Joan Ashby uscì dalla sua stanza e si soffermò un attimo sul pianerottolo, davanti alla porta. Stava voltandosi, come per tornare dentro, quando udì suonare il gong al piano di sotto.
Si affrettò così precipitosamente che in cima alla scalinata andò a sbattere contro un giovane che veniva dalla direzione opposta.
«Ciao, Joan! Perché tanta fretta?»
«Scusami, Harry. Non ti avevo visto.»
«Ovvio» replicò seccamente Harry Dalehouse. «Ma, come stavo dicendo, perché tanta fretta?»
«È suonato il gong.»
«Sì, ma è solo la prima volta.»
«No, la seconda.»
«La prima.»
«La seconda.»
Continuarono a discutere mentre scendevano le scale. Nell’atrio il maggiordomo, riposto il martelletto del gong, avanzava verso di loro con passo lento e solenne.
«Era la seconda volta» insistette Joan. «Ne sono certa. Vedi che ore sono?»
Harry Dalehouse diede un’occhiata alla pendola.
«Sono le otto e dodici minuti» disse. «Credo che tu abbia ragione, Joan, ma la prima volta non l’ho sentito suonare. Digby,» continuò rivolto al maggiordomo «il gong è suonato una volta o due?»
«Una volta sola, signore.»
«Alle otto e dodici? Digby, qualcuno verrà licenziato per questo.»
Per un attimo sulle labbra del maggiordomo spuntò un debole sorriso.
«Stasera la cena verrà servita dieci minuti più tardi, signore. Ordine del padrone.»
«Incredibile!» esclamò Harry. «Ahi ahi! Per come la vedo io, qua le cose si mettono male. Le sorprese non finiscono mai. Cosa può aver trattenuto il mio riverito zio?»
«Il treno delle diciannove, signore, aveva mezz’ora di ritardo, perciò…» Si udì un suono simile a uno schiocco di frusta e il maggiordomo tacque di colpo.
«Cos’è successo?» disse Harry. «Sembrava uno sparo.»
Un bell’uomo bruno, sui trentacinque anni, sbucò dal salotto alla loro sinistra.
«Che cos’è stato?» domandò. «Sembrava proprio uno sparo.»
«Probabilmente il ritorno di fiamma di un motore, signore» rispose il maggiordomo. «La strada corre vicino alla casa, da questo lato, e le finestre del piano di sopra sono aperte.»
«Può darsi,» commentò Joan con aria scettica «ma il rumore non proveniva da lì.» E indicò a destra. «Veniva da lì» precisò, indicando un punto a sinistra.
Il nuovo arrivato scosse la testa.
«Non credo proprio. Io ero in salotto. Sono uscito perché mi sembrava che il rumore venisse da qui.» Indicò con la testa la direzione del gong e della porta d’ingresso.
«Est, ovest e sud, eh?» disse Harry, incontenibile. «Allora, Keene, io dico nord per completare l’opera. Secondo me il rumore proveniva da dietro. Cosa può essere stato?»
«Forse un omicidio» ipotizzò Geoffrey Keene con un sorriso. «Vi chiedo scusa, signorina Ashby.»
«È stato solo un brivido» replicò Joan. «Dev’essere passata la morte, almeno così si dice.»
«L’idea dell’omicidio potrebbe essere giusta,» osservò Harry «ma andiamo, nessun gemito, niente sangue. Forse era soltanto un cacciatore di frodo che sparava a una lepre.»
«Mi sembra improbabile, ma forse è proprio così» convenne l’altro. «Però il botto sembrava vicinissimo. Comunque sia, accomodiamoci in salotto.»
«Meno male che non siamo in ritardo» disse Joan con fervore. «Mi sono precipitata giù per le scale credendo che fosse il secondo gong.»
Risero tutti e andarono nel salotto.
Lytcham Close era una delle antiche dimore più famose d’Inghilterra. Il proprietario, Hubert Lytcham Roche, era l’ultimo discendente di una lunga dinastia, e i suoi lontani parenti dicevano di lui: «Il vecchio Hubert dovrebbe essere internato. È completamente folle, pazzo da legare».
Al di là della naturale esagerazione di amici e parenti, l’affermazione non era priva di fondamento. Hubert Lytcham Roche era sicuramente un eccentrico. Eccellente musicista, aveva però un carattere impossibile e un’altissima considerazione di sé. Tutti i suoi ospiti dovevano adeguarsi alle sue manie, altrimenti non sarebbero stati invitati una seconda volta.
Una delle sue fissazioni era la musica. Se suonava qualcosa per gli ospiti, come capitava spesso la sera, tutti dovevano stare in religioso silenzio. Bastava un bisbiglio, il fruscio di un abito, un movimento appena percettibile perché lui si voltasse imbestialito, e addio alla speranza del malcapitato ospite di essere invitato un’altra volta.
Un’altra delle sue manie era l’assoluta puntualità a cena. La prima colazione non era importante. Si poteva scendere anche a mezzogiorno, se si voleva. Stessa cosa per il pranzo, che consisteva in un piatto di carne fredda e frutta cotta. La cena invece era un rito, quasi una festa, preparata da un cordon bleu di un grande albergo che Lytcham Roche era riuscito ad accaparrarsi in cambio di uno stipendio favoloso.
Un primo gong suonava alle otto e cinque. Alle otto e un quarto di udiva un secondo gong, subito si spalancavano le porte, veniva annunciato che la cena era servita e gli ospiti si dirigevano in corteo verso la sala da pranzo. Chiunque avesse la temerarietà di arrivare in ritardo al suono del secondo gong veniva scomunicato all’istante e non avrebbe mai più potuto metter piede a Lytcham Close.
Questo spiegava il nervosismo di Joan Ashby e lo stupore di Harry Dalehouse nell’apprendere che quella sera la solenne funzione sarebbe stata rimandata di dieci minuti. Benché non fosse in grande confidenza con lo zio, era stato ospite a Lytcham Close abbastanza spesso per sapere che quello era un evento eccezionale.
Anche Geoffrey Keene, il segretario di Lytcham Roche, era sbigottito.
«Incredibile» commentò. «Non è mai accaduta una cosa del genere. Siete sicuri?»
«L’ha detto Digby.»
«Pare che il treno sia in ritardo» soggiunse Joan. «O almeno così mi pare di aver capito.»
«Stranissimo» disse Keene pensieroso. «Tra poco sapremo come stanno le cose, suppongo. Comunque è davvero singolare.»
I due uomini rimasero un momento in silenzio, guardando la giovane donna. Joan Ashby era una ragazza incantevole, con gli occhi azzurri, i capelli biondi e un sorriso malizioso. Era la prima volta che veniva a Lytcham Close su invito di Harry.
La porta si aprì e Diana Cleves, figlia adottiva dei Lytcham Roche, entrò nella stanza.
Dotata di una grazia audace, Diana aveva una luce maligna negli occhi scuri e la lingua tagliente. Quasi tutti gli uomini ne restavano affascinati e lei gioiva delle proprie conquiste. Era una strana creatura, che sembrava piena di calore ed era invece di una freddezza assoluta.
«Per una volta batto il Vecchio sul tempo» esordì. «Non mi capitava da settimane. Di solito lo trovo già qui che guarda l’orologio e cammina avanti e indietro, irrequieto come una tigre all’ora del pasto.»
I due giovani si precipitarono verso di lei. Diana donò a entrambi un sorriso radioso, poi si rivolse a Harry. Geoffrey Keene arrossì e fece un passo indietro.
Tuttavia si riprese subito, vedendo entrare la signora Lytcham Roche. Alta e bruna, con l’aria perennemente trasognata, indossava un abito fluttuante di un verde indefinito. Al suo fianco c’era Gregory Barling, un uomo di mezza età dal naso adunco e il mento risoluto. Era un personaggio di spicco nel mondo della finanza, di buona famiglia per parte di madre, e da diversi anni intimo amico di Hubert Lytcham Roche.
Gong!
Il gong suonò per la seconda volta, imponente. L’eco non si era ancora spenta quando la porta si aprì e Digby annunciò:
«La cena è servita.»
Poi, pur essendo un maggiordomo inappuntabile, un’espressione sbigottita comparve sul suo volto impassibile. A quanto ricordava, non era mai accaduto che il padrone fosse in ritardo.
Gli altri non erano meno stupiti di lui. La signora Lytcham Roche rise nervosamente.
«È incredibile» commentò. «Non so come regolarmi.»
Tutti erano sconcertati, essendo la prima volta che la tradizione di Lytcham Close non veniva rispettata. Cosa poteva essere accaduto? La conversazione si interruppe in un generale senso d’attesa.
Quando la porta si aprì di nuovo, si levò un sospiro di sollievo, seppure attenuato da una certa ansia per come affrontare la situazione. Bisognava guardarsi bene dal sottolineare il fatto che proprio l’osp...