Stavo mettendo a posto i pantaloni di Sebastiano, quando vidi il biglietto.
Mi ero alzata, li avevo raccolti, li avevo piegati per riporli sull’omino di legno. Sebastiano li aveva buttati malamente a terra, come al solito, ma io non volevo arrabbiarmi. Fu in quel momento che il biglietto sbucò dalla tasca capovolta. Istintivamente lo ricacciai dentro finché non lo sentii urtare contro la cucitura.
La luce di un fulmine riempì di bianco la finestra, poi ci fu il tuono, e io mi misi al riparo del muro, come se il lampo potesse ancora colpirmi. Adesso la pioggia cadeva di traverso, battendo furiosa contro i vetri. Da quant’era che pioveva? Cinque giorni? Dieci? A me sembrava da sempre. Ogni tanto qualche ora di tregua, l’illusione che potesse smettere. Poi, di nuovo, lo scrosciare improvviso dell’acqua, le folate cattive di pioggia. Un altro lampo. Chiusi gli occhi aspettando il tuono. Quando li riaprii tenevo la mano appoggiata sui pantaloni, e capii di essermi assopita per qualche istante.
Fuori la strada si srotolava viscida di pioggia, come bava di un’enorme lumaca. I pantaloni sotto il mio palmo invece erano morbidi. Tutto quello che apparteneva a Sebastiano era morbido. Ritrassi la mano, irritata. Stavo per decidermi a lasciare la stanza, quando il biglietto rispuntò dalla tasca. Cercai di afferrarlo ma fu più veloce di me, e volteggiando scivolò sul pavimento.
Era un biglietto da visita color sabbia, i contorni non rifiniti. Mi chinai e lo presi. Mi accorsi subito dell’odore dolciastro che proveniva dalle mie dita: la carta ne era impregnata. Sembra cannella, pensai, e forse anche gelsomino, di certo non è un profumo maschile, pensai ancora, e mi sentii avvampare dalla vergogna. Sopra c’era scritto “Avvocato B. Respighi”. Seguivano l’indirizzo e la e-mail. In basso era stato annotato un numero di cellulare; la grafia era spigolosa, del tutto diversa da quella tonda e morbida di Sebastiano.
Girai e rigirai il cartoncino tra le dita; lo annusavo, cercando di tenere a bada i battiti del cuore: non mi sembrava di conoscere quel numero. Tentai di memorizzarlo, ma il tumulto nel petto era troppo, non riuscivo a concentrarmi. Vedevo solo che iniziava con un “333”.
Presi un foglio e una biro dalla mia tasca. Tenevo sempre carta e biro pronte. Le lasciavo un po’ ovunque, piccole parti di me su cui prima o poi avrei dovuto scrivere, per fermare le idee, riunirle, prendere una decisione. Ma più litigavo con Sebastiano, più le idee mi sfuggivano.
D’un tratto ebbi freddo, una sensazione che da tempo mi accompagnava, come un amico che mi stesse strattonando per mostrarmi qualcosa d’importante, che a me sfuggiva.
Il rumore di passi nel corridoio mi fece sobbalzare. Istintivamente nascosi biglietto carta e biro in tasca. Mentre la porta si apriva riflettei che passi così piccoli e leggeri non potevano essere di Sebastiano.
«Mamma, dov’eri?»
Teodoro aveva sporto appena la testa bionda dallo stipite e mi guardava serio, le labbra in tensione. Quando non mi trovava subito aveva quell’espressione addolorata, e io provavo un senso d’inadeguatezza, come se fossi in qualche modo sfuggita a un mio dovere.
«Qui, tesoro. Adesso arrivo. Hai fame?»
Scosse la testa e mi ricordai che gli avevo già dato da mangiare.
«Vieni a giocare con me?»
«Adesso arrivo. Finisco qui e ti raggiungo. Va bene se ti leggo una fiaba?»
Mi fissò nel suo strano modo, sempre un po’ indagatore, come per soppesarmi. Gli diedi una carezza sperando che se ne andasse in fretta. «Cappuccetto Rosso» aggiunse per essere sicuro che avessi capito. Ma non era ancora convinto, gli occhi mi osservavano delusi.
«Certo, te la leggo subito.»
Fece di sì con la testa. Io mi fido, sembrava volermi dire. Poi, d’un tratto, esclamò: «Papà è tornato».
Trasalii. Di già? Non mi sembrava fosse così tardi.
Tolsi con cautela i pantaloni dalla gruccia, sollevai l’apertura della tasca e ci misi dentro il biglietto. Mi muovevo respirando adagio, non volevo pensare alla porta che si poteva spalancare di nuovo. Risistemai i pantaloni sull’asticella, mi assicurai che il cartoncino non uscisse, poi lasciai la stanza. Sarei tornata più tardi a scrivere il numero, approfittando dell’assenza di Sebastiano. Di sicuro sarebbe uscito. Da mesi trovava sempre un pretesto per farlo.
Prima di andare in cucina bussai alla porta del bagno. Nessuno rispose. Allora entrai, aprii il rubinetto e mi sciacquai a lungo le mani sotto l’acqua fredda.
Sebastiano stava sistemando delle verifiche nella sua cartella. Teneva le spalle un po’ curve e la giacca verde di fustagno pareva andargli stretta. I capelli biondi gli scivolavano lunghi sulla nuca, e sul verde cupo risaltavano come oro. Pensai mio malgrado che era un bell’uomo, mentre io sembravo un gattino malaticcio e spaurito.
«Brutta giornata?» gli chiedo in tono allegro. Evitavo di guardarlo per timore che vedesse la mia agitazione.
Dà una scrollata di spalle. «Come sempre. Ho a che fare con una massa di lavativi che per di più pretendono di essere interrogati quando gli fa comodo.»
«È successo qualcosa?»
«Il Rubbia, quello stronzo che mi ha mandato i genitori perché gli avevo detto che un bradipo avrebbe fatto la verifica meglio di lui. Ricordi?»
Faccio cenno di sì.
«Be’, oggi ho restituito le verifiche di chimica. Lui come al solito si è beccato un due. Dopo un po’ me la riporta e mi dice: Prof, guardi che lei mi ha segnato degli errori che non ho fatto. Mi consegna il foglio e mi fa vedere alcune parti sottolineate in rosso: i risultati erano giusti. Sul momento sono rimasto sorpreso. Poi, alzando il foglio controluce, mi sono accorto che lo stronzo aveva cancellato gli errori con la gomma e aveva riscritto i risultati corretti. Quando gliel’ho detto ha negato, ha protestato, ha detto che sarebbe andato in presidenza.»
«E tu?»
«In presidenza ci sono andato io. È stato sospeso.»
«Sospeso? Meno male che si chiama Rubbia.»
Lui appoggia la cartella sul tavolo spostando bruscamente il posacenere di Limoges. È un bel posacenere esagonale con dipinti sopra fiori blu di cobalto a grandi stami giallo oro. Fingo di non vedere: è un ricordo di mia madre e non voglio che faccia la fine degli altri.
«Non ti trovo per niente spiritosa. Quel ragazzo è una palla al piede per tutta la classe.»
«Era solo una battuta.»
«Risparmiamele.»
Sfoglia le verifiche, muove le dita veloce ma preciso, sistema i fogli a uno a uno, li impila, li mette in piedi, assesta un colpo e ritorna a controllarli. Sono pieni di segnacci rossi. Me lo rivedo in classe, mentre ci consegna i compiti, il bel sorriso complice con cui sembrava dirci: Vedrai che il prossimo andrà meglio, non ti preoccupare.
«Che hai da fissarmi? Non vedi che ore sono? Fra un po’ devo uscire, ho il recupero di chimica.»
«Non me l’avevi detto.»
«Te lo dico ora. Cristo, Miriam, mica vorrai cominciare a piantar rogne!»
Mi indica l’orologio a muro; è quasi l’una.
«Scusa. Adesso preparo.»
Apro il frigorifero e tiro fuori i filetti di dentice. «Ti vanno impanati?»
«È lo stesso.»
Si leva la giacca, si rimbocca le maniche della camicia.
«In questa casa si muore di caldo! Fuori diluvia e qui si muore di caldo. Bisogna abbassare la temperatura della caldaia, Miriam. Paghiamo troppo di riscaldamento!»
«Io ho freddo» rispondo. «E anche il bambino.»
«Sei fissata. Non fa per niente freddo. È che non devi tirarli fuori tu, i soldi.»
Si gratta con forza in mezzo alle sopracciglia, aspetta una mia replica, rimaniamo entrambi in attesa che l’altro aggiunga qualcosa, poi Sebastiano solleva una mano in aria come per scacciare un pensiero fastidioso, e riprende a occuparsi delle sue verifiche.
Vado ai fornelli senza ribattere. Vedo subito le formiche e inizio a schiacciarle con rabbia; loro scappano da tutte le parti. «Maledette!» impreco mentre le inseguo, le centro, le lascio spiaccicate sull’acciaio e su ognuna scarico la mia sofferenza.
«Ammazzane più che puoi» dice Sebastiano. Ha la testa assorta nei compiti, neanche mi guarda. Smetto subito.
In quel mentre mi sento chiamare.
Teodoro è sulla soglia della cucina, le braccine lungo i fianchi, lo sguardo pieno di rimprovero. «Io ti aspettavo!»
«Preparo da mangiare e arrivo. Dieci minuti e sono da te.»
«È tanto dieci minuti?»
«Pochissimo.»
Il bambino sospira. «Va bene» dice. Di nuovo mi rivolge uno sguardo deluso ed esce. Lo vedo allontanarsi camminando un po’ storto, e mi prende una stretta al cuore.
Mi metto subito ad apparecchiare, tovaglia bicchieri posate bottiglia dell’acqua, che altro serve, mi dimentico sempre qualcosa, pane tovaglioli la bottiglia di vino rosso è già aperta, che cosa manca sono sicura che manca qualcosa e lui borbotterà come sempre, aceto olio sale, che altro serve?
Basta!
Mi fermo a osservarlo mentre tira un altro segnaccio rosso, intanto cincischio un po’ con la forchetta, si sa mai che tra i denti ci sia qualche incrostazione di cibo.
«Stanotte si è addormentato alle cinque.»
«Mi spiace.» Vede la bottiglia di rosso sul tavolo, scuote la testa, va a prenderne una di bianco. «Col pesce quel rosso non va bene.» Mi regala un sorriso pacato. «Quante volte te lo devo dire?»
«Non ce la faccio più» sbotto io.
Lui apre il bianco, si versa un bicchiere. «Potevi riposarti in mattinata. Chi te lo impedisce? Sei a casa a far niente tutto il giorno.»
«Non ho potuto. Non mi ha lasciato respirare un attimo.»
Alza il bicchiere, lo annusa.
«Non male questo vino. Ne vuoi?»
«Non ce la faccio più» ripeto. La voce mi esce stridula.
Non risponde. Beve e appoggia con calma il bicchiere sul tavolo.
«Lo sai che io non ero d’accordo.»
Avverto la nota di trionfo e mi mordo le labbra. Ogni volta è un pugno allo stomaco. Concentro lo sguardo sulla forchetta.
«C’è ancora del risotto di ieri. Te lo scaldo?»
Alza gli occhi al cielo, poi mi regala uno sguardo di compatimento.
«Se non c’è di meglio...»
«Pensavo avessi fretta. Posso farti un sugo. Ci metto pochissimo.»
«No, vada per il riso.»
Apro ancora il frigorifero, prendo il piatto con il riso e lo metto a scaldare nel microonde.
«Attenta che non diventi un pastone per galline.»
Non rispondo, imposto la manopola su “tre minuti” schiaccio il pulsante d’avvio tengo gli occhi fissi sulla ciotola che mi gira lenta davanti agli occhi una volta due volte tre volte lei gira e io non stacco gli occhi non diventerai un pastone per galline, spengo prima ancora che scattino i tre minuti, prendo saldamente il piatto e lo appoggio sul ripiano. Glielo servo.
«Tu non mangi?»
Il tono è sgarbato: mi accorgo di essere rimasta di nuovo impalata a...