La coscienza di Andrew
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La coscienza di Andrew

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La coscienza di Andrew

Informazioni su questo libro

Da un luogo sconosciuto e rivolgendosi a un interlocutore sconosciuto, Andrew parla, Andrew pensa, Andrew racconta la storia della sua vita. Dei suoi amori, delle tragedie che l'hanno portato nel posto dove si trova adesso, un punto decisivo della vita. E mentre Andrew si confessa, sollevando a uno a uno i veli della sua strana storia – dell'adorata Briony, dell'ex moglie Martha e di una bambina da crescere –, anche il lettore comincia a dubitare delle proprie certezze. Sappiamo davvero cosa significa dire la verità? Quanto è ingannevole la nostra memoria? Cosa sappiamo del funzionamento del cervello e della nostra mente? A chiedercelo troppo a lungo potremmo iniziare a essere incerti su tutto quello che riguarda gli altri e noi stessi. Scritto con una precisione lirica e una profondità psicologica che fanno di E.L. Doctorow uno degli scrittori più importanti d'America, questo romanzo rivoluzionario e pieno di sorprese diventa la voce stessa del nostro tempo – irriverente, inquisitoria, scettica e maliziosa. La coscienza di Andrew dà una curvatura sorprendente e singolare alla produzione di un autore da sempre caratterizzata dalla capacità straordinaria di creare una sua personale rappresentazione del mondo, dell'America, delle nostre vite.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804650386
eBook ISBN
9788852063008

I

Posso dirle del mio amico Andrew, lo scienziato cognitivo. Ma non è una bella storia. Una sera si è presentato alla porta della sua ex moglie, Martha, con in braccio una bambina di pochi mesi. Perché Briony, l’incantevole giovane donna che aveva sposato dopo Martha, era morta.
Di cosa?
Ci arriveremo. Non ce la faccio da solo, disse Andrew con Martha che lo fissava dalla soglia. Si dà il caso che quella sera nevicasse e Martha era ipnotizzata dai fiocchi soffici, animati, che si posavano sulla visiera del berretto degli Yankees di Andrew. Era così, Martha, rapita dai dettagli marginali come se li stesse mettendo in musica. Persino nelle situazioni di normalità reagiva lentamente, guardandoti con quei grandi, mobili occhi sporgenti. Poi arrivava il sorriso, o il cenno di intesa, o il no con la testa. Dalla porta aperta, intanto, fluttuava all’esterno il tepore della casa, appannando gli occhiali di Andrew. E lui, dietro le lenti appannate, se ne stava impalato come un cieco sotto la neve, ed era privo di ogni volizione quando alla fine Martha protese le mani, prese con delicatezza dalle sue braccia la bambina infagottata, indietreggiò e gli chiuse la porta in faccia.
Questo succedeva dove?
Martha viveva a New Rochelle, un sobborgo di New York, in una zona di grandi ville di stile diverso – Tudor, Dutch colonial, neogreco – costruite per la maggior parte negli anni Venti e Trenta, edifici discosti dalla strada e circondati per lo più da alti, vecchi aceri norvegesi. Andrew corse alla macchina e tornò portando un seggiolino, una borsa da viaggio, due sacchetti di plastica con tutto l’occorrente per la bambina. Cominciò a picchiare sulla porta: Martha, Martha! Ha sei mesi, ha un nome, un certificato di nascita. Ce l’ho qui, apri la porta, ti prego Martha, non voglio abbandonare mia figlia, ho solo bisogno di un po’ di aiuto, ho bisogno di aiuto!
La porta si aprì e comparve il marito di Martha, un colosso. Posa quella roba, Andrew, disse. Andrew obbedì e il colossale marito di Martha gli rimise in braccio la bambina. Sei sempre stato un casinista, disse il colossale marito di Martha. Mi spiace che la tua giovane moglie sia morta ma immagino sia morta per qualche tuo stupido errore, una leggerezza al momento sbagliato, uno dei tuoi esperimenti mentali, delle tue famose distrazioni intellettuali. Qualcosa capace in ogni caso di ricordare a tutti noi il dono che hai di seminare sciagure.
Andrew depose la bambina nel seggiolino poggiato per terra, sollevò il seggiolino con la bambina e si avviò lentamente verso la macchina, quasi perdendo l’equilibrio sul viottolo scivoloso. Allacciò la cintura di sicurezza attorno al seggiolino sul sedile posteriore, tornò alla casa, raccolse i sacchetti di plastica e la borsa e li rimise in macchina. Una volta sistemato tutto chiuse la portiera, si tirò su e girandosi si ritrovò Martha davanti, uno scialle avvolto intorno alle spalle. Va bene, disse Martha.
[riflette]
Continui...
No, stavo pensando a una cosa che ho letto sulla patogenesi della schizofrenia e del disturbo bipolare. Prima o poi i neurobiologi ci arriveranno, con il loro sequenziamento genico, troveranno le differenze nel genoma – tutte queste stupide proteine associate alla teleologia. Gli assegneranno cifre e lettere, una lettera sforbiciata di qua, una cifra aggiunta di là e... ammirate, la malattia non è più! Quindi Doc, sono guai per lei che cura con le parole.
Non ne sia troppo certo.
Mi dia retta, finirà col sussidio di disoccupazione. Che altro possiamo fare noi mangiatori del frutto dell’albero della conoscenza se non biologizzarci? Espungere il dolore, estendere la vita. Volete un altro occhio, che so, dietro la nuca? Si può fare. Spostare il retto in un ginocchio? Nessun problema. Anche mettervi le ali se volete, sebbene il risultato più che un volo nel cielo sarebbero giganteschi saltelli, megafalcate radenti come su quei percorsi che sembrano scale mobili appiattite nei lunghi corridoi degli aeroporti. E chi ce lo dice che Dio questo non lo vuole, perfezionare il suo imperfetto, bacato concetto di vita come patologia incurabile? Siamo il suo piano B, la sua polizza assicurativa. Dio opera attraverso Darwin.
Quindi Martha alla fine si prese la bambina?
Penso anche a noi che ci decomponiamo nelle nostre bare marcescenti, e a come ci reincarniamo, ai nostri piccoli frammenti microgenetici risucchiati nell’intestino di un verme cieco che affiora in superficie neanche lui sa perché, e striscia nella terra fradicia di pioggia solo per morire sull’affilato becco di uno scricciolo. Ehi, è la mia carta d’identità vivente, il mio genoma in poltiglia quello che è appena stato cacato dal cielo ed è finito con un plop sul ramo di un albero, e che adesso penzola dal ramo come una benda umidiccia. Ammirate! Mi sono trasformato in sostanza nutritiva per un albero che lotta per la propria vita. È così, sa? Questi immobili, saldi organismi vascolari combattono silenziosamente per la propria esistenza come facciamo noi l’uno con l’altro, alberi che si contendono lo stesso sole, lo stesso suolo al quale si abbarbicano, e spargono i semi che diventeranno i loro nemici nella foresta, come i principi per i re loro padri negli antichi imperi. Ma non sono del tutto privi di moto. Col vento forte eseguono la loro danza della disperazione, gli alberi carichi di foglie che ondeggiano di qua e di là, gettando in alto le braccia nella foga impotente di essere ciò che sono... Eh, dall’antropomorfismo a sentire le voci il passo è breve.
Lei sente le voci?
Ah! Sapevo che avrei attirato la sua attenzione. In genere quando mi addormento. Anzi, so che sto per addormentarmi quando le sento. E quello mi sveglia. Non volevo parlargliene e invece ecco che gliene sto parlando.
Che cosa dicono?
Non so. Cose strane. Ma non è che le sento davvero. Cioè, sono indubbiamente voci, ma al tempo stesso senza suono.
Voci senza suono.
Già. È come se sentissi il significato delle parole che vengono pronunciate senza il sonoro. Sento il significato ma so che sono parole che vengono pronunciate. Di solito da persone diverse.
Chi sono queste persone?
Non ne conosco nessuna. Una ragazza mi ha chiesto di fare l’amore con lei.
Be’, è normale... gli uomini le sognano certe cose.
È più di un sogno. Io poi non la conoscevo. Una ragazza con un vestitino leggero lungo fino alle caviglie. E le scarpe da running. Aveva un accenno di lentiggini sotto gli occhi, sembrava che la luce del sole le schiarisse il volto, anche se stava all’ombra. Talmente carina da spezzarti il cuore! Mi ha preso per mano.
Be’, questo è più di una voce, di certo più di una voce senza suono.
Secondo me succede che produco mentalmente un’immagine da associare al significato che sento...
Bene, possiamo tornare a Andrew lo scienziato cognitivo?
Faccio fatica a dirle che sento le voci senza suono anche da sveglio, nella mia vita quotidiana. Ma sì, perché non dovrei? C’è stata una mattina, per esempio, mentre andavo al lavoro, ero fermo al semaforo con il giornale e il caffè che avevo preso al deli. Stavo osservando il conto alla rovescia dei secondi del rosso. E una voce mi ha detto: Già che sei lì, perché non aggiusti la zanzariera della porta. Era molto, molto reale, talmente vicina a una vera voce sonora che mi sono girato per vedere chi avevo alle spalle. Solo che non c’era nessuno, ero da solo a quell’incrocio.
E qual è stata l’immagine che ha prodotto sentendo quella frase?
Era un’anziana. Ho messo me stesso sulla soglia della porta di servizio, nella sua cucina. Era un edificio rurale, una fattoria in rovina. Ho pensato che potesse essere nella Pennsylvania occidentale. Nel cortile c’era un vecchio camioncino con il cassone senza sponde. La donna indossava un grembiule scolorito. Ha alzato gli occhi dal lavandino, per niente sorpresa, e mi ha detto quella frase. Seduta al tavolo, una bambina stava disegnando con un pastello. Era la nipote della donna? Non lo sapevo. Mi ha guardato un attimo prima di tornare al disegno, poi con improvvisa violenza si è messa a scarabocchiarlo tutto: qualsiasi cosa avesse disegnato ora lo stava distruggendo.
Lei per caso è l’uomo che chiama il suo amico Andrew, lo scienziato cognitivo che ha portato una bambina di pochi mesi a casa della ex moglie?
Sì.
E mi sta dicendo che ha sognato di fuggire e di ritrovarsi sulla porta di servizio di una fattoria in rovina non si sa dove?
Allora. Non era un sogno, era una voce. Cerchi di stare un po’ attento. Questa voce mi ha fatto provare la stessa sensazione di quando avevo sentito il bisogno di scappare dopo che la mia bambina avuta con Martha era morta e con lei la mia vita con Martha. Non mi importava dove sarei andato. Salgo sul primo pullman che vedo a Port Authority. Mi addormento, e al risveglio il pullman si sta inerpicando lungo le strade tortuose della Pennsylvania occidentale. Ci fermiamo davanti alla piccola agenzia di viaggi in uno di quei paesotti e scendo per fare due passi nella piazza: saranno state le due o le tre del mattino, era tutto chiuso di quello che c’era, un drugstore, un negozietto di cianfrusaglie, un corniciaio, un cinema, e a occupare un lato intero della piazza una specie di tribunale in stile neoromanico. Nel quadrato di erba secca ingiallita c’era una statua nero-verdastra di un uomo a cavallo all’epoca della Guerra di Secessione. Il tempo di tornare all’agenzia di viaggi e il pullman è sparito. Così mi avvio fuori dall’abitato, di là dai binari della ferrovia, oltrepassando alcuni magazzini, e due o tre chilometri dopo – ormai era l’alba – trovo questo edificio fatiscente, una fattoria in abbandono. Avevo fame. Entro nel cortile. Nessun segno di vita, così faccio il giro e arrivo alla porta-zanzariera. E ci sono queste due uguali a come me le ero inventate o pensavo di averle inventate, la bambina e la vecchia. E la vecchia è quella che aveva detto quella frase la mattina che stavo con il caffè e il giornale a Washington, in attesa del verde.
Insomma mi sta dicendo di essere scappato e di essersi ritrovato proprio sulla stessa porta di servizio di una fatiscente fattoria della Pennsylvania che aveva precedentemente immaginato?
No, maledizione. Non è questo che sostengo. Sono salito davvero sul pullman e il viaggio è stato esattamente come ho detto. Lo squallido paesotto, la fattoria diroccata. E quando sono arrivato all’edificio è vero che in cucina c’erano quelle due persone, la vecchia e la bambina coi pastelli. C’era anche un foglio di carta moschicida appeso al lampadario, nero di mosche appiccicate sopra. Perciò era tutto molto reale. Solo che nessuno mi ha chiesto di sistemare la porta.
No?
Sono stato io a offrirmi di aggiustarla. Ero stanco e avevo fame. Non vedevo uomini da nessuna parte. Ho pensato che in cambio di qualche lavoretto mi avrebbero permesso di lavarmi, mi avrebbero dato qualcosa da mangiare. Non volevo la carità. Così sorrido e dico: Buongiorno. Mi sono mezzo perso, ma vedo che la porta ha bisogno di essere riparata e penso di riuscire ad aggiustarla se mi offrite una tazza di caffè. Avevo notato che non si chiudeva bene, il cardine superiore veniva via dal telaio, la maglia della zanzariera era lenta. Come porta-zanzariera era del tutto inutile, motivo per cui avevano dovuto appendere la carta moschicida al cordino del lampadario. Vede perciò che non era stata una visione paranormale a condurmi in quel luogo. Ero salito su quel pullman e avevo visto la fattoria e quelle due persone e poi le avevo cancellate dalla mia mente fino a quella mattina a Washington, mentre ero in piedi all’incrocio in attesa che i secondi del rosso arrivassero a zero e ho sentito—
All’epoca lavorava a Washington?
—sì, come consulente del governo, ma non mi chieda a far cosa – e ho sentito la voce della vecchia dire più o meno quello che avevo detto io quando ero comparso sulla porta della sua cucina. Solo che nella sua voce le parole avevano un tono di riprovazione, tanto che l’effetto era: “Visto che non stai facendo niente, perché per una volta non ti rendi utile e aggiusti la zanzariera”. C’è una definizione per questo tipo di esperienza nel suo manuale, giusto?
Sì. Ma non sono sicuro che stiamo parlando dello stesso tipo di esperienza.
Anche noi abbiamo il nostro manuale, sa? Il suo campo è la mente, il mio è il cervello. Si incontreranno mai? La cosa importante di quel viaggio in pullman è che ero arrivato ad avere la sensazione che qualsiasi cosa facessi avrebbe arrecato danno alle persone che amavo. Pensa di sapere cosa si prova, Mr Analista seduto sulla sua poltrona ergonomica? Non mi riusciva di capire per tempo cosa fare per evitare il disastro, come se a ogni mio comportamento dovesse per forza seguire qualcosa di terribile. Così sono salito su quel pullman, per scappare e basta, non mi importava altro. Volevo comprimere la mia vita, dedicarmi a sciocche minuzie quotidiane. Non che ci sia riuscito. Le sue parole ne furono l’evidente riprova.
Le parole di chi?
Del colossale marito di Martha.
Quando Andrew varcò la porta d’ingresso vide il colossale marito di Martha che infilava cappotto e berretto e Martha che saliva le scale con la bambina tra le braccia, togliendole il cappuccio, aprendo la lampo della tutina imbottita. Andrew prese nota di una casa spaziosa e ben arredata, molto più elegante di quella in cui avevano vissuto lui e Martha da sposati. L’ingresso aveva un pavimento a parquet di legno scuro. Sulla sinistra intravide un confortevole soggiorno, con soffici divani e poltrone, il fuoco acceso nel camino, e sul muro sopra la mensola il ritratto di quello che gli parve uno zar russo in abito lungo con una croce ortodossa appesa al collo e una corona che somigliava a un copricapo ricamato. Alla sua destra, in uno studio tappez...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. V
  8. VI
  9. VII
  10. VIII
  11. IX
  12. X
  13. XI
  14. Copyright