Calcio totale
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Calcio totale

La mia vita raccontata a Guido Conti

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Calcio totale

La mia vita raccontata a Guido Conti

Informazioni su questo libro

Lo scudetto all'esordio in serie A con il grande Milan; la partita perfetta contro il Real Madrid, trafitto cinque volte; Barcellona invasa da ottantamila milanisti per il più grande esodo calcistico della storia; la finale vinta con lo Steaua, per la sua prima Coppa dei Campioni; l'epopea del mondiale americano del '94, con la finale raggiunta grazie al gioco e alla forza della disperazione, trascinando al tifo un'intera nazione: questi sono alcuni gloriosi momenti della vita di Arrigo Sacchi, il «profeta di Fusignano». È proprio a partire dal piccolo paese natale a una trentina di chilometri da Ravenna che si sviluppa il racconto autobiografico di Arrigo: il padre gli regala il primo pallone e lui è il bambino più felice del mondo, gioca terzino sinistro ma capisce subito di non essere tagliato per il «calcio giocato». Sarà Alfredo Belletti, bibliotecario e maestro di vita, il primo a suggerirgli un'altra via per rimanere nell'ambiente: «Se non puoi giocare, fa' l'allenatore!». In questo libro, scritto con penna sincera e ricco di humour romagnolo, Sacchi ci spiega che cosa ha significato per lui «fare l'allenatore»: lasciare il posto sicuro in una fabbrica di scarpe e scegliere un lavoro ricco di incognite e, all'inizio, non certo remunerativo; spaccare in due il mondo del giornalismo sportivo e del tifo con l'integralismo della sua filosofia calcistica, una versione riveduta e corretta del «calcio totale» olandese che ha segnato uno spartiacque nella storia dell'Italia del pallone; avere a che fare con presidenti del calibro di Silvio Berlusconi e Florentino Pérez; passare notti insonni a preparare partite e a studiare gli avversari, sempre più divorato dall'ansia di prestazione e dallo stress. Lo guiderà, in ogni tappa della sua incredibile carriera (in quattro anni sulla panchina del Milan ha vinto uno scudetto, una Supercoppa italiana, due Coppe dei Campioni, due Supercoppe europee e due Coppe Intercontinentali), un ardente e appassionato amore per il calcio, per lo sport inteso anche come etica e scuola di vita, capace di formare il destino non solo di un uomo, ma anche dei giovani di un intero Paese. Calcio che gli ha dato e gli ha tolto tanto, «come fa la fiamma che dà una grande luce, si spegne presto ma soprattutto illumina il cielo». Oggi, al termine di una feconda esperienza con le nazionali giovanili, l'uomo che il «Times» ha nominato nel 2007 «il miglior allenatore italiano di tutti i tempi» ha deciso di prendersi un meritato riposo e di mettere su carta le sue memorie. Vuole solo tornare a essere un uomo normale, godersi la famiglia e dispensare consigli non più a Carlo Ancelotti o a Ruud Gullit, ma alla sua adorata nipotina.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804648048
eBook ISBN
9788852063114
1

Fusignano

Panta rei, tutto scorre.
ERACLITO
C’è un giorno nell’infanzia di ognuno di noi che segna per sempre la nostra storia e il nostro destino. Alcuni lo ricordano, altri lo hanno dimenticato. Quel giorno, io l’ho scolpito nella memoria.
Eravamo in piena estate. Allora Fusignano era un paese agricolo, i campi coltivati si estendevano immensi sotto un cielo infinito, talmente vasto che, dicevano, faceva diventare tutti matti. Tra i campi serpeggiavano le carraie, dove passavano solo carri tirati dai cavalli. Le strade, non asfaltate, erano polverose.
Avevo camminato a lungo, ero stanco, sporco, sudato. Mi sedetti sopra una pietra miliare, tra il frinio delle cicale. Una gran sete mi asciugava la bocca. Ero emozionato e pieno di aspettative: mio padre Augusto mi aveva promesso un regalo perché ero stato bravo a scuola. Uno dei primi insegnamenti l’ho appreso proprio da lui: «Se ti impegni, avrai una ricompensa».
Guardavo lontano, oltre il verde dei campi di granoturco e gli alberi pieni di frutti. All’improvviso intravidi una nuvola di fumo alzarsi all’orizzonte. Era mio padre, che arrivava dalla città con una delle sue prime automobili. Come lo vidi, mi alzai in piedi e gli corsi incontro. Un po’ per la luce, un po’ per la sorpresa di vedermi lungo la strada, frenò all’ultimo momento e si fermò a qualche metro da me. Rimase a guardarmi dietro il vetro, mentre una nuvola di polvere ci avvolgeva. Nel silenzio della pianura, aprì piano la portiera e mi fissò senza dire una parola.
Dietro la schiena nascondeva il mio primo pallone. Fece un grande sorriso e me lo lanciò. Io lo presi e lo guardai meravigliato, girandolo tra le mani. Un pallone nuovo, che profumava di cuoio, con la cucitura che nascondeva la camera d’aria. Lo soppesai, annusandolo a lungo. Poi, ridendo, sotto lo sguardo divertito di mio padre, gli diedi un calcio e lo tirai tra le nuvole.
Mio padre è stato molto importante nella mia vita. Come rivela il cognome, Sacchi, era lombardo, originario di Mandello del Lario. Era tornato a casa alla fine della guerra dopo aver volato sugli aerosiluranti come addetto ai motori. Una volta gli chiesi: «Ma tu, papà, non hai amici?». Dopo un lungo silenzio lui mi rispose, senza guardarmi negli occhi: «No. Sono tutti morti!». Dei soldati che volavano su quegli aerei, solo una piccola percentuale tornava a casa. Lui era stato uno dei pochi.
Io sono nato il 1° aprile del 1946, quattro anni dopo mio fratello Gilberto. Facendo un po’ di conti, appena tornato a casa mio padre doveva avere una gran voglia di vivere con mia madre. Credo che anche questo fatto abbia segnato il mio carattere volitivo e il mio destino di uomo. Ho sempre cercato di dare una forma alla bellezza creando un gioco capace di esprimere la gioia di vivere e di far divertire il pubblico. Anche questo bisogno di vitalità e di sogni che mio padre mi ha lasciato in eredità è un insegnamento da trasmettere alle nuove generazioni.
Mio padre leggeva sempre «La Gazzetta dello Sport». In paese era l’unico che comprava il giornale. Alla fine della settimana faceva il baratto con il nostro vicino di casa, un ortolano che usava il «Corriere» e gli altri quotidiani per fare «al scartòz», come lo chiamano ancora qui a Fusignano, il cartoccio per vendere le ciliegie o la frutta in genere. Era uno scambio alla pari.
Abitavamo insieme alla nonna in una casa di fronte alla villa di Vincenzo Monti, poeta e traduttore dell’Iliade, che aveva vissuto qui a Fusignano. I miei nonni avevano un forno ed era un via vai continuo di gente.
Da bambino mi piacevano tutti gli sport. Se giocavo a pallone immaginavo di essere Boniperti o Pandolfini, se correvo in bicicletta pensavo di essere Coppi o Bartali. Questa è una terra di corse e di velocità, e anche questo ce l’ho nel Dna. Con mio padre andavo spesso a Imola per le gare automobilistiche. Però, dopo aver assistito a un incidente mortale, non volli più vederle.
Quando ho ricevuto in dono il mio primo pallone di cuoio, tutti volevano giocare con me. Con i più grandi non riuscivo mai a toccare la palla, non mi divertivo per niente. Una volta mi arrabbiai talmente che corsi, agguantai il pallone e me ne andai via senza salutare. Non mi stavo divertendo, e il pallone era mio. E l’essere protagonista, padrone del campo e del pallone, già allora era, e sarà sempre, centrale nella mia visione di gioco. E quello era un regalo di mio padre.
Ricordo una volta a San Mauro. Avevo otto anni, mi trovavo al mare con una zia. A un certo punto sparii. Mi cercarono preoccupati per tutto il lungomare, la paura nel cuore stava diventando panico. Poi a mia zia venne un’illuminazione. Si diresse in centro, verso un bar dove volevo sempre fermarmi. Era pieno di gente, una calca mai vista. Lì c’era l’unica televisione del paese. La Rai, per la prima volta nella sua storia, trasmetteva i Mondiali di calcio. Era il 1954. Io stavo in piedi sopra un tavolo, tra il fumo delle sigarette e le urla della gente accalcata, e guardavo le immagini in bianco e nero di non ricordo più quale partita. Fissavo il televisore, osservando incantato le azioni e i gol. Era come un sogno a occhi aperti. Non potevo immaginare che, esattamente quarant’anni dopo, avrei guidato la Nazionale italiana ai Mondiali americani del 1994. E non potevo immaginarlo nemmeno quando guardai la finale messicana del 1970, con 41 di febbre dopo aver mangiato un piatto di cozze.
Da ragazzino ero davvero una peste. Mia mamma, la Lucia di furnèr, la Lucia dei fornai, come la chiamavano in paese, sapeva che mi mettevo sempre nei guai. Mi arrampicavo sugli alberi, correvo a piedi e in bicicletta, e poi sparivo sempre per un bel po’ di tempo.
Una volta, a Montecatini, la mamma non mi trovò più. Io me ne andavo in giro spensierato, senza preoccuparmi della sua disperazione. A un certo punto, facendo domande in strada alla gente, qualcuno le indicò un bambino chiacchierone che dissertava di calcio con un gruppo di persone. Mi ascoltavano affascinate. Mamma non mi sgridò, mi prese per mano e mi riportò a casa.
Non mi piaceva andare a scuola. Mi pareva di perdere tempo, ritenevo che le materie che studiavo fossero lontane dalla realtà, e quel mondo non mi sembrava interessante. In classe ero disattento, non studiavo, guardavo fuori dalla finestra o sognavo inventando telecronache di partite di calcio.
Dopo le medie, mi iscrissi alla ragioneria a Lugo. Un disastro. Ogni scusa era buona per saltare la scuola. Insieme a un amico, arrivai persino a organizzare uno sciopero per protestare contro gli esperimenti nucleari della Cina. Un’altra volta andammo al cinema a Ravenna, e sul pullman di ritorno non incontriamo mica il preside della scuola? Restammo tutto il viaggio nascosti dietro i sedili, in fondo, sperando che non si accorgesse di noi. E un’altra volta, per giustificare tutte le assenze, un mio amico, il cui padre era economo dell’ospedale, rubò un ricettario che usammo in quattro o cinque, con firme false. Successe un putiferio. Andai a settembre con tutte le materie.
Per quanto riguarda la scuola, diedi un grosso dispiacere a mia madre. È stato uno dei grandi errori della mia vita, perché poi ho dovuto studiare per altri quaranta o cinquant’anni. La mia era una tensione al fare, volevo buttarmi nella vita. I giovani come me aprivano aziende, scommettevano sul futuro delle scarpe. Sentivo la frenesia di un paese a vocazione agricola che stava diventando un polo industriale e manifatturiero.
E poi non amavo le imposizioni. Una volta non volli andare con i miei genitori a vedere la Spal, la squadra di Ferrara in cui mio padre aveva giocato da giovane. Loro, per punizione e per ripicca, presero la mia motoretta, la chiusero con un lucchetto e la misero in un garage. Quando tornarono dalla partita, avevo già aperto la porta e tagliato il catenaccio.
Io sono nato con una doppia anima, una lombarda e una romagnola. Quella lombarda mi viene da mio padre, con il senso del lavorare duro, del sacrificio, dell’impegno e della perfezione per ottenere certi risultati. A Fusignano mio padre era socio di due fabbriche di scarpe. Usciva alle sette di mattina, tornava a casa a mangiare un boccone e poi ripartiva fino all’ora di cena. Finito di mangiare, a volte lavorava in casa fino all’una o alle due di notte. È stato un esempio per me, mi ha fatto capire cosa voglia dire impegnarsi duramente e con tenacia.
L’anima romagnola, sognatrice ed energica, che mi viene da mia madre Lucia, affonda le radici nella terra. Penso anche ai sogni e alla follia, al fatto che a volte ho avuto delle visioni. Dicono che la follia e i sogni dei romagnoli che vivono tra Imola, Lugo e Fusignano siano dovuti alla presenza di due strutture: il manicomio centrale e il manicomio dell’Osservanza, costruiti a Imola tra fine Ottocento e inizio Novecento. Avevano dimensioni tali che erano considerati città dentro la città.
Ho sempre pensato che per avere successo nella vita, in ogni campo, sia importante una piccola percentuale di sogni e di talento, una parte di follia, ma che più del 90 per cento del successo e della realizzazione sia dovuto allo studio, al lavoro, alla pianificazione e al rinnovamento continuo. Ed è quello che ho perseguito per una vita intera.
Un tempo Fusignano era un paese agricolo che viveva sempre di notte. D’inverno i contadini non avevano niente da fare e rimanevano svegli fino all’alba a chiacchierare; d’estate stavano in piazza a prendere il fresco, poi la mattina, verso le cinque, tornavano a casa, facevano una doccia e andavano a lavorare nei campi. Si viveva di notte, tra il canto dei grilli, l’odore della polvere e del fieno tagliato. Tutto questo durò fino al dopoguerra e al boom economico, quando la costa si è trasformata in quello che ancora oggi è il mito della riviera, delle vacanze, dell’amore libero e dell’estate vissuta nella spensieratezza tra amici e incontri con le ragazze straniere.
Rimini, Riccione, ma soprattutto Milano Marittima, erano per noi giovani il divertimento. L’incontro con le ragazze tedesche e svedesi era un aprirsi al mondo, alle lingue straniere, ad altre culture. A meno di un’ora di strada, si passava da un piccolo paese di campagna a un mondo completamente diverso, fatto di mare, bikini e luci al neon, di gioia di vivere e avventure. Poi, verso le tre o le quattro del mattino, ci si dava appuntamento in piazza a Fusignano e ci raccontavamo le imprese della sera precedente.
Ricordo una notte in particolare. Era forse il 1991 o il 1992. Tornavo verso Fusignano con il mio amico Italo Graziani, detto «il prof», dopo aver ritirato un premio. A mezzanotte, in piazza, incontrammo un amico di Italo, appena tornato in Italia dagli Stati Uniti, dove abitava da anni perché aveva sposato una hostess americana. Ci scambiammo grandi baci e abbracci e poco alla volta l’americano ci chiese dei suoi amici di gioventù, come stavano, cosa facevano.
«Se aspetti, tra poco vengono» gli rispondemmo.
Dopo un po’ cominciarono tutti ad arrivare alla spicciolata dalla riviera, e fu una gran festa. Tra gli amici di una volta ne mancava solo uno, e l’americano chiese proprio di lui.
«S’è innamorato di un viado!» gli rispose uno della compagnia.
«Il mio amico si è innamorato di un viado?» si stupì l'altro.
«Ma tu dove vivi, in Patagonia o a San Francisco? Non sai che nel Duemila e nel nuovo secolo l’amore sarà con i viados?»
L’americano era sempre più spaesato. Non capiva cosa fosse successo in tutti quegli anni. E così uno della compagnia cominciò a raccontare.
«L’altra sera ero a Rimini, al Paradiso. Una brutta serata. Non c’era nessuno, solo qualche giovane, quando all’improvviso entra una ragazza, bellissima, meravigliosa, che con la sua presenza illumina il buio e i tavolini vuoti. Allora la invito al mio tavolo. Cominciamo a ridere, a scherzare, beviamo champagne e ridiamo come matti. Alla fine della serata usciamo in macchina, ci appartiamo e lei comincia a riempirmi di baci, dolci, sul collo, sulle mani, fino a quando mi apre la patta e mi bacia proprio lì. Allora, preso dalla foga e dall’entusiasmo, cosa faccio? Allungo una mano e cerco le mutandine sotto la minigonna, quando, dopo un attimo, mi fermo. Trovo la sorpresa!»
«E tu cosa hai fatto?»
«Lei era così brava che a un certo punto ho detto: “Poi, quando hai finito, io e te facciamo i conti!”.»
Scoppiammo tutti a ridere, ma non finì qui. Vicino alla piazza alcune donne stavano uscendo da una riunione di commercianti. Una di queste, formosa e piacente, una di quelle che per tutta la vita non hanno mai detto di no a un uomo, aveva sentito tutta la storia. Allora si avvicina a noi e con un sorriso malizioso commenta in dialetto: «Par nu dòn, a truvar n’uzél, l’è semper più difìzil». Cioè: per noi donne, trovarne «uno» è sempre più difficile.
Credo che questa storia sarebbe piaciuta a Federico Fellini. Avrei voluto raccontargliela, ma, con mio grande rammarico, non sono mai riuscito a incontrarlo.
Fusignano, come tutti i paesi, era un luogo di personaggi. Ce n’era uno straordinario, un certo professor Ido Silvagni, conosciutissimo ben oltre i confini del paese come astrologo, cartomante, spiritista e occultista.
Aveva cominciato la sua carriera sul lungomare come illusionista intorno alla metà degli anni Cinquanta. A Marina di Ravenna era famoso per farsi nascondere in una buca di sabbia e andare in catalessi. Tre o quattro ore dopo, prima che la marea ricoprisse il bagnasciuga, lo «resuscitavano». La sua spalla nei numeri di prestigio era un noto giocatore di carte che una volta, preso dalla foga del gioco, si dimenticò del professore. Poi all’improvviso si ricordò, scappò fuori dalla bisca e cominciò a correre urlando: «A gò al profesòr a mol!», perché la marea stava già ricoprendo il bagnasciuga.
Il professor Silvagni calcolava il tema natale con l’ora, il giorno e l’anno della nascita, e già sapeva a grandi linee quale sarebbe stato il tuo destino. Gli episodi e le storie su questo personaggio gigante, un omone che sapeva indagare le stelle, sono tanti. Una volta, quando allenavo il Bellaria, mi predisse che ci saremmo salvati. Io non sono superstizioso, ma il professor Silvagni aveva sempre una verità che poteva servire. Da allora farmi fare il profilo astrologico dei giocatori è diventato una regola. E lui lo faceva con grande precisione e acutezza. Una volta previde che Van Basten avrebbe sempre avuto infortuni: putroppo interruppe la carriera a soli ventotto anni. Un giorno confessò a Gianni Mura, in un suo famoso pezzo sulle mie origini, che «Sacchi ha caratteristiche astrologiche hitleriane, è un Ariete con Marte in congiunzione, ma non farà una brutta fine. Come Hitler, si è fatto da sé e ha un gran potere di suggestione. Ma non resterà a lungo nel calcio e si darà al commercio!». Un profilo hitleriano: mi fa ridere ancora oggi.
Dopo i miei genitori, l’uomo che ha segnato di pi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Calcio totale
  4. 1. Fusignano
  5. 2. Da Fusignano a Cesena
  6. 3. Il primo anno al Rimini
  7. 4. A Firenze con le giovanili
  8. 5. A Parma, la consacrazione
  9. 6. La cavalcata verso il primo scudetto
  10. 7. Il mio calcio
  11. 8. Una squadra da leggenda
  12. 9. Sul tetto del mondo
  13. 10. L’ultimo anno al Milan
  14. 11. In volo verso l’America
  15. 12. Il mondiale americano
  16. 13. Il campionato europeo
  17. 14. Milan, un ritorno amaro
  18. 15. In Spagna con l’Atlético Madrid
  19. 16. Basta, non allenerò più...
  20. 17. «Un giorno avanti»
  21. La carriera di Arrigo Sacchi
  22. Copyright