
- 368 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Demetrio Pianelli
Informazioni su questo libro
L'onestà, la forza interiore, la rinunzia amorosa di un impiegato, nella Milano piccolo-borghese di fine Ottocento. Capolavoro di Emilio De Marchi (1851-1901), Demetrio Pianelli è a tutt'oggi un'opera di singolare vitalità narrativa.
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Informazioni
Print ISBN
9788804392507eBook ISBN
9788852062360Parte terza
Paolino delle Cascine
I
Paolino delle Cascine da qualche tempo pensava di mettere il capo a partito e di prender moglie una volta per sempre.
Già, è un passo che bisogna fare, e più ci si pensa, meno ci si riesce. Gli anni passavano anche per lui e ad aspettar troppo tempo si arrischia di mettere i buoi dietro al carro.
Era in questi riflessi quando capitò, come s’è visto, improvvisamente la vedova Pianelli. Sulle prime non fu nulla; ma passata la sorpresa, e specialmente quando ella fu partita, egli cominciò a sentire il cuore in disordine, a vedere l’immagine di quella donna dappertutto, come un luminello bianco dopo che si è guardato nel sole, che ti resta nella pupilla, che vedi sempre anche nel buio, anche a chiudere gli occhi, anche a cacciare la testa sotto un cuscino.
Quest’apparizione imbrogliò i suoi progetti. Tutte le altre ragazze dei dintorni, sulle quali da un pezzo in qua andava raccogliendo il pensiero, divennero, al confronto della bellissima vedova di Milano, figure scialbe di camposanto.
Quella donna l’aveva commosso, gli aveva rotto il cuore con quel suo piangere sfrenato, con quelle scene di tenerezza e di dolore. Quando essa si tirava vicini i ragazzi, e se li stringeva al cuore, Paolino scappava sempre nei prati a piangere anche lui come un ragazzo.
Ora che Beatrice non c’era più, sentiva una specie di caverna di dentro. Prova a ragionare, se puoi, in queste faccende!
Capiva anche lui che una cosa è prendere moglie secondo le regole di natura e un’altra è sposare una vedova con tre figliuoli. Per quanto un uomo sia ben provveduto del suo, per quante ragioni il cuore metta all’ordine del giorno, tre figliuoli son sempre tre figliuoli. La gente vuol parlare, e Paolino, animo già non troppo coraggioso, si sentiva impaurito dal pensiero delle ciarle che si sarebbero fatte.
Ma ormai non sapeva pensare ad altro. Non mangiava più, usciva la mattina col cappello tirato sugli occhi, prendeva una strada qualunque attraverso i prati, andava un gran pezzo, coi piedi nell’erba, col capo nelle nuvole, finché, sentendosi isolato nella silenziosa solitudine, si metteva a sedere sul margine di una riva o d’una gora, all’ombra d’un salice, cogli occhi fissi al bigio orizzonte, dove tra due fusti esili di pioppo si disegnava nello sfondo nebbioso di Milano la guglia sottile del Duomo.
La sua esistenza era là, tra quei due tronchi, su quella guglia sottile.
Non si può dire il bene che gli aveva fatto la letterina di Arabella. Se la teneva sempre con sé, nel portafogli, sul cuore, e nei momenti d’estasi la leggeva dieci volte di fila, a voce alta, provando quasi un senso di freschezza, un refrigerio ai suoi tormenti nelle parole dell’innocenza. Dio parla spesso per la bocca dei fanciulli. Anche Sant’Ambrogio, dice la storia, fu nominato arcivescovo per la bocca di un bambino.
Ma a momenti di gioia succedevano altri momenti di sfinimento, di tristezza, di disperazione. Egli era un matto a credere che Beatrice volesse rimaritarsi, o anche, dato il caso, che volesse sposare un villano delle Cascine, prendere sul serio un Paolino qualunque, una donna come lei, abituata alla vita di Milano, una donna molto elegante, una donna ancor giovane e fresca, una donna, insomma, che poteva ben sposare un conte, un banchiere, un consigliere di prefettura.
La nessuna voglia di mangiare in un uomo, che di solito divorava il suo pane di quattro soldi per antipasto, rese pensierosa la buona sorella Carolina, che una sera, coltolo solo nell’orto, lo tirò sotto un capanno di zucche e cominciò a dirgli colla sua flemmatica bontà:
«Tu hai qualche dispiacere, Paolino.»
«Io no.»
«Sì, tu hai qualche dispiacere che non vuoi dire.»
«Ti dico di no.»
«C’è qualcuno che ha detto male di te o che ti invidia?»
«Chi vuoi, cara te?»
«Hai venduto male le bestie?»
«Tutt’altro.»
«Ti fan male le scarpe?»
«Mi vanno benissimo» disse Paolino, mettendo innanzi un piede grande come un basamento.
«Allora è segno,» soggiunse la sorella, posando le mani giunte sul grembiale «è segno che vuoi prender moglie.»
Paolino, appoggiate le due braccia ai ginocchi e il volto ai due pugni stretti, disse con un piglio sgarbato:
«Nel caso, non sarei io il primo.»
«Avresti dovuto già farlo. Hai fissato l’occhio su qualcheduna?»
Paolino tentennò il capo e fissò gli occhi in fondo in fondo sopra una siepe di sambuco, che cominciava allora a vestirsi di verde.
«È la Teresina dei Bareggi?»
Paolino disse di no col capo.
«Allora è la figlia del fattore di casa Prinetti.»
«Perché dev’essere quella?»
«Perché viene tutte le domeniche a messa alla Colorina.»
«La voglio bella o niente.»
«Che cosa vuol dire bella? Non è il manico d’oro o d’argento che fa bella una scopa.»
«Ah brava!» gridò Paolino ridendo «tu paragoni una moglie a una scopa.»
«No, faccio per dire che non bisogna guardare agli accessori, quando ci sia il principale, cioè salute, religione e voglia di lavorare. Queste signore della giornata, che escono dalle monache, che mettono le mani sotto il grembiale tutte le volte che hanno bisogno di traversare la corte, che svengono se vedono uccider un cappone, che non sanno spennacchiare una gallina, sono buone per i signori milanesi, per i signori impiegati. Tu hai bisogno di legno forte e stagionato.»
Paolino, stringendo tra i due indici la canna del naso, lanciò di sottecchi un’occhiata alla sorella, per indovinare se parlava a caso o di proposito.
«È di Lodi questa tua bellezza?»
«No.»
«Di Melegnano?»
«No, cioè no e sì.»
«Di San Donato?»
«Oibò.»
«Di Milano?»
«Sì, cioè…» Paolino tirò un sospirone.
«La conosco io?»
«Diavolo…»
«Uhm!»
La Carolina, che, sotto alla sua pacifica bontà, era avveduta e furba, finse di non sapere orientarsi, per rendere la sua meraviglia ancora più meravigliosa, quando Paolino mettesse fuori il nome di Beatrice. Per la buona donna questo matrimonio sarebbe stato naturalmente una disgrazia.
Paolino capì il significato della reticenza e tagliò corto:
«Se non indovini, è segno ch’io son matto da legare. Non parliamone più.»
Lì in terra c’era un pezzo di mattone. Paolino lo raccolse, lo palleggiò un momento nelle mani e con un’energia vera da matto disperato lo tirò in una siepe di mortella, facendo correre e cantare tutte le galline che pascolavano nell’insalata nuova. Capiva benissimo che una donna saggia e prudente non poteva consigliare a un buon figliuolo di sposare una vedova con tre ragazzi. Capiva benissimo che il matto era lui e perciò si sarebbe lapidato colle sue mani.
Voltò via e non si lasciò più vedere per ventiquattro ore.
Finalmente pensò di parlarne a Demetrio, il solo che potesse dargli un consiglio sincero e disinteressato. Demetrio gli voleva bene, si conoscevano da un pezzo, erano due fave dello stesso guscio. A parlare non si fa peccato, e le passioni bisogna tirarle fuori e metterle all’aria, se si vuole che perdano le pieghe. Senza dir nulla alla Carolina, il giorno preciso di Pasqua di Risurrezione, scappò a Milano.
O sarebbe risuscitato anche lui: o se doveva essere sepolto, meglio morto e sepolto, che vivere infilato sopra uno spillo.
II
Lo stesso giorno di Pasqua, Demetrio, dopo aver scritte e riassunte le spese della sua azienda domestica, usciva di casa con animo scoraggiato. La sera prima aveva dovuto ancora alzare la voce con sua cognata, che non voleva permettere che Mario entrasse nell’Orfanotrofio, dove, diceva, non vanno che i figli dei ciabattini. Era stata una nuova scena dolorosa, disgustosa, in cui Demetrio aveva dovuto ingrossare la voce e quasi bestemmiare il nome di Gesù Cristo. La pazienza ha i suoi limiti. Anche a lui piangeva il cuore di dover mostrarsi duro e inesorabile, e magari avesse potuto mantenerli tutti a biscotti e gelatine! ma, davanti alla necessità, davanti al pericolo di morir di fame, benedetto l’Orfanotrofio, benedette le raccomandazioni dei benefattori!
Scorrendo la lista delle spese fatte durante quella triste quaresima, sentiva scorrere l’acqua fredda nella schiena.
Oltre al debito grosso verso il cugino, che un giorno o l’altro bisognava pur pagare, Demetrio nella sua miseria aveva dato fondo ad altre tre mila lire sue, messe in disparte per l’avvenire, frutto di pazienti e lunghe economie, vere goccie di sangue stillato da una vita povera, senza piaceri, senza passioni, senza capricci, economizzando il quattrino giorno per giorno, sul caffè, sul tabacco, sul companatico, sul filo e sui bottoni dei suoi vestiti.
Pasqua era qui. Dimani egli doveva trovarsi col padrone di casa a regolare un’altra scadenza, o il padrone avrebbe sequestrato il letto e la pentola della minestra. Dove trovarle cinquecento lire lì sulla mano?
E s’adirava di più, perché, mentre egli si struggeva il cuore in questa maniera per salvare un pagliericcio agli orfanelli, quella stupida donna, quella maledetta donna, continuava a congiurare sotto mano contro di lui, non capiva bene in che modo, ma era una congiura in cui entrava la Pardi, l’Elisa sarta, il sor Isidoro, il diavolo… E pazienza gl’intrighi! essa faceva di tutto per rivoltargli contro l’animo dei figliuoli.
Mario aveva già dichiarato con una strana insolenza che egli non voleva entrare in gabbia coi ciabattini. Essa metteva odio e antipatia dapertutto contro di lui, fin presso i bottegai e presso i vicini di casa, che incontrandolo sulle scale, si tiravano un passo indietro e lo guardavano in cagnesco come si guarda l’aiutante del boia.
“Ah, Signore Iddio!” pensava col capo basso “ci vuol proprio una gran fede per resistere! Aveva ragione il cavaliere: io mi mangerò il fegato, mi ridurrò in camicia e mi farò maledire. Se non fosse per quei poveri ragazzi, che non hanno colpa, a quest’ora sarei già scappato in America.”
Veniva su verso la piazza Beccaria, urtando sotto le scosse del suo pensiero il muro, quando si sentì a un tratto arrestare da due braccia, che caddero dure e rigide sulle sue spalle come due timoni di carrozza.
«Sei tu, a Milano, oggi?»
«Son venuto a confessarmi in Duomo» rispose Paolino ridendo.
«Segno che hai dei peccati grossi.»
«Hai fatto colazione?»
«Non ancora.»
«Allora vieni con me al Numero Cinque in piazza Fontana e la faremo insieme.»
Paolino delle Cascine era vestito come un signore, con uno stiffelio di panno nero, aperto sopra un panciotto di velluto rossigno a fraschette, una cravatta bianca a bolle rosse, i suoi guanti neri, il suo cappello rotondo di feltro inglese, e una magnifica catena d’oro a grossi anelli che attraversava la bottoniera.
«Ti sei già messo in abito d’estate e ti sei fatto radere come uno sposino» disse Demetrio.
«Primavera innanzi viene…» cantarellò il buon Paolino, cacciando il suo lungo braccio nel braccio del cugino per tirarlo verso piazza Fontana. «Sono stato a casa tua e mi hanno detto che eri appena uscito… Che cosa mangiamo? s’intende, paga Paolino.»
Entrarono nella trattoria. Un cameriere, che non aveva ancora finito di preparare le tavole, li fece passare in una salettina appartata, stese in fretta una tovaglia, e, mentre andava collocando i piatti e le posate, prese a recitare la litania, che comincia di solito dall’osso buco e va a finire agli scaloppini coi funghi.
Paolino non era di quegli uomini che si contentano di ciò che viene offerto. Un uomo non fa un viaggio apposta...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Introduzione
- DEMETRIO PIANELLI
- Parte prima. Lord Cosmetico
- Parte seconda. Le tribolazioni di un pover’uomo
- Parte terza. Paolino delle Cascine
- Parte quarta. Da sonnambula
- Parte quinta. Alle Cascine
- Parte sesta. Gli altri
- Copyright