Ti ricordi, Alberto, quando ci siamo incontrati per la prima volta? Stavamo attraversando la mensa della RAI, io mi dirigevo verso il bar e tu stavi venendo via. Camminavi con le mani dietro la schiena e la testa un po’ piegata in avanti, assorto nei tuoi pensieri: un atteggiamento che avrei imparato presto a riconoscere come tuo tratto inconfondibile. Che dire? Eri tu, Alberto. Quella prima immagine, che da allora è rimasta impressa nella mia mente, l’ho associata a te per tutta la vita.
A un certo punto, quando ci siamo ritrovati per un attimo fianco a fianco, hai sollevato lo sguardo e... sono rimasta fulminata. Un colore di occhi come il tuo, uno sguardo come il tuo non li avevo mai visti. Realizzai che eri il famoso Alberto Amodei: tutte le ragazze della RAI parlavano di te. Eri noto per la tua bellezza, ma anche per la simpatia e per quel tratto elegante e aristocratico che ti rendeva speciale. Rappresentavi certamente il sogno proibito di tante donne.
Era il 1972. Nel maggio di quell’anno, durante un viaggio a New York organizzato dalla RAI, ci siamo incontrati in aereo. E, mentre volavamo diretti verso la meta del nostro “viaggio organizzato”, tu, Alberto, hai fatto la mossa che mi ha cambiato la vita: ti sei avvicinato e mi hai chiesto di giocare a carte insieme a te e ad alcuni tuoi amici. A quell’epoca, sugli aerei di lunga tratta, esisteva una saletta per sedersi e conversare. Noi abbiamo giocato a carte per tutto il tragitto. E, quando siamo arrivati a New York, ero già cotta di te. Me ne sono accorta perché scoppiavo a ridere per un nonnulla e, guarda caso, ogni volta che ridevo mi piegavo proprio verso di te: tutto quello che dicevi o facevi mi sembrava speciale, brillante, entusiasmante. Io, che ero con i miei fratelli, mi sarei dovuta fermare a New York. Allora tu, che eri diretto a Washington e poi avresti proseguito per le cascate del Niagara, a un tratto mi hai detto: “Ma che ci vai a fare a New York? Vieni con me!”. Io, con la complicità di una mia amica e collega che mi ha “coperto le spalle”, ho deciso di seguirti. Ed è stato lì, con il rumore inconfondibile delle cascate in sottofondo, che ho pensato: “Io quest’uomo non lo lascio più”.
Il giorno dopo, in albergo, chiacchieravamo fitto fitto. A un certo punto ti sei alzato, ti sei seduto al pianoforte e hai incominciato a suonare – non sapevo ne fossi capace – Per Elisa di Beethoven: in quell’istante mi sono resa conto, una volta per tutte, che ero veramente innamorata di te. Non riuscivo a capire, però, fino a che punto fossi corrisposta, anche perché tu avevi sempre un’aria così ironica, quasi indifferente: non sapevo ancora che quello era il tuo modo abituale di essere, che quell’ironia era una sorta di maschera dietro la quale, per pudore, eri solito nascondere i tuoi veri sentimenti. Intuivo di piacerti anch’io, ma al tempo stesso nutrivo dei dubbi perché non sapevo come interpretare quel sorriso ironico perennemente stampato sul tuo viso.
Così – mi ricordo ancora – a un tratto non ho più resistito e di punto in bianco ti ho chiesto: “Scusa, ma che cosa provi per me?”.
Tu mi hai fissata, con divertito stupore. E, rivolgendomi uno sguardo più ironico che mai, mi hai detto con voce piena di tenerezza: “Ti amo, Ross!”.
È stata l’unica volta nella tua vita, da quando ci siamo conosciuti al momento in cui ci siamo persi per strada, che mi hai detto “Ti amo”.
Tutto questo succedeva nel mese di maggio. Il mese successivo sei partito per la Spagna. Eravamo d’accordo che mi avresti chiamata in ufficio. Io, però, non ricevetti mai alcuna telefonata, ed ero sempre più inquieta per il tuo silenzio. Ma, quando finalmente ci siamo sentiti, ho sorriso nello scoprire che era tutta colpa... dell’ora legale. Per lo “scarto” di un’ora tra Italia e Spagna, che non avevamo messo in conto, tu mi chiamavi sempre quando ero già uscita!
Sentirti finalmente al telefono e dirti “Ti raggiungo!” per me è stato tutt’uno. Sono partita subito per la Spagna e ho trascorso con te il resto delle vacanze. Quando sono rientrata in Italia, dopo quei giorni di passione, portavo dentro di me uno splendido miracolo: ero incinta. Purtroppo, però, quella gravidanza si è interrotta quasi subito... anche se, molto presto, avrei saputo di aspettare un altro bambino e, questa volta, tutto sarebbe andato per il meglio. Ricordo la tua gioia alla notizia: eri pazzo di felicità.
Lo ero anch’io, naturalmente. Avevo, però, anche un po’ di paura, perché vivevo ancora con i miei e non avevo il coraggio di dirlo a mia madre. Ma sono stata “tradita” da un inconveniente tipico della gravidanza: una mattina mi sono svegliata con una forte nausea. Mia madre se n’è accorta. Io le ho confessato che aspettavo un bambino da te. E la sua reazione mi ha commosso: era felice, perché aveva capito che lo eravamo anche noi. Lo eravamo, e non vedevamo l’ora di vivere insieme. Tutti e tre: tu, io e il bambino che aspettavamo.
I giorni volarono. Il 2 luglio 1974 ci siamo sposati. È stato un matrimonio bellissimo, celebrato nel tempietto del Bramante di San Pietro in Montoro. Una cerimonia intima, con i nostri amici più cari e i miei genitori: i tuoi, purtroppo, non c’erano più. Non potevamo partire per un viaggio di nozze vero e proprio perché la mia gravidanza era già in stato avanzato. E così abbiamo deciso di andare nella casa di campagna della mia famiglia, a Sabaudia. Lì, nell’incanto della campagna pontina, ci sentivamo come in un paradiso terrestre: felici, in luna di miele, con un bambino in arrivo. Nei miei pensieri, la colonna sonora del nostro amore era Per Elisa: il primo brano musicale che tu, Alberto, avevi suonato al pianoforte per me. E, ricordando quel momento, decidemmo che, se fosse nata una bambina, l’avremmo chiamata Elisa.
Ma, proprio allora, nel nostro “paradiso” di Sabaudia, abbiamo vissuto quello che, prima della tua malattia, è stato uno dei momenti più difficili e dolorosi.
Una notte mi sono svegliata all’improvviso. Stavo malissimo a causa del distacco della placenta, l’incubo di ogni donna che aspetti un bambino. Tu mi hai portato subito all’ospedale di Latina, il più vicino a Sabaudia, dove sono arrivata in fin di vita. Mi hanno operata d’urgenza: con il parto cesareo è nata, prima del tempo, la nostra Elisa. Elisa ha lottato, ma il suo piccolo cuore non ce l’ha fatta: è morta dopo tre giorni. E i dottori, una volta che mi fui ripresa, mi dissero che ero arrivata in ospedale in condizioni tali che solo per un soffio non ero morta anch’io.
È iniziato così per me un periodo dolorosissimo. Dolorosissimo eppure, stranamente, dolcissimo: perché tu, Alberto, in quei giorni, non mi hai mai abbandonata. Eri al mio capezzale in ogni istante. Mi leggevi i libri di Paolo Villaggio con le storie di Fantozzi, nel tentativo di farmi sorridere. Può sembrare assurdo cercare di far ridere una mamma che ha appena perduto la sua bambina. Ma in quel tentativo c’eri tutto tu, Alberto. Questo è ciò che hai sempre desiderato nel corso della tua vita: alleviare la sofferenza delle persone che amavi, farle sorridere. “Sdrammatizzare” era la tua parola d’ordine. E ne sei stato capace, come per magia, anche quando avevamo entrambi il cuore a pezzi per la perdita di Elisa: sei riuscito a darmi conforto, a consolarmi, a distogliermi dai miei pensieri più cupi.
E io comprendevo il dolore profondo che stavi vivendo anche tu, in solitudine, mentre cercavi di consolare me. Un dolore che nascondevi dietro il riserbo e il silenzio, come hai sempre fatto. Hai vissuto da solo lo strazio del funerale di Elisa, che è stata sepolta a Latina, la città in cui è nata e ha vissuto i pochi giorni della sua brevissima vita.
Ti ricordi, Alberto? Dopo la sua morte, non hai mai voluto accompagnarmi a trovarla al cimitero. Quando te lo chiedevo, mi rispondevi: “Ma sì, prima o poi, ci andremo. Adesso non è il momento giusto”. E, a forza di rimandare, il momento giusto, per te, non è mai arrivato. Avevo capito che lo facevi per paura che io soffrissi troppo. Credo, però, che in realtà fossi tu quello che aveva paura di soffrire. Solo molti anni dopo, senza di te, sono andata a visitare la tomba della nostra bambina. E voglio raccontarti questo momento, Alberto, quando ci arriveremo, perché ha aperto un altro capitolo importante della nostra storia. Ma ora torniamo al mio ricovero in ospedale: giorni di una tristezza senza fine, che solo tu sei riuscito a diradare dal mio cuore.
Il mio ricovero in ospedale è durato molto a lungo. Una volta ritornati a Roma, riprendere la vita di prima per me è stato difficilissimo. Perché ero fisicamente provata, certo. Ma soprattutto perché il fatto di dover affrontare la quotidianità senza tenere in braccio la bambina con cui speravo di tornare a casa è stata una tortura.
Per fortuna, l’anno seguente, è nata Angelica: e, con lei, è tornato il sorriso in casa.
Con il suo arrivo, la nostra vita è cambiata profondamente. La nascita di un figlio stravolge sempre la vita di una coppia, e io ricordo che ero costantemente in ansia e che mi agitavo per un nonnulla. Tu, invece, eri molto più tranquillo, non ti preoccupavi mai: facevi sembrare tutto semplice, anche quello che non lo era. Sdrammatizzavi, come sempre. Da questo punto di vista, devo ammettere che mi hai aiutata a crescere. Se ho imparato ad affrontare la vita senza paura, Alberto, lo devo in gran parte a te.
Dopo qualche anno, la nostra vita professionale ci ha portato pian piano ad allontanarci l’uno dall’altra. Tu, in qualità di direttore amministrativo del TG1, hai cominciato a occuparti di grandi eventi, seguiti dalla RAI in tutto il mondo: i viaggi del papa, le Olimpiadi, i campionati mondiali di calcio.
La tua professione ti costringeva molto spesso a lunghe assenze da casa: per vari mesi all’anno eri dall’altra parte del mondo, lontano da me e da Angelica. Io, nel frattempo, avevo iniziato un programma sperimentale su RaiTre, “La salute del bambino”: una specie di “guida per le mamme” in cui spiegavo quali sono, e come si possono prevenire o curare, tutti i problemi di salute cui possono andare incontro le mamme durante la gravidanza e i bambini nei primi tre anni di vita. A ispirare quel mio programma, in un certo senso, era stata Angelica, che era nata leggermente prematura e aveva trascorso i suoi primi mesi di vita in un’incubatrice. Dunque avevo pensato: “Ciò che ho imparato in quei momenti potrà essere utile a tante altre donne: voglio parlarne in un programma televisivo”.
Ho scoperto così che quella era la mia autentica vocazione professionale. Da allora, ho iniziato a parlare di salute in televisione, sui giornali, nei miei libri. L’ho fatto, ogni volta, con l’intento che è sempre stato la mia bussola: poter essere utile agli altri, aiutare le persone in difficoltà a risolvere i loro problemi. Ed è con lo stesso spirito, Alberto, che sto scrivendo adesso questo libro in cui parlo di te e di noi. Ho imparato molte cose nei due anni in cui ho lottato accanto a te per cercare di salvarti la vita. E ne ho imparate altrettante quando alla fine i medici mi hanno fatto capire, con delicatezza, che non ci sarei riuscita e che il mio compito era un altro: accompagnarti nel tuo tramonto in modo che tu potessi trascorrere gli ultimi giorni in modo dolce, sereno, dignitoso. E io, nei capitoli che seguiranno, voglio condividere quanto ho imparato con tutti coloro che affrontano una delle prove più impegnative e difficili che possano capitare: prendersi cura di una persona cara gravemente malata. È curioso: la vita, a volte, segue un percorso simile a un cerchio che si chiude. In “La salute del bambino”, il primo programma televisivo in cui mi sono occupata di salute, trattavo della nascita, del momento in cui una nuova vita si affaccia al mondo. In questo libro parlerò invece del momento opposto, quello che tutti hanno paura di nominare. Ma il desiderio che mi spinge, in fondo, è lo stesso: mettere a disposizione degli altri le mie esperienze di vita.
Sin da quando è andato in onda, “La salute del bambino” ha suscitato molto interesse e ha avuto grande successo, anche perché, fino ad allora, non si era mai visto un programma del genere: sono stata fra i primi a occuparmi in TV di argomenti relativi alla salute, una vera e propria pioniera. L’interesse suscitato da quella trasmissione ha preparato la strada al mio appuntamento televisivo più famoso, “Più sani e più belli”, che con il suo incredibile successo ha cambiato radicalmente la mia vita. E, di conseguenza, la nostra.
Quando ripenso a quel periodo di grandi soddisfazioni professionali, mi rendo conto di quanto fosse aperta la tua mentalità, rispetto a quella di tanti, troppi uomini, che sono gelosi del successo delle loro mogli.
Tu eri il mio primo sostenitore. Fra noi non c’è mai stata rivalità. Quando sento parlare di coppie che vivono in continua competizione, resto veramente stupita. Fra noi c’era, invece, una mutua solidarietà: per entrambi era motivo di orgoglio vedere l’altro riuscire in qualcosa. Tu capivi quanto il lavoro fosse importante per me. E questo mi ha aiutata molto.
Al tempo dei primi programmi dedicati alla salute, ogni sera rimanevo sveglia fino a tardi: dovevo documentarmi puntigliosamente perché, con i miei studi di Giurisprudenza, non avevo una preparazione medica e non potevo permettermi errori. E così, invece di uscire, di andare al cinema o in pizzeria, di dedicare del tempo a te, trascorrevo le mie serate a studiare. Altri mariti non avrebbero capito, si sarebbero seccati. Tu, al contrario, non ti sei mai lamentato: anzi, quando ti parlavo di qualche mio progetto, eri il primo a darmi un aiuto concreto. Scrivevi benissimo, con una capacità di sintesi che mi è stata di grande utilità, dal momento che, chi come me fa il conduttore televisivo, ha sempre i secondi contati. Ricordo il tuo sostegno davvero con gratitudine. E con gratitudine ricordo pure che non mi hai mai ostacolato con i mille piccoli egoismi che possono nascere nella vita quotidiana. Anche quando dedicavo al lavoro tutte le mie giornate, non ti ho mai sentito dire: “Ma come, stai ancora lavorando?”.
Probabilmente, a quel tempo, non ho saputo apprezzare fino in fondo la tua generosità e la tua intelligenza. Ma ho potuto misurarle negli anni a venire, ogni volta che sentivo parlare di matrimoni che finivano per l’eccessivo impegno professionale dei due coniugi.
Ho parlato di “matrimoni che finivano”. E qui ha inizio, caro Alberto, forse la parte più complicata della mia chiacchierata con te. Devo rispondere alla domanda che tutti i nostri conoscenti si sono fatti. Che anche tu, lo so, ti sei posto per anni. E che a volte, ti dico la verità, mi sono posta anch’io. E questa domanda è: “Perché a un certo punto io e te ci siamo allontanati? Perché ci siamo persi?”.
Se le nostre strade si sono separate, è perché io, a quell’epoca, ti ho attribuito delle colpe forse esagerate, e che probabilmente non erano neanche tali: solo ora lo capisco. Ma quello che è stato è st...