Festa mobile - Edizione restaurata
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Festa mobile - Edizione restaurata

Edizione restaurata, con otto capitoli inediti

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Festa mobile - Edizione restaurata

Edizione restaurata, con otto capitoli inediti

Informazioni su questo libro

Romanzo rimasto incompiuto per la morte di Hemingway, Festa mobile fu pubblicato postumo, nel 1964. La quarta moglie dello scrittore, Mary Welsh, scelse tra gli sketch sulla vita parigina negli anni Venti che il marito stava scrivendo alcuni "quadri" e diede loro un ordine. A distanza di quasi cinquant'anni, il nipote di Ernest, Seán Hemingway, offre ai lettori appassionati di "Papa" questa nuova edizione restaurata di Festa mobile nella quale sono stati reintegrati alcuni capitoli inopportunamente scartati da Mary ed è stato ristrutturato l'indice del romanzo, ripristinandone la versione integrale secondo le intenzioni dell'autore. "Per mio nonno" scrive Seán "Parigi fu semplicemente il miglior posto al mondo per lavorare, e rimase per sempre la città più amata." E per respirare l'atmosfera della Rive Gauche dell'era del jazz, continua, "non è necessario che andiate a Parigi; semplicemente, leggete Festa mobile e sarà il libro a portarvi là".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804604020

Festa mobile

Edizione restaurata
1

Un bel Café in Place St-Michel

E poi c’era il brutto tempo. Arrivava da un giorno all’altro una volta passato l’autunno. Alla sera dovevi chiudere le finestre per la pioggia e il vento freddo strappava le foglie dagli alberi di Place Contrescarpe. Le foglie giacevano fradice nella pioggia e il vento sbatteva la pioggia contro il grande autobus verde al capolinea e il Café des Amateurs era pieno di gente e le finestre tutte appannate per il caldo e il fumo di dentro. Era un caffè triste e malgestito, dove si ammassavano gli ubriachi di tutto il quartiere e io me ne stavo alla larga per via dell’odore di sporco della gente e l’odore acido degli ubriachi. Gli uomini e le donne che frequentavano l’Amateurs erano sempre ubriachi o comunque sempre per quanto potevano permetterselo; più che altro di vino che comperavano a mezzi litri o a litri. C’erano anche le pubblicità di aperitivi dai nomi strani, ma pochi potevano permetterseli se non come base per costruirci su le loro sbornie di vino. Le donne ubriache erano chiamate poivrottes che voleva dire ubriacone.
Il Café des Amateurs era il pozzo nero di rue Mouffetard, quella splendida affollata stradina col mercato che sfociava in Place Contrescarpe. I cessi alla turca delle vecchie case di ringhiera, uno per ogni piano vicino alle scale con due rilievi in cemento a forma di scarpa, uno di qua e uno di là del buco, perché il locataire non scivolasse, si svuotavano in pozzi neri che di notte venivano svuotati per mezzo di pompe in cisterne mobili trainate da cavalli. D’estate, con tutte le finestre aperte, si sentiva il rumore delle pompe e l’odore era molto forte. Le cisterne mobili erano di colore marrone e zafferano e al chiaro della luna quando passavano per rue Cardinal Lemoine quei cilindri con le ruote tirati dai cavalli sembravano quadri di Braque. Nessuno però svuotava il Café des Amateurs, e il manifesto ingiallito con i termini e le sanzioni di legge contro l’ubriachezza molesta era tanto inzaccherato e inascoltato quanto i suoi clienti erano assidui e puzzolenti.
Tutta la tristezza della città arrivò all’improvviso con le prime piogge fredde dell’inverno, e non c’erano più le cime delle alte case bianche quando si passava ma solo il nero bagnato della strada e le porte chiuse dei negozietti, i verdurai, la cartoleria e i giornalai, la levatrice – seconda classe – e l’albergo dove era morto Verlaine dove all’ultimo piano avevi una stanza dove lavoravi.
C’erano sei o forse otto rampe di scale per l’ultimo piano e faceva molto freddo e io sapevo quanto mi sarebbero costati la fascina di rametti, i tre mazzi di listelli di pino non più lunghi di una mezza matita e legati col fil di ferro da buttare sui rametti per alimentare la fiamma, e poi il pacco di pezzi di legna da ardere che dovevo comprare per fare un fuoco che scaldasse la stanza. Così andai dall’altra parte della strada per guardare su verso il tetto sotto la pioggia e vedere se c’erano dei camini accesi e come tirava il fumo. Fumo non ce n’era e io pensai a come il camino dovesse essere freddo e potesse non tirare, alla stanza che magari si riempiva di fumo, e alla legna sprecata, e ai soldi buttati via per la legna, e me ne andai sotto la pioggia. Camminai fin dopo il Lycée Henri Quatre e la vecchia chiesa di St-Étienne-du-Mont e Place du Panthéon spazzata dal vento e tagliai dentro sulla destra per ripararmi e alla fine uscii sul lato sottovento di Boulevard St-Michel e proseguii su quello fin dopo Cluny e Boulevard St-Germain finché arrivai a un bel caffè che conoscevo in Place St-Michel.
Era un locale piacevole, caldo e pulito e accogliente, e io appesi il mio vecchio impermeabile alla rastrelliera dei cappotti ad asciugare e misi il feltro frusto e tutto bagnato sul ripiano sopra il banco e ordinai un café au lait. Il cameriere me lo portò e io tirai fuori un quaderno dalla tasca dell’impermeabile e una matita e cominciai a scrivere. Stavo scrivendo di lassù nel Michigan e siccome era una giornata selvaggia, fredda, ventosa, tale e quale risultò la giornata nel racconto. Avevo già visto la fine dell’autunno arrivare durante l’infanzia, la giovinezza, la prima maturità, e in certi posti potevi scrivere di queste cose meglio che in altri. Era quel che si dice un trapiantare se stessi, pensavo, e poteva essere necessario per gli esseri umani così come per ogni altra specie di cose in crescita. Ma nel mio racconto c’erano dei ragazzi che bevevano e questo mi mise sete e ordinai del rum St James. Aveva un gusto straordinario in una giornata così fredda e io continuai a scrivere, e mi sentivo molto bene e sentivo quel buon rum della Martinica scaldarmi tutto nel corpo e nello spirito.
Entrò nel caffè una ragazza e si sedette per conto suo a un tavolo vicino alla finestra. Era molto carina con un viso fresco come una moneta appena coniata se si coniassero monete di carne ben levigata con pelle rinfrescata dalla pioggia, e i capelli neri come l’ala di un corvo tagliati netti e di sbieco sulla guancia.
La guardai e lei mi turbò e mi eccitò molto. Avrei voluto riuscire a metterla nel mio racconto, o in qualsiasi posto, ma lei si era sistemata in modo da guardare la strada e l’ingresso e capii che stava aspettando qualcuno. Così continuai a scrivere.
Il racconto si stava scrivendo da solo e io avevo il mio bel daffare a stargli dietro. Ordinai un altro rum St James e osservavo la ragazza ogni volta che alzavo gli occhi, o quando facevo la punta alla matita con un temperamatite e i riccioli di legno cadevano sul piattino sotto il bicchiere.
Ti ho visto, bellezza, e adesso tu mi appartieni chiunque sia che stai aspettando e anche non dovessi vederti più, pensavo. Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo quaderno e a questa matita.
Poi ripresi a scrivere e finii nel pieno della storia e mi ci persi. Adesso ero io che scrivevo e non la storia che si scriveva da sola e non alzai più gli occhi e neanche tenni più conto del tempo né pensai a dov’ero né ordinai altro rum St James. Ero stanco del rum St James anche senza pensarci. Poi finii il racconto ed ero molto stanco. Rilessi l’ultimo paragrafo e poi alzai gli occhi e cercai la ragazza e lei se n’era andata. Spero se ne sia andata con un uomo perbene, pensai. Ma mi sentivo triste.
Chiusi la storia nel mio quaderno e lo misi nella tasca interna della giacca e chiesi al cameriere una dozzina di portugaises e una mezza caraffa del loro bianco secco. Quando finivo un racconto mi ritrovavo sempre vuoto e sia triste che felice, come se avessi fatto l’amore, ed ero sicuro che fosse un racconto molto buono anche se avrei saputo davvero quanto buono soltanto quando l’avessi riletto il giorno dopo.
Mentre mangiavo le ostriche con il loro forte sapore di mare e quel debole sapore metallico che il fresco vino bianco lavava via, lasciando solo il sapore di mare e la succosa consistenza, e mentre bevevo il liquido freddo di ogni conchiglia e lo mandavo giù con il frizzante sapore del vino, la sensazione di vuoto se ne andò via e cominciai a sentirmi felice e a fare progetti.
Ora che era arrivato il cattivo tempo, potevamo lasciare Parigi per un qualche posto dove questa pioggia sarebbe stata neve che scendeva tra i pini e copriva la strada e i ripidi pendii delle colline e a un’altezza dove l’avremmo sentita scricchiolare sotto i piedi tornando a casa la sera. Sotto Les Avants c’era uno chalet dove si stava meravigliosamente a pensione e dove potevamo starcene insieme, con i nostri libri, e di sera insieme a letto al caldo con le finestre aperte e le stelle a luccicare. Era lì che potevamo andare.
Avrei lasciato la stanza dell’albergo dove scrivevo e restava solo l’affitto di rue Cardinal Lemoine 74 che non era niente. Avevo fatto delle corrispondenze per un giornale di Toronto e aspettavo degli assegni. Erano cose che potevo scrivere comunque e dappertutto e i soldi per il viaggio ce li avevamo.
Magari via da Parigi potevo scrivere di Parigi così come a Parigi potevo scrivere del Michigan. Non sapevo che era un po’ presto per questo perché Parigi non la conoscevo ancora abbastanza. Ma in ogni caso andò così. Se mia moglie ci stava potevamo benissimo andarcene, e così finii le ostriche e il vino e pagai il conto del caffè e tornai per la strada più corta sulla Montagne Ste-Geneviève sotto la pioggia, che adesso era solo il tempo locale e non qualcosa che ti cambiava la vita, fino all’appartamento in cima alla collina.
«Penso che sarebbe meraviglioso, Tatie» disse mia moglie. Il suo viso era ben modellato e gli occhi e il sorriso si illuminavano alle decisioni come fossero state doni preziosi. «E quando partiamo?»
«Quando vuoi.»
«Oh, io voglio subito. Non lo sapevi?»
«Magari quando torniamo sarà bello e sereno. Può essere molto bello quando è sereno e fa freddo.»
«Sarà così senz’altro» disse. «Hai fatto proprio bene a pensare di andarcene.»
2

Miss Stein in cattedra

Quando tornammo a Parigi era limpido e freddo e bellissimo. La città si era bene organizzata per l’inverno, si vendeva della buona legna nel negozio di legna e carbone dall’altra parte della nostra strada, e molti caffè avevano messo fuori dei bracieri così che potevi stare al caldo anche sui terrazzi. Il nostro appartamento era caldo e allegro. Bruciavamo dei boulets che erano bricchette di polvere di carbone a forma di uovo, sul fuoco di legna, e nelle strade la luce invernale era bellissima. Ora ci eravamo abituati a vedere gli alberi nudi contro il cielo e andavamo a spasso lungo i sentieri di ghiaia lavati di fresco attraverso i giardini del Luxembourg nel vento limpido e freddo. Gli alberi erano bellissimi senza le foglie, una volta che ti riconciliavi con loro, e i venti d’inverno soffiavano sulle superfici degli stagni e le fontane zampillavano nella luce chiara. Le distanze erano brevi adesso che eravamo stati in montagna.
Causa il cambiamento di altitudine non notai se non con piacere la ripidità dei colli, e arrampicarmi fino all’ultimo piano dell’hotel dove lavoravo, in una stanza che guardava sui tetti e sui camini dell’alta collina del quartiere, era un piacere. Il caminetto tirava bene nella stanza e l’ambiente era caldo e piacevole per lavorar ci. Mi portavo in camera mandarines e caldarroste in sacchetti di carta e quando avevo fame pelavo e mangiavo le piccole arance simili a tangerini e buttavo le bucce e sputavo i semi nel fuoco mentre le mangiavo con le caldarroste. Avevo sempre fame per il camminare e il freddo e il lavoro. Su in camera avevo una bottiglia di kirsch che avevamo portato dalla montagna e bevevo un po’ di kirsch quando stavo per arrivare alla fine di un racconto o alla fine della giornata di lavoro. Quando avevo finito di lavorare per quel giorno mettevo il quaderno, o la carta, nel cassetto del tavolo e mettevo i mandarines rimasti in tasca. Si sarebbero ghiacciati se fossero rimasti nella stanza di notte.
Era meraviglioso scendere le lunghe rampe di scale sapendo che mi era andata bene col lavoro. Lavoravo sempre finché non avevo concluso qualcosa e smettevo sempre quando sapevo quel che sarebbe successo dopo. Così ero sicuro che il giorno dopo sarei andato avanti. Ma qualche volta quando stavo cominciando un nuovo racconto e non riuscivo a farlo partire, mi sedevo di fronte al fuoco e strizzavo le bucce delle piccole arance sul bordo della fiamma e guardavo lo scoppiettio di scintille blu che producevano. Restavo a guardare fuori sui tetti di Parigi e a pensare: “Non preoccuparti. Hai sempre scritto prima e scriverai adesso. Non devi far altro che scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci”. Così alla fine scrivevo una frase vera, e poi da lì andavo avanti. E allora era facile perché c’era sempre una frase vera che conoscevi o che avevi visto o che avevi sentito dire da qualcuno. Se cominciavo a scrivere in modo complicato, o come qualcuno che introduceva o presentava qualcosa, scoprivo che potevo benissimo tagliare tutti i fronzoli e gli arzigogoli e buttarli via per cominciare con la prima frase vera e semplice ed esauriente che avevo scritto. Lassù in quella stanza decisi che avrei scritto una storia su ogni cosa che conoscevo. Cercavo di farlo per tutto il tempo in cui scrivevo ed era una buona e severa disciplina.
Fu in quella stanza che imparai a non pensare a niente di quel che stavo scrivendo dal momento in c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Introduzione
  5. FESTA MOBILE
  6. ALTRI SKETCH PARIGINI
  7. Frammenti
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright