«I have a dream»
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«I have a dream»

L'autobiografia del profeta dell'uguaglianza

  1. 416 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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«I have a dream»

L'autobiografia del profeta dell'uguaglianza

Informazioni su questo libro

I have a dream è un'ideale autobiografia dei più importante e carismatico sostenitore della lotta al razzismo negli Stati Uniti. Nelle sue pagine Martin Luther King Jr rivive attraverso i suoi più importanti scritti pubblici e privati, raccolti qui per la prima volta, che ne tracciano un ritratto fondamentale e finora inedito. Attraverso episodi commoventi ed esaltanti si delineano l'infanzia e la famiglia d'origine, si narra l'educazione ricevuta e le discriminazioni subite, la vocazione religiosa, il rapporto con la moglie Coretta e con i quattro figli. E soprattutto si racconta il suo crescente impegno politico, che lo portò anche in carcere e lo condusse a essere considerato il principale punto di riferimento nella battaglia per l'emancipazione dei neri d'America. Un'opera che, attraverso preziosi documenti, ci fa riscoprire una delle pagine più drammatiche e ricche di speranza della storia dei ventesimo secolo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804498933
eBook ISBN
9788852062193
Argomento
Storia

«I have a dream»

I

Gli anni giovanili

Naturalmente, sono religioso. L’ambiente in cui sono cresciuto era legatissimo alla chiesa. Mio padre è un pastore, mio nonno era pastore, il mio bisnonno era pastore, il mio unico fratello è un pastore, il fratello di mio padre è pastore. Non ho avuto molta scelta.
25 NOVEMBRE 1926
Michael (in seguito, Martin) Luther King senior sposa Alberta Williams, figlia di A.D. Williams, pastore della chiesa battista di Ebenezer
15 GENNAIO 1929
Michael (in seguito, Martin) Luther King junior nasce nella casa di famiglia dei Williams e King ad Atlanta, al n. 501 di Auburn Avenue
21 MARZO 1931
Muore A.D. Williams; King senior gli succede nell’incarico di pastore di Ebenezer
18 MAGGIO 1941
Muore Jennie Celeste Williams, nonna di King junior; la famiglia si trasferisce al n. 193 del Boulevard, ad Atlanta
17 APRILE 1944
King junior compie un viaggio nella città di Dublin (Georgia), per svolgere il tema The Negro and the Constitution in un torneo oratorio
Sono nato verso la fine degli anni Venti, alla vigilia della Grande Depressione, destinata a produrre catastrofi in ogni angolo del nostro paese per oltre un decennio. Ero troppo piccolo per ricordare l’inizio della crisi, ma ricordo bene come, verso i cinque anni di età, chiedevo ai miei genitori di spiegarmi come mai ci fossero quelle file di gente in attesa. Scorgo il risultato di questa esperienza infantile nella mia attuale antipatia per il capitalismo.
La mia città natale è Atlanta, capitale dello stato della Georgia, detta la «porta del Sud». Per me Atlanta è casa. La nostra chiesa di Ebenezer, battista, si trova in Auburn Avenue. Oggi sono pastore associato di questa chiesa, e il mio ufficio presso la Southern Christian Leadership Conference [Congresso dei leader cristiani degli stati del Sud] è anch’esso in Auburn Avenue.
Ho frequentato per un certo periodo le scuole pubbliche di Atlanta, poi, per due anni, quello che all’epoca era l’Atlanta University Laboratory High School [Liceo sperimentale dell’Università di Atlanta]. Successivamente questo istituto è stato chiuso, e io sono passato al liceo Booker T. Washington.
Dal punto di vista della posizione sociale, sono nato in un ambiente normalissimo. Nella nostra comunità non c’era nessuno che avesse accumulato grandi ricchezze. Nella mia città natale, quasi tutti i negri benestanti abitavano in un quartiere cittadino detto «Hunter Hills». Il nostro quartiere si caratterizzava per una sorta di semplicità, di mancanza di sofisticazione. Nessuno apparteneva al gruppo dei poverissimi; forse la definizione giusta degli abitanti del quartiere è quella di persone con un reddito medio. Era un ambiente sano, anche se nessuno di noi si sarebbe mai potuto annoverare tra coloro che costituivano la «crema della società». Il tasso di criminalità era bassissimo, e i nostri vicini erano quasi tutti profondamente religiosi.
Fin da principio sono stato un bambino eccezionalmente sano. Mi è stato detto che alla nascita i medici mi trovarono perfetto al cento per cento, dal punto di vista fisico. Praticamente non so che cosa sia un giorno di malattia. E più o meno la stessa cosa potrebbe applicarsi alla mia vita mentale. Sono sempre stato piuttosto precoce, sia in senso fisico, sia in senso mentale. Perciò, dal punto di vista dei fattori ereditari, sembra che la natura sia stata molto generosa nei miei riguardi.
In famiglia c’era un clima di grande comprensione reciproca. Ho avuto dei genitori meravigliosi. Quasi non riesco a ricordare un momento in cui abbiano mai litigato (mio padre è una di quelle persone che proprio non litigano mai) o abbiano mai avuto un vero dissidio. Questi elementi hanno avuto un notevole peso nel determinare i miei sentimenti in materia di religione. Per me è facile concepire un Dio di amore soprattutto perché sono cresciuto in una famiglia in cui l’amore era al centro di tutto, e i rapporti d’amore erano sempre presenti. Per me è facile concepire l’universo come essenzialmente amichevole, soprattutto a causa dell’atmosfera solidale da cui ero circondato, per motivi ereditari e ambientali. Per quanto riguarda la natura umana, mi è facile propendere all’ottimismo, piuttosto che al pessimismo, soprattutto grazie alle esperienze vissute nell’infanzia.
Nel corso della mia vita personale, e nella vita di chi cerca di essere forte, ho constatato che nel carattere coesistono elementi in notevole antitesi: la combattività e la moderazione; l’idealismo e il realismo. E, secondo me, la mia ferma adesione alla giustizia mi viene dalla personalità forte e dinamica di mio padre, e voglio sperare che l’aspetto della gentilezza mi venga da una madre che è molto gentile e dolce.

«Mamma cara»

Mia madre, Alberta Williams King, è sempre rimasta fra le quinte, provvedendo a fornire quelle cure materne la cui assenza lascia un anello mancante nella catena della vita. È una persona molto devota, profondamente impegnata nella fede cristiana. A differenza di mio padre, è affabile e tranquilla, e sebbene per carattere sia piuttosto riservata è piena di calore e molto disponibile.
Alberta Williams era figlia di A. D. Williams, un pastore assai stimato, e poté crescere in un relativo benessere. Riuscì a frequentare le scuole e il liceo migliori, e in genere rimase al riparo dai mali peggiori della discriminazione. Essendo figlia unica, poté accedere a tutti i vantaggi di una studentessa di liceo e di college. Pur provenendo da un ambiente di relativa agiatezza, mia madre non ebbe mai un atteggiamento di compiacenza verso il sistema della segregazione razziale. Fin da principio instillò nei figli il senso della propria dignità.
Mia madre si trovò a dover affrontare l’annoso problema che negli Stati Uniti assilla tutti i genitori negri: come spiegare a un figlio piccolo la discriminazione e la segregazione. Mi ha insegnato a sentirmi «qualcuno», anche perché, tutte le volte che uscivo, dovevo affrontare un sistema che ogni giorno mi squadrava dall’alto in basso dichiarandomi «da meno», «non all’altezza». Mia madre mi parlò della schiavitù e di come fosse stata abolita dalla guerra civile. Cercò di spiegarmi il sistema di divisione vigente nel Sud degli Stati Uniti come una forma di gestione della società anziché come un fatto naturale: era il regime a produrre la segregazione vigente nelle scuole, nei ristoranti, nei teatri, nelle abitazioni; a imporre i cartelli per segnalare come le fontane, le sale d’attesa, i gabinetti pubblici fossero riservati ai bianchi oppure alla gente di colore. Lei metteva bene in chiaro la sua opposizione a tutto ciò: io non avrei mai dovuto permettere che quel regime mi facesse sentire inferiore. Poi diceva le parole che quasi tutti i negri si sentono dire, ancor prima di comprendere l’ingiustizia che le rende necessarie: «Tu hai lo stesso valore di chiunque altro». All’epoca, mia madre non aveva idea che, anni dopo, il bambino seduto sulle sue ginocchia si sarebbe impegnato a lottare contro quel sistema di cui lei gli parlava.

«Papà»

Martin Luther King senior ha una volontà altrettanto forte quanto il suo corpo. Ha una personalità dinamica, e per la sua stessa mole fisica (pesa poco meno di 110 chili) non può passare inosservato. È sempre stato molto forte e pieno di fiducia in se stesso. Ho conosciuto ben poche persone più coraggiose e ardite di mio padre, nonostante le paure che aveva per me. Non ha mai avuto nessuna soggezione di fronte ai personaggi prepotenti e brutali della comunità bianca. Se qualcuno di loro gli rivolgeva un’espressione ingiuriosa, lui non lasciava dubbi sul fatto di non averla gradito.
Mio padre era figlio di un bracciante, che aveva conosciuto la prepotenza in prima persona, e aveva cominciato a rispondere colpo su colpo fin dai primi anni di età. La sua famiglia abitava a Stockbridge, una cittadina della Georgia a una trentina di chilometri da Atlanta. Un giorno, mentre lavorava nella piantagione, si accorse che il caposquadra imbrogliava suo padre, non riconoscendogli una somma guadagnata con il sudore della fronte: lo disse al padre, alla presenza dello stesso proprietario della piantagione. Il caposquadra andò su tutte le furie e urlò: «Jim, se non tieni a posto questo negraccioa di tuo figlio, lo prendo a ceffoni». Il nonno, che per la sua sicurezza economica dipendeva quasi del tutto dal caposquadra, insistette perché papà stesse zitto.
Ripensando all’episodio a distanza di tempo, mio padre dice che proprio in quel momento prese la decisione di lasciare la fattoria. Spesso dice scherzando: «Non mi succederà più di mettere un mulo all’aratro». Pochi mesi dopo lasciò Stockbridge per Atlanta, deciso a prendere un titolo di studio. Aveva diciotto anni, quindi un anno di più rispetto a quasi tutti gli studenti che escono dal liceo: tuttavia cominciò col frequentarne uno e si fermò soltanto dopo essersi laureato al Morehouse College di Atlanta.
La cosa che ammiro di più in mio padre è il suo autentico spirito cristiano. È un uomo dotato di genuina integrità, che aderisce fin dal profondo di se stesso ai principi dell’etica e della morale. In tutte le cose che fa si comporta secondo coscienza. Anche chi non condivide la sua franchezza deve ammettere la sincerità dei suoi atti e delle sue motivazioni. Non esita mai a dire la verità e a esprimere ciò che pensa, per quanto possa essere tagliente. Spesso la sua franchezza porta le persone addirittura a temerlo. Mi è capitato di sentirmi dire, sia da giovani sia da vecchi: «Tuo padre mi mette addosso una paura tremenda». E davvero, è rigido sotto molti aspetti.
Mio padre si è sempre interessato parecchio ai diritti civili. È stato presidente della NAACP [National Association for the Advancement of Colored People] di Atlanta, e ha sempre sostenuto le riforme sociali. Già prima che nascessi si rifiutava di usare gli autobus cittadini da quando aveva assistito alla brutale aggressione contro una vettura pubblica carica di passeggeri negri. Ad Atlanta aveva guidato la battaglia per parificare gli stipendi degli insegnanti e nella sede del tribunale aveva contribuito a eliminare gli ascensori riservati alle persone di colore.
Come pastore della chiesa battista di Ebenezer, mio padre godeva di grande influenza nella comunità negra e forse si era guadagnato un certo riluttante rispetto da parte dei bianchi. In ogni modo, non subì mai aggressioni fisiche, il che colmava di stupore mio fratello, mia sorella e me, mentre crescevamo in un’atmosfera sovraccarica di tensione. Tenendo conto del mio patrimonio ereditario, non c’è da stupirsi che anch’io abbia imparato ad aborrire la segregazione, considerandola priva di ogni spiegazione razionale oltre che ingiustificabile dal punto di vista etico.
Non ho mai provato l’esperienza di dover rinunciare alle risorse minime essenziali. Queste cose mi sono sempre state assicurate, grazie a un padre che ha messo sempre la famiglia al primo posto. Egli non ha mai guadagnato nulla al di sopra di uno stipendio normale, ma il suo segreto era che conosceva l’arte di risparmiare e di pianificare il proprio bilancio. Ha sempre avuto tanto giudizio da non vivere al di sopra dei propri mezzi. Per questa ragione era in grado di procurarci il necessario senza troppa fatica. Io ho frequentato l’intero corso di studi senza mai doverli interrompere per cercarmi un lavoro.
I primi venticinque anni della mia vita sono stati molto confortevoli. Se avevo una difficoltà potevo sempre rivolgermi al babbo. Le cose venivano risolte. La vita mi arrivava confezionata come un regalo di Natale. Non per dire che io sia nato con la camicia; tutt’altro. Ho sempre desiderato lavorare, e trascorrevo le estati lavorando.

«I dubbi si presentano alla mente senza sosta»

Ho abbracciato la fede all’età di cinque anni. Ricordo bene le circostanze di questo evento. Nella nostra chiesa era in corso un revival di primavera, e dalla Virginia era venuto un predicatore evangelico che noi avevamo ospitato. Una domenica mattina l’evangelista venne nella nostra classe della scuola domenicale per parlarci della salvezza, e dopo una breve spiegazione su questo punto invitò quanti di noi lo desideravano a entrare nella comunità dei fedeli. Quel giorno mia sorella fu la prima, e dopo aver assistito alla sua professione di fede io decisi che non avrei potuto essere da meno, e perciò la imitai. Non avevo mai riflettuto sull’argomento, e anche nel momento del battesimo non mi rendevo conto di quel che stava accadendo. Si capisce quindi che la mia adesione alla chiesa non derivava da una convinzione dinamica, bensì dall’infantile desiderio di non restare indietro rispetto a mia sorella.
Per me la chiesa è sempre stata una seconda casa. Per quanto scavi nella memoria, non ricordo nessuna domenica in cui non sia andato in chiesa. I miei migliori amici frequentavano la scuola domenicale, e fu la scuola domenicale ad aiutarmi a imparare ad avere rapporti con la gente. Penso fosse inevitabile, dato che il pastore della mia parrocchia era mio padre, ma frequentare la chiesa non mi fu mai sgradito, tranne durante il secondo anno del college, quando attraversai una fase di scetticismo religioso.
La dottrina che mi veniva impartita durante le lezioni alla scuola domenicale era senz’altro di tipo fondamentalista. Nessuno dei miei insegnanti metteva mai in dubbio l’infallibilità delle Scritture. Erano per lo più persone prive di cultura letteraria, che non avevano mai sentito parlare di critica biblica. Naturalmente, io accettavo il loro insegnamento così come mi veniva impartito. Non sentii mai il bisogno di metterlo in dubbio: o almeno, non a quell’epoca. Credo di aver accettato lo studio biblico in modo del tutto acritico fin verso i dodici anni di età. Ma un simile atteggiamento non poteva durare a lungo, perché andava contro il mio stesso modo di essere. Ero sempre stato un bambino precoce e pieno di interrogativi. A tredici anni, scandalizzai tutti alla scuola domenicale negando la resurrezione corporale di Gesù. I dubbi cominciarono ad affacciarsi alla mente senza sosta.

«Come potevo amare una razza di gente che mi odiava?»

Tra la fine dell’infanzia e la prima adolescenza accaddero due fatti che ebbero un effetto fortissimo sulla mia evoluzione. Il primo fu senza dubbio la morte della nonna. Tutti noi le volevamo molto bene, ma io particolarmente. A volte credo di essere stato il suo nipote prediletto. La sua morte mi colpì in modo specifico soprattutto per il grandissimo amore che le portavo. La nonna aveva avuto un ruolo importantissimo nell’allevare tutti noi. Dopo questo evento, per la prima volta affrontai il tema della dottrina dell’immortalità. I miei genitori cercarono di spiegarmela, e io rimasi convinto che in qualche modo la nonna viveva ancora. A mio parere, dipende da questo episodio se oggi credo con tanta fermezza nell’immortalità dell’individuo.
Il secondo fatto accadde intorno ai sei anni. Fin da quando ne avevo tre, avevo avuto come compagno di giochi un bambino bianco più o meno della mia stessa età. Ci eravamo sempre sentiti liberi di condividere tutti i nostri svaghi infantili. Lui non abitava nel nostro quartiere, ma lo frequentava abitualmente tutti i giorni; il padre era proprietario di un negozio di fronte alla nostra abitazione. All’età di sei anni tutti e due cominciammo la scuola: s’intende, in due scuole separate. Ricordo che la nostra amicizia cominciò a guastarsi proprio da allora; e fu lui a volerlo, non io. Il momento culminante giunse il giorno in cui mi disse che il padre gli aveva ordinato di non giocare più con me. Non dimenticherò mai il trauma violento che ne ebbi. Subito chiesi ai miei genitori di spiegarmi il motivo di una simile dichiarazione.
L’argomento fu affrontato a tavola, durante il pranzo: per la prima volta mi si rivelava l’esistenza di un problema razziale. In precedenza non me ne ero mai reso conto. Ascoltando i miei genitori raccontare qualcuna delle tragedie avvenute a causa di questo problema, e par...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione del curatore
  4. «I HAVE A DREAM»
  5. Fonti
  6. Ringraziamenti del curatore
  7. Inserto fotografico
  8. Copyright