Il contrario della solitudine
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Il contrario della solitudine

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Il contrario della solitudine

Informazioni su questo libro

Nel maggio del 2012, solo cinque giorni dopo essersi laureata alla Yale University con il massimo dei voti, Marina Keegan muore in un incidente automobilistico nei pressi di Cape Code. Studentessa brillante, allieva di Harold Bloom, animatrice di «Occupy Yale», in attesa di uno stage al «New Yorker», all'età di ventidue anni era considerata dalla critica una delle voci più promettenti della letteratura americana. Quando la sua famiglia pubblica sul web il suo ultimo scritto, Il contrario della solitudine, che dà il titolo a questa raccolta di saggi e racconti brevi, oltre un milione e mezzo di persone in tutto il mondo scopre nel giro di pochissime ore il suo straordinario talento. «Siamo così giovani. Siamo così giovani. Abbiamo ventidue anni. Abbiamo un sacco di tempo» scriveva. La giovinezza e il tempo, non il tempo che passa, ma il tempo che deve ancora arrivare, come un premio tanto ambito e tuttavia temuto, costituiscono il tema principale dei racconti di Marina Keegan, la sua cifra stilistica, ciò che ha fatto di lei l'icona di un'intera generazione. L'essere giovani e trovarsi di fronte all'orizzonte cangiante delle attese e delle opportunità: l'opportunità di cambiare vita, lavoro, di prendere decisioni importanti, di compiere un salto verso l'ignoto, di uscire dal guscio confortevole e protettivo della famiglia, del campus universitario, degli amici. Di vincere la paura, soprattutto. La paura di cadere, di non sapere che cosa ci aspetta alla fine della corsa, di vedere i propri sogni andare in frantumi. Con la sua prosa matura, complessa e raffinata Marina Keegan scrive della sua età, parla di erba da fumare, di zuppe tailandesi scaldate al microonde, di ritorni a casa per le vacanze di Natale, di canzoni ascoltate a tutto volume nei seminterrati il sabato sera, di un universo fatto di oggetti ordinari che si accumulano giorno dopo giorno sul sedile posteriore della macchina come tappe di un viaggio non ancora concluso. Ma scrive anche degli orrori della guerra in Iraq, di padri delusi e sconfitti, di matrimoni che a poco a poco si spengono nel grigiore quotidiano, della vulnerabilità di chi si affaccia alla vita adulta e ne intuisce le pieghe più squallide o dolorose. E soprattutto, come una tragica premonizione, parla della presenza improvvisa della morte. Marina Keegan, scrive Anne Fadiman nell'Introduzione, «era una ventenne consapevole che esistono pochi argomenti migliori dell'essere giovani e insicuri e idealisti e frustrati e speranzosi». La morte le ha negato la possibilità di perdere il suo idealismo, consegnandola definitivamente a quella stagione della vita di cui è stata un'interprete intensa e straordinaria.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804648055

Racconti

Il centro dell’universo è stanotte, è qui;
dietro di noi solo costi sommersi.
MARINA KEEGAN,
dalla poesia Cose del passato

Fredda pastorale

Eravamo nella fase in cui evitavamo di guardarci seriamente negli occhi perché temevamo significasse che eravamo troppo coinvolti. Usavamo eufemismi come «mi manchi» e «mi piaci», e sorridevamo quando i nostri nasi per poco non si sfioravano. Dormivo da lui due o tre volte alla settimana, e avevo conosciuto i suoi genitori durante un brunch imbarazzante a Burlington. Passavamo un sacco di tempo facendo cose volutamente romantiche: preparando sushi, passeggiando, aspettando troppo prima di rispondere ai messaggi. Alternavo momenti in cui aggiungevo canzoni alla sua playlist ad altri in cui mi chiedevo se non fosse meglio evitare di mettermi con persone che mi interessavano all’80 percento per passare finalmente un po’ di tempo da sola. (Leggendo i libri che mi vergognavo di non avere letto.) (Chiamando mia madre.) Il fatto è che mi piaceva piacere a qualcuno, e molti miei amici si erano laureati e trasferiti in altre città. Avevo pensato di chiudere ma Charlotte, la mia coinquilina, me lo aveva sconsigliato. Brian era bello, fumava quanto me, e certe volte, al mattino, mi svegliavo con il sorriso perché mi faceva sentire al sicuro.
A marzo morì. Stavo scaldando al microonde una zuppa thailandese istantanea quando ricevetti una telefonata del suo migliore amico, che mi chiese se sapessi in quale ospedale era.
«Chi?» dissi.
«Brian» rispose. «Non hai saputo?»
Frequentavo l’ultimo anno, ed ero iscritta a un seminario in cui leggevamo poesie di John Keats. Ce n’è una famosa, intitolata Ode sopra un’urna greca, in cui due amanti sono sul punto di baciarsi sotto un albero, immobili, i volti inclinati. La tragedia, aveva detto il professore, è nella stasi eterna. Lei non sfiorisce mai, i due non si baciano mai; eppure l’immagine mi era parsa vagamente romantica, ricordo. In fondo, il mio ideale era sempre stato prima che tornassimo a casa; e adesso, ironicamente, lo avevo raggiunto.
Guardai il microonde ronzare disegnando cerchi sbilenchi, ma non tirai fuori io la zuppa. Doveva averci pensato qualcun altro. Charlotte forse, o uno degli amici che si presentarono in gruppo, offrendo cibo per imitare la reazione degli adulti e provando a decifrare il mio coinvolgimento. Ci stavo provando anch’io. A Natale, tornata a Austin, ero uscita con un ragazzo di nome Otto, e Brian e io non l’avevamo mai presa troppo sul serio. Eravamo coinvolti, certo, ma non facevamo coppia fissa.
«Cosa combinate?» gridava qualcuno sopra la musica, mentre Brian era a prendere da bere, e ogni volta spiegavo che non c’era niente da spiegare.
«Usciamo insieme» rispondevo sorridendo. «Ci piace uscire insieme.»
Credo fossimo piuttosto orgogliosi della nostra ambiguità. Era come se in qualche modo ci fossimo sbarazzati di tutte quelle tribolazioni. Eppure, anche se non lo avremmo mai confessato, le pause nella nostra corrispondenza erano calcolate quanto la nostra disinvoltura, e aspettavamo quei momenti da sbronzi in cui potevamo ammettere: «Ehi». Pausa. «Mi piaci.»
«Stai bene?» mi chiedevano adesso. Sussurrando, quasi, come se fossi fragile. Quella prima sera ci sedemmo in cerchio bevendo strani drink, e un amico mise su una canzone e poi la tolse. Vorrei poter dire che lo choc mi aveva gettata in uno stato di confusione inarticolata, invece scoprii che ero perfettamente in grado di rispondere alle domande.
«Non stavano insieme» bisbigliò Sarah a Sam, e accennai un sorriso perché capissero che non mi dava fastidio averli sentiti.
Ben presto, però, mi resi conto di avere sottovalutato il mio interesse per lui. Non per lui, forse, ma per il fatto di avere qualcuno all’altro capo di una linea invisibile. Qualcuno da aggiornare e da cui farmi aggiornare, al quale rivelare una scoperta buffa, al quale pensare mentre ballavo in un seminterrato solitario, e dal quale tornare una volta finita la musica. La morte di Brian era l’esempio più chiaro e spaventoso della mia tremenda ossessione per l’irraggiungibile. Da vivo, il suo più grande difetto era probabilmente il fatto che gli piacessi. Da morto, le sue perfezioni erano più evidenti.
Ma non sono stata del tutto onesta. Il problema è che sentivo crescere dietro i polmoni un vuoto strano ma riconoscibile. C’era una persona che la sera prima avevo baciato sugli occhi, sul collo, sul pene, e questa persona non esisteva più. Il secondo cliché era che non me n’ero ancora fatta una ragione. Ciò nonostante, quella notte mi sorpresi a piangere da sola dopo che i miei amici se n’erano andati, la faccia affondata nel cuscino.
La prima volta che vidi Lauren Cleaver stava cantando e suonando l’ukulele in uno scantinato illuminato da stringhe di peperoncini rossi di plastica. Ricordo di avere fatto due osservazioni nei venti minuti in cui i miei amici e io ci eravamo trattenuti al concerto sorseggiando birra: la prima era che volevo i suoi vestiti (la salopette corta a fiori e una giacca di tela), e la seconda era che era più magra di me, una qualità che la rendeva immediatamente meno simpatica. Era carina, anche se aveva il naso molto grosso, e l’avevo vista in giro per il campus, in sella alla sua bicicletta in Pear Street o a fumare sigarette fuori dalla biblioteca. Possedeva la rara combinazione di tranquillità e popolarità, un codice che la rendeva minacciosa agli occhi delle ragazze più giovani e alla moda, e misteriosa agli occhi dei ragazzi più grandi e spavaldi. Frequentavamo posti diversi, e mi ero quasi dimenticata di lei fino al mattino dopo il mio primo bacio a Brian, con cui aveva avuto una relazione intensa e indissolubile per due anni e nove mesi.
Non avevo mai dovuto gestire un’ex fidanzata e non mi piaceva. Adam era stata la mia prima volta e io la sua, e da quando ci eravamo lasciati avevo avuto solo storielle di un mese. Se c’è una cosa che non mi manca è l’autoconsapevolezza (a un livello nevrotico), e riconosco che una grossa percentuale della mia autostima dipende dalle attenzioni di una serie di ragazzi boriosi all’università del Vermont. Il problema è che sono brava ad attrarli: verbalmente arguta ed esperta nel mandare messaggi. Mi vesto anche bene, o ci provo, e mi prendo gioco dei ragazzi in un modo che loro intendono come un «mi piaci». Più che un problema è forse un supporto, ma nutro la patetica fantasia che sarei più produttiva se fossi meno attraente. Se mi decidessi a finire qualche dipinto o a fare domanda per qualche finanziamento. Il punto è che Lauren Cleaver e io non eravamo amiche perché Lauren Cleaver e io avevamo tutto questo in comune. Questo, e Brian.
I suoi genitori arrivarono il mattino dopo l’incidente, e i coinquilini mandarono un’e-mail a tutti quelli che pensavano volessero fare un salto. Io ci volevo andare, e sentivo di doverci andare, così infilai un paio di jeans neri e un maglione nero e chiesi a Charlotte se poteva prestarmi i suoi stivali neri.
«Non ti vanno bene» rispose. «E poi, non devi mettere per forza le scarpe nere.»
Non ne ero sicura. E nei sette minuti a piedi fino a casa sua fui colta dal rimorso per essermi preoccupata delle mie ballerine rosse. Immaginavo che non avrei dovuto neanche pensare a una cosa del genere, e mi sentivo un’aliena. In realtà mi capitava spesso, in un sacco di circostanze. Era come se dovessi provare qualcosa che non provavo. Mio padre mi prendeva sempre in giro a tavola, lasciando intendere che la «gelida Claire» aveva fatto entrare uno spiffero d’aria. Avevo tre sorelle maggiori, tutte bellissime, ed ero sempre stata meno affettata di loro, più restia a sorridere. Ricordo che da bambina mi costava uno sforzo immenso scartare i regali di Natale, perché richiedeva una teatralità troppo estenuante. Le mie sorelle mi avevano mortificata a non finire dopo la volta in cui avevo aperto un regalo di mia nonna, in quinta elementare, e con aria impassibile avevo dichiarato: «Ce l’ho già».
Faceva freddo per essere marzo, così camminai in fretta. Ai bordi della strada c’erano ancora mucchi di neve marrone, e i pini mi sovrastavano come mura grigie, ancora afflosciati dalle luci natalizie gialle. Ogni volta che dormivo da Brian, lo chiamavo appena superavo quel segnale di stop, sincronizzando il suo arrivo alla porta per non dover aspettare. «Sono qui» dicevo, a un isolato di distanza, e lui scendeva per farmi entrare. Questa volta bussai.
Venne ad aprire William. Il suo coinquilino, un ragazzo ricco di Los Angeles. Non eravamo mai stati amici, solo coinquilini occasionali, ma ci scambiammo un abbraccio impacciato e mi chiese come stavo.
«Bene» risposi d’istinto. Lui capì che non era vero.
Quando salimmo, mi resi subito conto che non sarei dovuta essere lì. Era una cosa più intima di quanto credessi: i genitori di Brian, due signore adulte che non riconobbi, e cinque o sei dei suoi più cari amici. Erano raccolti nell’angolo vicino a un piatto di ciambelline e a un vassoio intonso di frutta. Per la verità, la madre stava singhiozzando di fianco a una delle donne, e provai un’improvvisa e intensa claustrofobia. Il mondo intero era tetro e desolato, e capii che non c’era una sola cosa che stessi aspettando con ansia. Brian aveva cominciato a essere questo per me, quella cosa a fine giornata alla quale potevo pensare quando tutto il resto mi annoiava. Guardai oltre la porta aperta della sua camera e vidi che il letto era ancora sfatto.
«Lei è Claire» disse William. Fu abbastanza accorto da fermarsi prima di provare a definire il mio ruolo. Salutai i presenti con la mano e mi domandai se qualcun altro avesse avuto bisogno di presentazioni.
«Claire» disse il padre. «È bello rivederti.» Pareva sincero.
Eravamo andati d’accordo a quel brunch, anche se era successo tutto per puro caso. Brian e io avevamo dormito fino a tardi, e quando i genitori si erano presentati a casa sua alle undici ero ancora nel suo letto, nuda. Mi ero vestita in fretta – infilando con imbarazzo i tacchi della sera prima – ed ero stata automaticamente invitata a mangiare uova da Mirabelles. Dopo, Brian e io ci avevamo riso sopra.
«Meno male che non sei stata solo una botta e via.» Mi aveva morso l’orecchio.
«Meno male» avevo risposto, dandogli un pugno.
Il padre di Brian mi indicò il cibo intonso ma dissi che ero a posto così e mi avvicinai alla cerchia dei suoi amici. Era chiaro che almeno una di loro, Susannah, non mi voleva lì. Senz’altro stava pensando: «Tu non lo conoscevi. Noi non ti conosciamo».
Erano stati tutti insieme in ospedale martedì sera, a quanto pareva, e stavano condividendo aneddoti sottovoce su come e quando lo avevano scoperto ed erano rimasti ad aspettare, su come e quando si era rotto l’aneurisma congenito. Avrei voluto chiedere com’era andata esattamente, com’era successo, ma in fondo non mi interessava. Continuavo a guardare la stanza di Brian, la trapunta ammonticchiata sul letto senza lenzuola, la luce che si riversava dalla finestra screziandone le pieghe, e decisi che era la cosa più triste che avessi mai visto.
Quando Lauren Cleaver scese dal piano di sopra, tutti si voltarono. Aveva il viso gonfio e arrossato e respirava con sussulti irregolari. Evidentemente era salita per ricomporsi. Per calmarsi, per smettere di piangere. Con lei c’era un ragazzo più grande, il fratello di Brian, che avevo visto in fotografia. La teneva per le spalle e le sussurrava all’orecchio. La mia mente turbinava, immaginando le cene che doveva avere condiviso con la famiglia di Brian. I viaggi che aveva fatto con loro, i nonni che aveva conosciuto. Senz’altro aveva guardato film nella sua vera casa con indosso felpe e pantaloni della tuta. Passato del tempo con il fratello e la madre, conosciuto il suo cane, gli zii, gli amici del liceo.
Mentre Lauren scendeva le scale, magra e bellissima, mi resi conto, senza ombra di dubbio, che non ero io la fidanzata di Brian. Non so spiegare come o perché, ma questo mi riempì di una rabbia profonda e furiosa... seguita dalle inevitabili ondate di un familiare disgusto per me stessa. Brian era mio, avrei voluto gridare. Era mio il naso che aveva baciato venerdì, mia la maglietta in cui aveva infilato la mano. L’ultima volta che aveva baciato Lauren era stato a giugno e sapevo che non si parlavano più. Per un attimo immaginai come avrebbe reagito Brian se Lauren fosse morta, se avrebbe romanzato la loro relazione e pianto la perdita della loro potenziale riunificazione. Ma non sembrava proprio che Lauren stesse razionalizzando, sembrava solo che lo amasse molto. O che lo avesse amato.
Ovviamente sapevo che la loro rottura era stata conse...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Anne Fadiman
  4. Il contrario della solitudine
  5. RACCONTI
  6. SAGGI
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright