giorni, la 1ª divisione sarebbe avanzata per poco più di tre chilometri perdendo un migliaio di uomini: i successivi tre chilometri sarebbero costati altre tremila vittime. La 104ª divisione al comando del generale Terry de la Mesa Allen, che aveva guidato la vicina 1ª divisione, la «Big Red One», in Africa e in Sicilia, aggirò la città di Eschweiler, dove il cibo ancora caldo e le candele ancora accese indicavano la precipitosa fuga del nemico. Una settimana dopo il generale Hodges era ancora lontano diversi chilometri dalla Rur e la battaglia si era ridotta a un «combattimento di casa in casa volto a uccidere». Nemmeno la Nona Armata sulla sinistra riuscì a fare di meglio attaccando la mezzaluna fangosa e infestata di mine tra i fiumi Würm e Rur, dove cinquanta villaggi in pietra erano stati convertiti in cittadelle della Wehrmacht. Il 22 novembre il XIX corpo era avanzato di cinque o sei chilometri combattendo non solo contro le legioni di Model, ma anche contro fango, disperazione e decine di tipi diversi di mine.
Trenta giorni ha novembre, ma quel novembre ne ebbe solo due senza pioggia o neve. Le precipitazioni furono il triplo della media del mese. La pioggia ingrigiva i soldati, così com’era avvenuto in Italia, fondendoli con il fango fin quando sembravano nient’altro che argilla con gli occhi, sgradevoli alla vista quanto i campi di barbabietole e cavolfiori nei quali combattevano. Le radio e i rilevatori di mine andarono in corto circuito, i camion s’impantanarono fino ai paraurti e il fango ghiacciato rese insopportabilmente ingombranti i cappotti di lana. «Gli uomini furono obbligati ad abbandonare i cappotti perché non avevano più la forza di indossarli» fece rilevare un ufficiale dello stato maggiore. «Hanno le mani insensibili al punto di doversi aiutare fra loro con l’equipaggiamento.» I fucilieri annodarono dei fazzoletti intorno ai grilletti e agli otturatori dei loro M-1 nel futile tentativo di tenerli puliti; e coprirono le canne con i preservativi o la carta paraffinata dei cracker delle razioni. I fornitori di armi e i fabbricanti francesi realizzarono un milione o più di duck bills, costole in acciaio larghe tredici centimetri da saldare sui cingoli dei carri armati per allargare i punti di appoggio e dare loro una trazione migliore nel fango. Un solo Sherman poteva montarne anche trecento e restare comunque i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LEGENDA DELLE CARTINE
  4. UNA GUERRA AL TRAMONTO
  5. Prologo
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Parte terza
  9. Parte quarta
  10. Epilogo
  11. Bibliografia
  12. Ringraziamenti
  13. Inserto fotografico
  14. Copyright