«Professò, perché non vi ascoltate a Emis Killa?» domanda Rotunno, interrompendo la mia lettura di Madame Bovary. Dopo aver trascorso l’ultima mezz’ora con la fronte appiccicata al banco, si è appena svegliato e mi osserva con un’espressione stolida, gli occhi abbagliati dal sole che penetra dalla finestra come una spada laser.
Non che il resto della classe sia molto più attento: a parte Cecere, la secchiona del primo banco che prende appunti anche quando tossisco, il mio pubblico ha lo stesso sguardo esuberante di una mandria di lama. Devo stare attento che non mi sputino addosso, visto che qualcuno mastica gomme con uguale energia.
Né posso dargli torto: è una giornata splendida, di quelle che i pittori trasformano in acquerelli romantici, e stare chiusi a scuola a sentire i travagli di Emma Bovary non è tra le cose più divertenti del mondo. Anch’io osservo l’orologio da diversi minuti, a ogni punto, a ogni virgola, a ogni palpito di Rodolphe, e non vedo l’ora di essere fuori, di inforcare la mia bicicletta elettrica per tornare a casa.
La campanella interrompe me, Rotunno, quelli che giocano col cellulare e quelli che incidono i banchi per i posteri. Il risveglio è miracolosamente rapido: poco fa avevo davanti l’armata dei morti viventi, adesso schizzano come proiettili. Ridono e scherzano, infilano gli zaini, fanno a gara a chi esce per primo, neanche fossero topi in fuga da una nave che affonda.
«Ascoltati a Emis Killa, professò» mi ripete Rotunno prima di andare.
«Tutta la discografia ascolto, se tu leggi Madame Bovary.»
«Magari ci mettiamo d’accordo, eh?» esclama lui con un tono della serie “non lo leggo manco morto, ma tu continua a sperare”.
«Intanto preparami un bel saggio sul rapporto tra Emma e suo marito, così cominci a farti un’idea.»
«Eh no, professò. Già mi riesce difficile capire che cacchio di rapporto c’è tra mio padre e mia madre: che ne so io di quelli che manco mi sono parenti? E poi devo studiare scienze per la verifica.»
«Anche questo a suo modo è un compito di scienze, un esperimento. Rotunno che scrive qualcosa su Flaubert. Sa di passaggio fondamentale, tipo la scoperta della penicillina. Non trovi?»
Rotunno mette su il broncio mentre i suoi compagni rimasti ad aspettarlo ridacchiano. Abbandonano l’aula ammazzandosi di gomitate e spinte che abbatterebbero una quercia secolare. Sorrido e chiudo il libro, mentre il corridoio si riempie di voci e di passi.
Mi giro verso la finestra e osservo il cortile: lungo una distesa di larghe mattonelle di cemento c’è un unico albero, una palma sottile. Gioca con le rondini, le sue fronde parlano al vento. Mi piacerebbe regalarne una ad Anna, magari una palma bonsai. O un albero bambino da piantare nella terra viva e vederlo crescere.
Una punta di malinconia mi assale mentre inseguo i miei pensieri, ma subito la scaccio, come si fa con le mosche. È una giornata da film, ho un mezzo di trasporto degno di Easy Rider, e non voglio attirare nuvole temporalesche per colpa di un rimpianto.
In cortile gli studenti giocano a pallone, si baciano lungo i muretti, ridono per la libertà conquistata. Qualcuno non riesce a scollarsi dal proprio telefonino, una ragazza si fotografa atteggiandosi ad Angelina Jolie, un’altra immortala il cielo. Non qualcosa in cielo – un uccello, una nuvola, un aereo – ma un semplice scorcio nudo color lapislazzuli.
Mi avvio verso l’uscita con la bicicletta e il caschetto giallo melone, e vedo Paolo che mette su la solita scena. Finge di interessarsi a ciò che dice Giovanna, la professoressa di scienze, per poterle guardare il culo da vicino quando si volta.
Paolo è un mio ex studente diventato insegnante di ginnastica. Non l’ho mai visto con addosso qualcosa di diverso da una tuta, preferibilmente blu e con una profusione di strisce argentate. In cuor mio l’ho ribattezzato Tutaman. È un ragazzo scanzonato, simpatico, buono come il pane quando il pane è buono davvero. Mi prende spesso in giro, mi considera una cariatide dalle idee stagionate ma ha per me un affetto sincero.
Mentre Giovanna si allontana e, come da copione, lo sguardo di Paolo punta dritto al suo sedere, gli dico con tono finto languido: «Quanto è dolce, vero? Si vede che tra voi c’è un’affinità mistica».
«Sì, molto mistica» conferma lui, continuando a fissarla. «Quando le guardo il culo ho le visioni.»
«Non voglio sapere che tipo di visioni.»
Paolo emette un sospiro di frustrazione.
«Ce l’hai presente quel modo di dire? Sarai regina o sarai re, ma quando ti siedi sulla tazza sei proprio come me?»
«No. Ammetto che mi mancava. Mea culpa. Per colpa di Flaubert mi sono perso ste perle.»
«Era per dire che non sembra possibile che con quel po’ po’ di... insomma con quell’opera d’arte naturale, alla fin fine faccia la cacca come noi poveri mortali.»
«Sei sempre più raffinato. Perché non provi a scriverle un biglietto con queste belle parole? Le donne amano i poeti.»
Paolo alza le spalle, ridendo.
«Anche se Giovanna mi piace, e parecchio, sono più pratico come guardatore di culi che come poeta.»
«Tutti diventiamo poeti, quando l’amore ci colpisce. La poesia non ha a che fare con una cultura particolare, con la padronanza della metrica o uno spirito ascetico. Cose di cui, in effetti, sei scarsino. La poesia ha a che fare coi battiti del cuore, con ciò che sentiamo dentro quando vediamo la donna amata e...»
«Ad Anna scrivi le poesie, tu?» mi interrompe, osservandomi con un sorrisetto provocatore, molto simile a quello col quale, poco fa, Rotunno mi ha invitato a farmi una cultura rap.
Arrossisco mio malgrado. Gliene ho scritte, sì. Non molte... qualcuna. In stile Bacio Perugina, “Vergognati di esistere e guardati una puntata di South Park”, ma gliele ho scritte. Amo Anna. Ci conosciamo da sette anni e conviviamo da tre. Fa l’avvocato civilista, ha trentasei anni ed è la mia anima gemella. Non perché siamo uguali, anzi. Ci separano un miliardo di gradini: tanto per cominciare lei è bellissima, alta, bionda ed elegante come una Barbie ballerina. Io posso definirmi a stento un tipo, ho un viso asimmetrico, un naso enorme e lo stesso fisico sostanzioso del rugbista Castrogiovanni. Ho uno spirito sentimentale, sono più napoletano di lei che, pragmatica e introversa com’è, sembra più milanese di me. Io adoro il calcio e lei, piuttosto che seguire una partita, preferirebbe fare un bagno in una vasca piena di puzzole inferocite. Io amo leggere di tutto, sia alta letteratura sia storie di emozioni piccole e mediocri, per scoprire dove va a finire il cuore della gente, di tutta la gente. Anna tollera solo gli ultimi best seller alla moda e qualche biografia di donne di successo, ma non tipe alla Keira Knightley o Rita Levi Montalcini, no: soprattutto imprenditrici che sorridono dalle copertine con occhi da faine onnivore e un pelino stronze. A entrambi piace il cinema, ma lei ha posto un veto: niente film in cui ci sono tipe che muoiono di cancro e tipi che si struggono a calde lacrime, o viceversa. A maggior ragione se cantano il loro dolore ogni tre per due. Io invece vado matto per i musical drammatici.
Ma ci compensiamo, colmiamo i nostri reciproci spazi. Io le regalo fiori e risate e lei mi contraccambia con l’equilibrio, il buonsenso e i giusti consigli per abbinare giacche e pantaloni senza sembrare un clown. È la storia più importante della mia vita: per uno che non è nato ieri, e neanche avantieri, è una pietra miliare. È rimasta con me anche dopo che i medici...
«Scrivimela tu, allora.» Paolo spezza il filo dei miei ricordi, ed è meglio, perché la malinconia stava di nuovo per farmi la festa. «Una bella poesia in rima sul deretano alla Jennifer Lopez della professoressa Gargiulo. Pensi di riuscire a trovare una parola che fa rima con scienze? A parte scemenze, intendo.»
Sto per rispondergli quando, dal gruppetto di studenti che giocano a calcio, giunge un regalo inaspettato. Il pallone cambia traiettoria e invece di finire nella porta improvvisata – fra un motorino con la frase “seiunafigadapaura” scritta con un pennarello fucsia sulla ruota posteriore, e un cestino della spazzatura vuoto, perché, si sa, le cicche delle sigarette fanno pendant col marciapiede – usa la mia testa come bersaglio. Considerato che non ho nemmeno la protezione d’una chioma folta, essendo calvo praticamente da sempre, e che a tirare è stato Lamantia, che vorrebbe fare il calciatore e gli piace mostrare quanto è bravo, il dolore è simile a quello che proverei se mi avessero lanciato con un cannone contro un muro. Per un istante mi si confondono i pensieri, non solo quelli di oggi: quelli degli ultimi quarantasette anni.
Il detto “Stai per morire e ti passa davanti la tua vita” è quanto di più vero. Mi sta capitando la stessa cosa, anche se non sto per morire. O almeno spero. È come se la mia testa fosse un caleidoscopio pieno di minuscoli frammenti di vetro. Ho le scintille negli occhi. Le strida delle rondini sembrano unghie sulla lavagna. Sento confusamente la mia voce che urla qualcosa di severo ai ragazzi.
Poi il girotondo si ferma, le scintille si smorzano e il frastuono tace. Paolo blocca il pallone e lo ricalcia. Centra il bidone della spazzatura, con un’agilità che dimostra quanto abbia fatto bene a diventare un professore di educazione fisica invece dell’ennesimo laureato in lettere. Ci scherziamo spesso, su questo fatto: che, a furia di tormentarlo con le mie lezioni all’insegna di Leopardi e Quasimodo, si è rotto talmente che ha preferito iscriversi all’Isef.
«Guido, ti senti bene?» mi domanda, guardandomi con aria strana. «Parevi nu mezzo morto.»
«Sto bene, non so come mi chiamo, ma sto bene» dico con tono scherzoso, massaggiandomi la nuca.
«Tu fai lo scemo, ma avevi gli occhi storti. Andiamo al pronto soccorso?»
«Per una pallonata in testa?»
«E che ne so, sei anziano, capace che una pallonata ti uccide.»
Indosso il caschetto e lo invito ad andare a cagare. E subito dopo lo invito a pranzo a casa mia. Abbiamo un rapporto così: ci spediamo affanculo e ci stringiamo la mano. La nostra amicizia è una sorta di commedia dell’arte, nella quale improvvisiamo insulti e sfottò conditi da un affetto solido come la pietra.
«Solo se si mangia roba buona» afferma, facendo una smorfia. «Non per essere offensivo, ma l’ultima volta la pasta era scotta e...»
«Vieni per la pasta o per la simpatia?»
«Vengo per la pasta! Tu sei troppo milanese, la simpatia manco sai dove sta di casa. E nemmeno la pasta, in effetti. E pure il caffè era nu piscio.»
«Insomma, vieni?»
«Vabbè, ti do un’ultima chance. Se mi avveleni pure stavolta, non mi vedi più.»
Sollevo il dito medio mentre faccio partire il mio destriero elettrico.
Percorro Napoli sfrecciando sulla bicicletta. Amo muovermi in bici, col bello e il cattivo tempo. Abitando al Vomero, però, la mia vecchia due ruote ha bisogno di aiuto: per percorrerne le salite collinari usando solo la forza dei polpacci dovrei essere la reincarnazione di Fausto Coppi.
Bevo con gli occhi la bellezza di questa città, nella quale vivo da diversi anni. Napoli non suscita sentimenti sfumati e intermedi: o è dentro di te oppure ne rimane fuori. Io le appartengo, e lei mi appartiene. Mi sono affezionato alle sue strade, alla sua gente, ai suoi modi e, per quanto in molti continuino a chiamarmi “’o milanese”, ormai siamo amanti.
Mi fermo al solito chiosco. È un rito. Ogni venerdì, prima di tornare a casa, compro dei fiori per Anna. Tulipani. Margherite. Rododendri. Una volta le ho portato dei fiori strani, di cui non conoscevo il nome, e lei ha detto che le ricordavano gli scopini dei wc.
La fioraia somiglia a un mughetto. È piccola, rotonda e indossa una divisa da lavoro tutta bianca. Suo marito ha l’aspetto di...