
- 304 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Una boccata d'aria
Informazioni su questo libro
George Bowling, un assicuratore quarantacinquenne, tipico esemplare di un'educazione vittoriana, spera, per un attimo, di potersi salvare dal soffocante ambiente domestico ma la guerra imminente bloccherà sul nascere il suo tentativo di ribellione.
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Informazioni
Print ISBN
9788804431398eBook ISBN
9788852060380Parte seconda
I
Il mondo che rammentai per un attimo, quando vidi sul cartellone il nome di re Zog, era così diverso dal mondo in cui adesso vivo, che forse avrete qualche difficoltà a credere che vi abbia mai appartenuto.
Suppongo che a quest’ora vi siate fatta di me un’idea approssimativa: grasso, mezz’età, rosso in viso, con la dentiera. E nel subcosciente pensate che sia così fin da quando ero in fasce. Ma quarantacinque anni sono lunghi, e sebbene certe persone non cambino né si sviluppino, ad altre invece, capita. Per quanto sembri strano, è probabile che mio padre sarebbe piuttosto orgoglioso di me, se potesse vedermi oggi. Troverebbe straordinario che uno dei suoi figli possieda una macchina e abiti in una casa con tanto di bagno. Ancor oggi, sono un po’ al disopra della mia origine, e in altri tempi ho raggiunto uno standard di vita che a quei tempi, prima della guerra, non ci saremmo mai sognato.
Prima della guerra! Fin quando continueremo a dire così?, mi domando. Per quanto tempo lo diremo, senza sentirci chiedere: “Quale guerra?”. Nel mio caso, il paese remoto al quale si pensa dicendo “prima della guerra”, forse precede addirittura la guerra anglo-boera. Sono nato nel ’93, e ricordo – davvero ricordo – lo scoppio della guerra contro i boeri per via della furibonda lite che papà e zio Ezechiele ebbero per tale ragione. E ho molti altri ricordi che datano suppergiù dall’anno precedente a questi eventi.
La primissima cosa che ricordo è l’odore di trifoglio secco. Risalivate il corridoio di pietra che dalla cucina dava nella bottega, e via via l’odore di trifoglio si faceva più acuto. La mamma aveva fissato un cancelletto di legno nel vano della porta per impedire a Joe e a me (Joe era il mio fratello maggiore) di entrare nella bottega. Ricordo come fosse ora che me ne stavo aggrappato alle sbarre; ricordo l’odore secco di trifoglio misto all’odore umido dell’intonaco in corridoio. Solo anni dopo riuscii a sfondare il cancello, e mi ritrovai solo nella bottega. Un topo che stava assaggiando la farina in uno dei tanti recipienti schizzò via e mi corse fra i piedi. Era tutto incipriato. Dovevo avere sei anni.
Quando si è piccoli, è come se a un tratto si prendesse coscienza di cose che da molto tempo ci stanno sotto il naso. Le cose entrano in noi galleggiando una alla volta, un po’ come quando ci si desta dal sonno. Per esempio, solo a quattro anni mi accorsi improvvisamente che possedevamo un cane. Si chiamava Nailer,5 ed era un vecchio terrier inglese bianco, di una razza che ora è andata perduta. Mi imbattei in lui sotto il tavolo della cucina, e parve che in qualche modo afferrassi, avendolo saputo solo in quell’istante, che era nostro e che si chiamava Nailer. Allo stesso modo, qualche tempo prima, avevo scoperto che dietro il cancello, in fondo al corridoio, c’era un posto da cui proveniva l’odore di trifoglio. E la stessa bottega con le enormi bilance, e i pesi di legno, e la paletta di ferro, e le scritte a gesso sulla vetrina, e l’uccellino in gabbia (non si riusciva a distinguerla bene nemmeno dal marciapiede, perché il vetro era sempre sporco) tutte queste cose andarono a incasellarsi nel mio cervello a una a una, come i pezzi di un gioco di pazienza.
Passa il tempo, ci si sente più saldi sulle gambe, e a poco a poco si cominciano ad acquistare vaghe nozioni geografiche. Sono convinto che Lower Binfield sia tale e quale ogni piccolo centro sui duemila abitanti. Era nell’Oxfordshire – badate che continuo a dire era, anche se dopotutto esiste ancora – a quasi cinque miglia dal Tamigi, e giaceva in una specie di valletta con un leggero rilievo collinare fra sé e il fiume, e colline più alte alle spalle. In cima a queste colline c’erano dei ciuffi d’alberi in vaghe masse azzurrine, attraverso le quali si distingueva una grande casa con un colonnato davanti. Era Binfield House (o “Il Castello” come lo chiamavano tutti), e la vetta della collina era nota come Upper Binfield, sebbene da cent’anni e più non ci fosse alcun centro abitato. Dovevo avere circa sette anni, quando mi accorsi dell’esistenza di Binfield House. Quando si è molto piccoli non si guarda in lontananza; ma ormai conoscevo pollice per pollice la mia città, che aveva grosso modo la forma di una croce, con la piazza del Mercato al centro. La nostra bottega dava sulla Strada Principale un po’ prima di arrivare in piazza, e all’angolo c’era la pasticceria della signora Wheeler, dove si spendeva mezzo penny, a patto di averlo. La vecchia Wheeler era una lurida strega; la gente sospettava che succhiasse le caramelle e poi le rimettesse nel vaso, sebbene il fatto non fosse mai stato provato. Un po’ più avanti c’era il negozio di barbiere con l’insegna pubblicitaria delle sigarette Abdulla – quella con i soldati egiziani sopra: curioso che usino la stessa réclame anche oggi – e il profumo denso, inebriante, di lozione e tabacco turco. Dietro le case s’intravedeva l’alta ciminiera della fabbrica di birra. In mezzo alla piazza del Mercato c’era un abbeveratoio in pietra, e sull’acqua, sempre, uno strato di polvere e di paglia.
Prima della guerra, specialmente prima della guerra dei boeri, era estate dal primo all’ultimo dell’anno. So che è un’illusione. Sto solo cercando di dirvi come le cose affiorano alla mia memoria. Se chiudo gli occhi e penso a Lower Binfield in qualunque momento prima che compissi, diciamo, gli otto anni, è sempre d’estate che la ricordo. O è la piazza del Mercato verso mezzogiorno, con una specie di polverosa sonnolenta quiete su tutto, e il cavallo della posta che mastica, il muso infilato nel sacco. Oppure è un pomeriggio d’afa nei grandi prati verdi succosi intorno alla città; oppure cala la notte, nella stradina dietro gli orti, e dalle siepi filtra un aroma di tabacco da pipa e di cibarie serali. Ma, in un certo senso, rammento diverse stagioni, perché tutti i miei discorsi sono legati a cose da mangiare, e queste variano col variar dei mesi, specialmente quelle che spigolavamo nelle siepi. In luglio c’erano le more selvatiche – molto rare, però – e quelle non selvatiche stavano diventando abbastanza rosse da poterle mangiare. In settembre c’erano prugnole e nocciole, le migliori sempre irraggiungibili dalle nostre mani. Più tardi, faggiole e mele selvatiche. E poi, tutte le porcherie che usavamo mangiare quando non c’era di meglio: bacche di biancospino – non un granché, a dir la verità e bacche di rosaspina che, una ripulita dalla peluria esterna, hanno un gradevole sapore asprigno. L’angelica è buona di prima estate, specie quando si muore di sete, e così pure diverse specie d’erba. E c’è l’acetosella che è buona con pane e burro, e il bulbocastano, e una specie legnosa di trifoglio d’Irlanda, che ha un sapore amaro. Anche i semi di platano sono meglio che niente, quando si è lontani da casa e si ha una fame da lupi.
Joe aveva due anni più di me. Quando eravamo piccoli la mamma dava diciotto pence la settimana a Katie Simmons perché al pomeriggio ci portasse a spasso. Il padre di Katie lavorava nella fabbrica di birra e aveva quattordici creature da mantenere, cosicché la famiglia andava sempre in cerca di lavori saltuari. Lei aveva dodici anni quando Joe ne aveva sette e io cinque, e il suo livello mentale non era molto superiore al nostro. Mi trascinava per il braccio, è vero, e mi chiamava “Baby”, e aveva abbastanza autorità per impedirci di finire investiti da un calesse o caricati da un toro; ma in fatto di conversazione, eravamo suppergiù allo stesso livello. A lungo ciondolavamo giù per la stradina dietro gli orti – sempre piluccando qualcosa, naturalmente – di là dai prati del cordaio e fino a Mill Farm, dove c’era uno stagno con dentro tritoni e minuscole carpe (Joe e io andavamo a pescare quando fummo grandicelli), e tornavamo per la strada di Upper Binfield in modo da passare davanti alla pasticceria, posta ai margini della città in una posizione così brutta che tutti quelli che rilevavano il negozio andavano in malora, e per quanto ne so fu tre volte pasticceria, una volta drogheria, e una volta officina meccanica per biciclette. Ma per i bambini aveva un fascino tutto suo. Anche quando non avevamo un soldo da spendere, passavamo di lì per incollare il naso alla vetrina. Erano tempi in cui, per un quarto di soldo, si potevano comprare cose degne d’essere mangiate. Quasi tutti i dolci erano venduti a quattro libbre per un penny, e c’era perfino un miscuglio chiamato Miscela Paradiso, composto perlopiù di frammenti di dolciumi, e con un penny te ne davano sei libbre. Poi c’erano gli Interminabili, che valevano un farthing;6 erano lunghissimi e non si riusciva a finirli in mezz’ora. I topini e porcellini di zucchero costavano un penny ogni otto pezzi, e così le pistole di liquerizia; il granoturco soffiato un farthing il cartoccio grande e un penny il pacchetto-premio, contenente diversi tipi di caramelle, un anellino d’oro, e, a volte, un fischietto. Ora non si vedono più in giro, i pacchetti-premio. Un mucchio di leccornie di quei tempi oggi sono scomparse. C’era una specie di dolce bianco e piatto con epigrammi stampati sopra, e c’era un non so che di rosa appiccicoso in scatoletta ovale di legno, con cucchiaino di zinco per mangiarlo; tutti e due per un farthing. E così i Confetti Scacciapensieri, e le pipe di cioccolato, e i fiammiferi di zucchero, e perfino i Cento e Mille, che ormai sono scomparsi dalla circolazione. I Cento e Mille erano una risorsa, quando non si aveva in tasca che un farthing. E che dire dei Mostri da un penny? Chi li trova più, oggi, i Mostri da un penny? Erano dei bottiglioni da più di un quarto di limonata frizzante, il tutto per un penny. Un’altra cosa che la guerra ha spazzato via.
Pare sempre estate, se mi guardo indietro. Posso sentirmi intorno l’erba alta quanto me, e l’afa che sale dalla terra. E la polvere sul sentiero, e la calda luce verdastra che filtra dai ciuffi di nocciolo. Vedo ancora noi tre che ciondoliamo qua e là piluccando le siepi, e Katie che mi tira per il braccio e dice: «Muoviti, Baby!», oppure grida in avanti, a Joe: «Torna immediatamente qui, o ti acciuffo io!». Joe era un bambino con la testa grossa e massiccia e solidi garretti, il tipo di ragazzo che combina sempre qualcosa di pericoloso. A sette anni era già in calzoncini, le calze nere e spesse tirate sopra le ginocchia e le scarpe pesanti come piombo che i ragazzi di allora erano tenuti per legge cosmica a portare. Io ero ancora in vestina, una specie di camice di lino ruvido che la mamma confezionava apposta per me. Katie portava un’atroce, sbrindellata parodia di abito da donna che, nella sua famiglia, passava di sorella in sorella, e un buffo cappello largo con le trecce che le pendevano dietro e una gonna interminabile che strisciava per terra e certe polacchette dal tacco consunto. Era un cosino da nulla, alta poco più di me, ma se la cavava per “badare” ai bambini. In una famiglia come la sua, un bambino non fa che “badare” ad altri bambini da quando è svezzato o poco meno. A volte cercava di far la “grande” e la signora e aveva un modo di chiuderci il becco con un proverbio che, secondo lei, non ammetteva repliche. Se dicevi “non badarci”, ribatteva pronta:
Non badarci dovette badarci,Non badarci fu appeso alla forca,Non badarci fu messo in padella,E bollito finché non morì.
O, se la insultavate: «Le parolacce non rompono le ossa»; e se vi davate delle arie: «L’orgoglio precede sempre un capitombolo», come si dimostrò verissimo il giorno che camminavo impettito dandomi l’aria del soldato e finii in una torta di vacca. I suoi occupavano una lurida topaia nel misero budello dietro la fabbrica di birra. Il posto brulicava di bambini come un formicaio. L’intera nidiata era riuscita a non andare a scuola, cosa abbastanza facile a quei tempi, e i piccoli cominciavano a far commissioni e a sbrigare lavori occasionali dal giorno in cui si reggevano sulle gambe. Uno dei fratelli di Katie si buscò un mese per aver rubato delle rape. Lei smise di condurci a spasso un anno dopo, quando Joe compì gli otto anni e divenne, per una ragazzina, un osso troppo duro da tenere a bada: aveva scoperto che in casa di lei dormivano in cinque per letto e non le dava requie.
Povera Katie! Ebbe il primo figlio a quindici anni. Chi fosse il padre, nessuno lo seppe mai (quasi tutti pensavano che fosse uno dei suoi fratelli), ed è probabile che nemmeno lei lo sapesse con certezza. L’ospizio si prese il bimbo; lei andò a servizio a Walton. Qualche tempo dopo sposò uno stagnino, il che, anche secondo il metro della sua famiglia, equivaleva a un capitombolo. L’ultima volta che la vidi fu nel ’13. Andavo in bicicletta nei sobborghi di Walton e fiancheggiavo certe orribili baracche di legno lungo la ferrovia, con intorno recinti fatti di doghe arrugginite, nel punto dove gli zingari solevano accamparsi in certi mesi dell’anno, polizia permettendo, quando una specie di megera tutta grinze, che pareva sui cinquanta almeno, i capelli sciolti e la faccia color della pece, uscì da una delle baracche e si mise a sbattere uno stuoino sfilacciato. Era Katie: doveva avere ventisette anni.
5. Cioè “Campione”. [N.d.R.]
6. Un quarto di penny. [N.d.T.]
II
Giovedì era giorno di mercato. Tipi con facce rosse e tonde come zucche, in sudici camiciotti e poderose scarpe incrostate di letame, spingevano le loro bestie verso la piazza del Mercato fin dalle prime luci dell’alba, pungolandole con lunghe verghe di nocciolo. Seguiva, per ore e ore, una baraonda infernale: cani che latravano, maiali che grugnivano, conducenti di furgoni che pretendevano di farsi strada a schiocchi di frusta e bestemmie, e chiunque avesse a che fare col bestiame vociando e menando nerbate. Ma il baccano maggiore si levava quando portavano un toro al mercato. Già allora la mia impressione era che per la maggioranza i tori fossero bestie innocue e rispettose della legge, non di altro ansiose che di raggiungere la stalla in santa pace; ma un toro non sarebbe stato giudicato un toro se mezza città non fosse uscita per le strade a dargli la caccia. A volte qualche bestia frastornata, generalmente una giovenca non ancora del tutto adulta, scioglieva la fune e caricava per una via traversa, e allora chi si trovava sul suo cammino si piantava a gambe larghe in mezzo alla strada e buttava indietro le braccia, roteandole come ali da mulino a vento e gridando “Uuuh! Uuuh!”, il che si supponeva avesse sulle bestie una specie di effetto ipnotico, e certo le spaventava.
A metà mattina, alcuni fattori venivano da noi in bottega a far scorrere fra le dita campioni di sementi. In realtà, con gli agricoltori mio padre faceva pochi affari, perché non aveva il furgone delle consegne a domicilio e non poteva permettersi il lusso di crediti a lungo termine. In genere, vendeva al minuto: mangime per i polli, foraggio per i cavalli dei mercanti, eccetera. Il vecchio Brewer, di Mill Farm, che era un vecchio tirchio con una barba grigia attorno al mento, se ne stava lì mezz’ora a maneggiare campioni di granturco e a lasciarseli scivolare in tasca in un suo modo assente; dopodiché, inutile dirlo, se ne andava senza aver comperato nulla. Di sera, le birrerie traboccavano di ubriachi. A quei tempi, la birra costava due soldi la pinta e, diversamente dalla birra d’oggi, era molto energetica. Per tutta la durata della guerra dei boeri, ogni sera del giovedì e del sabato l’ufficiale di reclutamento faceva una capatina nella birreria di George, vestito in alta uniforme e piuttosto largo di mano; e a volte, la mattina presto, lo vedevate spingere davanti a sé un garzone di fattoria assonnato e con la faccia paonazza, che aveva messo la firma alla domanda di arruolamento quando era troppo sbronzo per vederci; ma poi, passati i fumi, scopriva che trarsi d’impiccio gli costava non meno di venti sterline. Quando li vedevano, gli abitanti di Lower Binfield si affacciavano alle soglie e scuotevano la testa: «Roba da matti. Volontario! Pensate un po’, un così bel ragazzo!». Per loro era uno scandalo bello e buono: arruolarsi era l’equivalente maschile di darsi al marciapiede. Il loro atteggiamento nei confronti della guerra e dell’esercito era molto curioso. Avevano la buona vecchia convinzione inglese che le giubbe rosse sono la feccia della terra, e che chiunque scelga di esserne parte è destinato a morire alcolizzato e andare dritto all’inferno. Ma al tempo stesso erano buoni patrioti, esponevano la Union Jack alle finestre e consideravano articolo di fede il fatto che gli inglesi non fossero né potessero mai essere battuti sul campo. Allora tutti, anche gli anticonformisti, usavano intonare canzoni sentimentali sul tamburino morto in battaglia in paesi lontani. Quando fu liberata Mafeking, per poco non sfondammo i tetti a furia di grida di Osanna, e in ogni caso c’erano momenti in cui bevevamo le storielle dei boeri che buttavano in aria i bambini e li infilzavano sulla punta della baionetta. Il vecchio Brewer ne ebbe le tasche così piene, dei ragazzi che gli gridavano dietro “Krruuger!”, che verso la fine della guerra si tagliò la barba. L’atteggiamento popolare verso il governo era esattamente lo stesso. Tutti inglesi puro sangue, a Lower Binfield, e pronti a giurare che Vicky era la miglior regina che fosse mai esistita sulla faccia della terra, e che gli stranieri erano spazzatura; ma nessuno si sognava di pagare le tasse, neppure quella sui cani, se c’era modo di schivarla.
Prima e dopo la guerra, Lower Binfield votò per i liberali. Solo durante la guerra ci fu un’elezione suppletiva e la vinsero i conservatori. Io ero troppo piccolo per capire che cosa tutto ciò significasse; sapevo solo d’essere conservatore perché preferivo il nastro azzurro al rosso, e lo ricordo soprattutto a causa di un ubriaco che cadde lungo disteso davanti al George, e nell’eccitazione generale nessuno se ne accorse, cosicché lui rimase ore e ore sotto il sole col sangue che gli si rapprendeva e, quando fu ben rappreso, era color porpora. Al tempo delle elezioni del 1906, ero abbastanza grandicello per capirne più o meno qualcosa, e questa volta fui liberale perché tutti gli altri lo erano. Il popolino inseguì per mezzo miglio il candidato conservatore, e alla fine lo buttò in uno stagno pieno di canne palustri. A quei tempi si prendeva molto sul serio la politica: a distanza di settimane dalle elezioni, si cominciava a far scorta di uova marce.
Uno dei miei primissimi ricordi, come ho già detto, è la furibonda lite fra papà e zio Ezechiele quando scoppiò la guerra dei boeri. Zio Ezechiele aveva una piccola calzoleria in una traversa della strada principale, e a tempo perso faceva il ciabattino. Il suo era un giro d’affari modesto, che tendeva di anno in anno a restringersi; ma questo non aveva molta importanza, perché zio Ezechiele era scapolo. Era un fratellastro di mio padre, e molto più vecchio, più vecchio di almeno vent’anni; e per i quindici anni che lo conobbi rimase sempre esattamente uguale. Era un bell’uomo alto, coi capelli bianchi e le più candide basette che abbia mai visto, candide come la lana. Aveva un modo tutto particolare di battere le mani sul grembiule di cuoio e di ergersi – per reazione al continuo star curvo, immagino –, dopodiché ti latrava in faccia le sue idee, terminando con una specie di macabro sogghigno. Era un autentico liberale di stampo ottocentesco, il tipo capace non solo di chiederti che cosa aveva detto Gladstone nel ’78, ma anche di darti la risposta, e uno dei pochissimi di Lower Binfield che non cambiò gabbana per tutta la durata della guerra. Era sempre lì a denunciare Joe Chamberlain, e la mala razza che lui designava con l’epiteto di “canaglia di Park Lane”. Mi par di sentirlo mentre bisticcia con papà: «Loro e il loro immenso impero! Mai troppo grande, ih-ih-ih!». E la voce del babbo, una voce quieta, pensosa, ragionata, ribattergli con la storia dell’uomo bianco e del nostro dovere verso quei poveri negri, che i boeri trattavano in modo vergognoso. Per circa una settimana, dopo che zio Ezechiele si fu proclamato filoboero e inglese “non espansionista”, i due non si scambiarono che pochi monosillabi. Ebbero un’altra lite quando cominciarono a correre notizie di atrocità. Mio padre era profondamente turbato dai racconti che udiva in giro, e sondò zio Ezechiele in merito. Non espansionista o meno, certo lo zio reputava ingiusto che i boeri buttassero in...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Cronologia
- Bibliografia
- Una boccata d’aria
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Copyright