Fontamara
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Fontamara

Ignazio Silone

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Fontamara

Ignazio Silone

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La vita di desolazione e sfruttamento di una comunità contadina nell'Italia meridionale. Una saga dolorosa di uomini che subiscono l'ingiustizia e la sopraffazione come ineluttabili, fino all'inevitabile ribellione. Un romanzo-testimonianza di grande forza poetica, capolavoro di Silone (1900-78).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852062100

II

Il giorno dopo, all’alba, tutta Fontamara fu in subbuglio, per un malinteso.
All’entrata di Fontamara, sotto una macera di sassi, sgorga una povera polla d’acqua, simile a una pozzanghera. Dopo alcuni passi, l’acqua scava un buco, sparisce nella terra pietrosa, e riappare ai piedi della collina, più abbondante, in forma di ruscello. Prima di avviarsi verso il piano, il ruscello col suo fosso fa molti giri. Da esso i cafoni di Fontamara han sempre tratto l’acqua per irrigare i pochi campi che possiedono ai piedi della collina e che sono la magra ricchezza del villaggio. Per spartirsi l’acqua del ruscello ogni estate fra i cafoni scoppiano spesso liti furibonde. Negli anni di maggiore siccità, le liti finiscono talvolta a coltellate; ma non per questo l’acqua aumenta.
In quella stagione da noi si usa che, al mattino presto, alle tre e mezzo o alle quattro, essendo ancora buio, gli uomini si alzano, bevono un bicchiere di vino, caricano l’asino e in silenzio prendono la via del piano. Per non perdere tempo ed arrivare prima che il sole sia alto, la colazione si fa per strada; la colazione? un tozzo di pane con una cipolla, o con un peperone, o con una crosta di formaggio.
Ora avvenne che gli ultimi cafoni di Fontamara, i quali alla mattina del due giugno scesero la collina per andare al lavoro, s’incontrarono al piano con un gruppo di cantonieri, arrivati dal capoluogo con pale e picconi per deviare l’acqua (secondo quello che essi dissero), per allontanare il misero ruscello dai campi e dagli orti che esso aveva sempre irrigato, sempre, a memoria d’uomo, e per avviarlo nel senso contrario, in modo da obbligarlo a costeggiare dapprima alcune vigne e a bagnare infine delle terre che non appartenevano ai Fontamaresi, ma ad un ricco proprietario del capoluogo, don Carlo Magna. Costui appartiene ad una delle più vecchie famiglie della nostra contrada, ora, per colpa sua, assai decaduta, ed è chiamato così perché alla domanda: «Si può parlare con don Carlo? È in casa don Carlo?» la serva risponde, per lo più: «Don Carlo? magna. Se volete», aggiunge sempre «potete parlare con la padrona». In quella casa, infatti, adesso chi comanda è la donna.
In un primo momento noi pensammo che i cantonieri volessero burlarsi di noi. Gli abitanti del capoluogo (non tutti, si capisce, ma i soliti sfaccendati) non lasciano mai passare le occasioni per beffarsi dei Fontamaresi. A raccontare tutte le burle da essi giuocateci negli ultimi anni non basterebbe una settimana e per darvene una idea è forse sufficiente ricordare la famosa beffa dell’asino e del curato.
Da una quarantina d’anni Fontamara non ha un curato. La parrocchia ha una rendita troppo piccola per mantenere un prete: la chiesa è solita ad aprirsi solo nelle grandi solennità, quando dal capoluogo viene un sacerdote per leggere la messa e spiegarci il Vangelo. Due anni fa i Fontamaresi inviarono un’ultima supplica al vescovo perché anche la nostra chiesa avesse un prete fisso. Nessuno di noi si faceva illusione, ma la petizione fu mandata. E dopo alcuni giorni fummo avvertiti, contro ogni nostra aspettativa, che la supplica era stata bene accolta dal vescovo e che dovevamo prepararci a festeggiare l’arrivo del nostro curato. Noi, naturalmente, facemmo del nostro meglio per preparare un ricevimento. Siamo poveri, ma conosciamo le convenienze. La chiesa fu interamente ripulita. La via che sale a Fontamara fu riaccomodata e in alcuni punti allargata. All’entrata di Fontamara fu costruito un grande arco di trionfo con drappi e fiori. Le porte delle case furono adorne di rami verdi. Infine, nel giorno fissato, tutto il paese andò incontro al curato che doveva arrivare dal capoluogo. Dopo un quarto d’ora di cammino, vedemmo da lontano una strana folla di gente che ci veniva incontro. Non si scorgevano in essa autorità e sacerdoti, ma tipi strani e molti giovinastri. Noi continuammo ad avanzare in processione, dietro lo stendardo di San Rocco, cantando inni sacri e recitando il rosario. Innanzi procedevano gli anziani col general Baldissera che doveva fare un piccolo discorso, dietro seguivano le donne e i ragazzi. Quando fummo dappresso alla gente del capoluogo, ci schierammo ai cigli della via per accogliere tra noi il nuovo curato. Solo il general Baldissera si fece avanti, agitando il cappello e gridando commosso:
«Viva Gesù! Viva Maria! Viva la Chiesa!»
In quel momento anche la strana folla del capoluogo si aprì e ne venne avanti, spinto a furia di calci e di sassate, il nuovo curato, nella forma di un vecchio asino, adorno di carte colorate come paramenti sacri.
Scherzi simili, come ognuno capisce, non si dimenticano facilmente, anche se gli sfaccendati del capoluogo s’incaricano di giuocarcene sempre di nuovi. Perciò noi pensammo che la deviazione del ruscello probabilmente fosse una nuova beffa. Infatti, sarebbe proprio la fine di tutto, se il capriccio degli uomini cominciasse ad influire perfino sugli elementi creati da Dio, cominciasse a deviare il corso del sole, il corso dei venti, il corso dell’acqua stabiliti da Dio. Sarebbe come se ci avessero raccontato che gli asini stavano per volare; o che il principe Torlonia stava per cessare di essere un principe; o che i cafoni stavano per cessare di patire la fame; in una parola, che le eterne leggi di Dio stavano per cessare di essere le leggi di Dio.
Ma i cantonieri, senza altre spiegazioni, avevano messo mano alle pale e ai picconi per scavare il nuovo letto dell’acqua. Allora lo scherzo sembrò oltrepassare i limiti. Un cafone, il figlio di Papasisto, tornò su, a Fontamara; allarmò ognuno che trovò per strada.
«Bisogna correre, provvedere subito» ripeté affannosamente ad ognuno. «Bisogna avvertire i carabinieri, avvertire il sindaco, giù, nel capoluogo, al più presto.»
Di uomini, in paese non ce n’erano. Nel mese di giugno gli uomini han troppo da fare con la campagna. Dovevano andare le donne. Ma con le donne successe questo – voi sapete come siamo – il sole era già alto e ancora non eravamo in cammino. Tutto il paese fu messo a rumore; le donne si ripetevano la notizia da un vicolo all’altro; anche quelle che già sapevano di che si trattava, se lo facevano ripetere dieci volte da ognuno che passava davanti alla loro porta; però nessuna si muoveva. Come tutte le mattine a quell’ora, io stavo in casa della povera Elvira la tintora, che da poco aveva perduto la mamma e aveva il padre impedito dopo la disgrazia della cava di pietre. Io aiutavo Elvira nella pulizia del vecchio, che si lamentava e bestemmiava e come al solito invocava la morte con grande afflizione della figlia. Quando sentii la notizia dei cantonieri, non ci credetti. Insomma, nessuna pensava di muoversi. Nessuna pensava di andare. Nessuna “poteva” allontanarsi di casa. Chi aveva i figli, chi le galline, chi il porco, chi la capra, chi il bucato, chi lo zolfo per la vigna, chi i sacchi per la trebbiatura. Come al solito nessuna “poteva” andare. Ognuna insomma voleva farsi i fatti suoi. Allora Marietta si fece avanti “perché lei sapeva come si parla con le autorità”. Marietta trovò come compagna un’altra donna, è meglio non fare il nome, un’altra donna che aveva il marito in America da dieci anni ed era anch’essa incinta e difficilmente poteva credersi che il marito avesse ottenuto quel risultato da così lontano.
«Dobbiamo noi permettere» mi venne a dire la moglie di Michele, eccitatissima «che in una questione riguardante tutto il paese, Fontamara sia rappresentata, parlando con rispetto, da due donnacce?»
«Matalé, vacci» mi disse Elvira. «Non possiamo fare brutta figura.»
Sarebbe stato uno sfregio, uno scorno per noi tutte. Corremmo perciò a parlare con Lisabetta Limona e Maria Grazia e le convincemmo a venire con noi, nel capoluogo. Maria Grazia si tirò dietro la Ciammaruga, che si tirò dietro la figlia di Cannarozzo, che si tirò dietro Filomena e la Quaterna.
Eravamo riunite davanti alla chiesa e già pronte per partire, quando la moglie di Pilato andò su tutte le furie perché non l’avevano chiamata.
«Volete fare le cose di nascosto?» si mise a gridare. «Volete fare gli interessi vostri a spese degli altri? Credete che la terra di mio marito non abbia bisogno d’acqua?»
Dovemmo aspettarla finché si vestisse. Ma invece di spicciarsi essa andò a chiamare la Castagna, la Recchiuta, Giuditta Scarpone, la Fornara e le convinse a venire con noi al capoluogo. Voleva venire anche la vecchia Faustina, la moglie di quello che da vent’anni è all’ergastolo; ma noi le dicemmo:
«Che ci vieni a fare? Tuo marito non ha mica bisogno d’acqua per la terra.»
«E se nel frattempo lo rimettono in libertà?» ci rispose Faustina.
«Da vent’anni l’aspetti, eppure non esce» le dicemmo noi. «E se anche uscisse, chi gli darebbe i soldi per ricomprare la terra?»
«Dite piuttosto che vi vergognate se vengo con voi» ci rinfacciò allora la vecchia, e si rinchiuse in casa per non farsi vedere piangere.
Eravamo dunque già un gruppo di una quindicina di donne pronte a partire, ma dinanzi alla bottega di Baldissera dovemmo ancora aspettare Marietta che si faceva i ricci; e infine apparve col suo vestito di domenica, lo zinale nuovo, una collana di corallo e la patacca d’argento dell’Eroe defunto sul petto. Così, il sole era già alto quando uscimmo dal paese. Faceva un’afa da vomitare. A quell’ora neppure i cani si mettono in cammino. La polvere accecava.
Quando i cantonieri ci videro scendere verso il piano, vocianti, avvolte da una nuvola di polvere, ebbero paura e scapparono attraverso le vigne.
La Limona propose allora che si tornasse senz’altro indietro perché l’effetto era raggiunto; ma Marietta, che aveva lo zinale nuovo e si era fatti i ricci, disse che bisognava andare ugualmente al capoluogo, perché i cantonieri non agivano di loro capriccio, ma per ordine del comune. Lei conosceva gli usi delle autorità. Noi discutevamo su quello che convenisse fare, e propendevamo per il ritorno, quando Marietta troncò ogni discussione:
«Se voi avete paura» ci disse «andremo noi due» e si tirò dietro l’altra donna sua pari.
E insieme proseguirono nella direzione del capoluogo.
«Non possiamo permettere che Fontamara sia rappresentata, parlando con rispetto, da due donnacce» dicemmo noi, e riprendemmo la strada, dietro le due che ci precedevano.
Sulla strada del piano il caldo era come in una fornace. L’aria era quasi nera. Andavamo avanti come un branco di pecore con la lingua fuori. Non so dove alcune prendessero la forza per lamentarsi.
Ci fermammo a riposarci un momento all’ombra del muro del cimitero. Addossati al muro sporgevano alcuni mausolei di cafoni arricchiti in America; non si erano arricchiti abbastanza per comprarsi una casa e una terra e per vivere meglio; ma abbastanza per una tomba che dopo morte li eguagliasse ai galantuomini. Ma anche all’ombra non si respirava.
Arrivammo al capoluogo solo verso il mezzogiorno. Il polverone della strada ci aveva imbiancate come se fossimo state al molino; quando apparimmo sulla piazza del municipio, molti ebbero paura. Il nostro aspetto non doveva essere rassicurante. I negozianti accorsero fuori delle botteghe e abbassarono in fretta, timorosamente, le saracinesche. Alcuni fruttaioli che erano in mezzo alla piazza scapparono con le ceste sul capo. Le finestre e i balconi si gremirono in un attimo di persone ansiose. Sulla porta del municipio apparvero impauriti alcuni impiegati. Forse si aspettavano che noi prendessimo d’assalto il comune? In realtà noi marciammo in gruppo serrato, verso la porta del municipio ma senza un’idea precisa. In quel mentre la guardia campestre gridò da una finestra del municipio:
«Non le fate entrare. Riempiranno il municipio di pidocchi.»
A quella voce il timore sparì d’incanto e tutti scoppiarono in una grande risata. Quelli che prima tremavano, quelli che già scappavano di paura, quelli che avevano chiusi i loro negozi, quelli che avevano preso la fuga con le ceste sul capo tornarono indietro e presero a deriderci. Noi ci addossammo sconcertate accanto alla porta del municipio. Lusingato dal successo, la guardia campestre riprese a raccontare, a voce altissima, storielle incredibili sui Fontamaresi e sui loro pidocchi. Nella piazza tutti ormai ridevano a crepapelle. In un balcone dirimpetto un signore si teneva letteralmente la pancia con le mani per il troppo ridere. Un orologiaio, rialzando la saracinesca del suo negozio, quasi piangeva per l’ilarità. Sulla porta del municipio erano accorsi altri impiegati e perfino impiegate e tutti insieme ridevano fragorosamente.
A una di quelle donnette che mi stava vicino, io dissi, senza però alzare la voce:
«Non vi vergognate?»
«E perché?» mi rispose ridendo.
«Guai a chi ride quando gli altri piangono» cercai di spiegarle. «Guai a chi ride in tempo di sventura.»
Ma quella non mi capì. Ad ogni modo, noi non sapevamo più che fare. Per strada Marietta aveva detto e ripetuto che lasciassimo fare a lei, ma di fronte a tutta quella gente che rideva, lei stessa era impacciat...

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