I treni svizzeri sono i migliori del mondo. Non corrono troppo veloci e perciò non scuotono i passeggeri facendogli uscire l’anima dalle narici, sono puliti e silenziosi, morbidi, molleggiati e hanno ampi finestrini che permettono di guardare il panorama. Ogni tanto alzo gli occhi dal quaderno sul quale sto scrivendo. È ottobre e la campagna ancora verde scorre e ondeggia sotto i miei occhi che indugiano a osservare il bestiame al pascolo, le sonnolente vacche da latte con il mantello pezzato, le case con gli spioventi del tetto che arrivano fino a terra e i balconi di legno con tanti vasi di fiori autunnali che scendono verso l’esterno in cascate di colori. Il paese delle banche, il crocevia di tanti traffici innominabili, offre di sé una immagine esteriore del tutto confortevole e innocente che mi richiama alla memoria il cioccolato e il formaggio con i buchi dell’infanzia. Ma la mia storia, nonostante questi richiami svizzeri, non riguarda l’infanzia se non per qualche breve cenno di necessità. Comincia dalla giovinezza quando, ormai superate le turbolenze infantili, cominciai ad avere coscienza della vita e a soffrire i primi rapporti con il mio prossimo.
Fra due mesi comincerà il nuovo Millennio. Non sarà una scadenza facile. Molti approfitteranno della occasione per abbandonarsi a qualche innocente follia, altri piangeranno, con o senza lacrime, i loro errori o peccati, i più giovani volgeranno i loro sguardi e le loro speranze al futuro pieno di incertezze. Per altri che sono entrati nel limbo irragionevole che accompagna i capelli bianchi, questa scadenza sarà l’occasione per fare un bilancio della propria vita. Altri già si comportano come se fosse in arrivo il loro compleanno e come se pesasse sulle loro spalle l’intero Millennio.
Ho comprato un quaderno con la copertina nera e il taglio rosso come usavano tanti anni fa e ho cominciato a scrivere, capitolo dopo capitolo, il romanzo della mia vita. Dirò subito che nel mio caso non si tratta di un bilancio e che non è l’età che mi spinge a fare questa specie di check-up mentale. Molte ombre mi hanno perseguitato, silenziosamente ma con ottusa determinazione, ed è a loro che devo render conto, è a loro che dedico umilmente queste pagine. Ho nominato questo scritto come “romanzo” semplicemente perché sono convinto che chiunque scriva ciò che gli è accaduto nel corso degli anni, opera una finzione. Le parole di cui disponiamo, qualunque sia la nostra lingua, sono assolutamente inadeguate a raccontare i sentimenti, le sensazioni, i pensieri che hanno attraversato la nostra vita e i fatti che li hanno provocati o che da essi sono stati provocati. Tutto ciò che la mia mano scriverà su questo quaderno sarà dunque vero e falso nello stesso tempo. Potrei dire: non ho inventato niente e, con la stessa sincerità, potrei affermare che ogni mia frase, ogni mia parola, è pura finzione.
Non è la prima volta che mi fermo per riflettere sulla mia vita. È un esercizio che ho fatto altre volte, ma senza accompagnarlo con la scrittura. L’idea di rivestire con un involucro di parole le mie riflessioni spero che mi aiuterà a definire e forse a chiarire a me stesso gli enigmi che mi hanno coinvolto e turbato nel corso degli anni. Quanti anni? Questa è una domanda che non mi faccio mai e che non mi farò nemmeno in questa occasione. Così come non mi piace né mi è piaciuto mai dichiarare la mia età. Dentro di me sono rimasto intatto dall’età della ragione come se gli avvenimenti che mi hanno toccato non avessero lasciato traccia. Dirò di più, mi sono sempre vergognato quando ho dovuto dichiarare la mia età, sia quando avevo diciotto anni che dopo. Non pensi dunque il lettore che si tratta delle memorie di un vecchio lamentoso. La vecchiaia è una dimensione che non mi appartiene come non mi appartiene la dimensione tempo.
Ho scritto nella prima pagina del mio quaderno che sono rimasto intatto dall’età della ragione e devo fare subito una rettifica. Prima di tutto non credo che esista, almeno per quanto mi riguarda, una età della ragione e non so nemmeno che senso dare a questa abusata espressione. In secondo luogo devo precisare che sono rimasto intatto, ma nella instabilità e nella incertezza. Sono sempre vissuto in una realtà transitoria e, a differenza dei miei compagni nei quali riconoscevo le caratteristiche invidiabili del “prodotto finito”, ho sempre considerato me stesso un individuo instabile, un “uomo provvisorio” di cui non sarei mai riuscito a tracciare un identikit attendibile. Devo aggiungere che ancora oggi, mentre sto viaggiando verso un grande e lussuoso albergo vicino a Basilea dove ho deciso di rifugiarmi in attesa del prossimo Duemila, non sono affatto cambiato dentro di me: le incertezze, i turbamenti, le contraddizioni, le emozioni sono sempre uguali, a dispetto degli anni. Non ho ancora deciso se devo esserne contento o se devo preoccuparmi di questa inguaribile immaturità, che non dispiace ai miei interlocutori ma che continua a crearmi qualche disagio e alla fine mi ha indotto alla fuga e alla scelta della solitudine svizzera. Non è solo questa la ragione che mi ha fatto scegliere la Svizzera. Ho voluto evitare per questa occasione sia le allegrie che le geremiadi che sono quasi d’obbligo nella scadenza ormai prossima. Si tratta di una data che mi viene imposta da fuori e che avrei voluto proprio dimenticare. Questo mi sarebbe stato impossibile in Italia dove vivo e dove sarei stato coinvolto in qualche rumorosa cerimonia.
Naturalmente i dubbi sulla mia persona si riflettono anche sulla storia che sto scrivendo e sul linguaggio da scegliere. Ogni storia necessita, per diventare tale, di un linguaggio adeguato. Ma si tratta di una storia? Purtroppo devo aspettare di averla scritta per saperlo. Altre volte mi è successo, dopo avere scritto molte pagine, di provare soltanto il desiderio di riprendermi le mie parole per disporle in un ordine diverso. Mi succederà anche questa volta?
Poco più di un’ora fa, mentre mi trovavo all’aeroporto “verticale” di Zurigo e scendevo dal piano degli aerei a quello dei treni, ero sicuro che proprio l’indole neutrale della Svizzera mi avrebbe aiutato a chiarire a me stesso per mezzo della scrittura i sentimenti che mi hanno condotto alla decisione di rifugiarmi nella solitudine di un albergo dove nessuno mi conosce. In questo momento non ne sono più sicuro e addirittura guardo fuori le colline verdi, gli alberi che hanno già preso i colori dell’autunno, i balconi delle case ancora pieni di fiori e provo, al contrario di quanto ho affermato poco fa, un senso di irritazione e di fastidio.
Passa il controllore del treno. Sento il bisogno di dire qualcosa, di pronunciare qualche parola. È un bisogno direi soltanto fisico che mi induce spesso a parlare da solo o, peggio, a dire sciocchezze e banalità.
«Questo treno va a Basilea, vero?»
«No, signore.»
Lo guardo stupito. Sono sicuro di avere preso il treno per Basilea.
«E dove va?»
«Ad Aarau, signore.»
«Ma dopo non va a Basilea?»
«Certo, ma in questo momento il treno sta andando ad Aarau.»
«La ringrazio.»
Riprendo il mio biglietto dal controllore e abbasso gli occhi sul mio quaderno. Incontro per un istante lo sguardo dell’unica compagna di viaggio, una pallida ed elegante quarantenne che fino a questo momento ha deposto sulla mia immagine sguardi discreti e leggeri di cui ho finto di non accorgermi. Mi guarda ancora con un sorriso quasi impercettibile.
«Gli Svizzeri si alzano presto ma si svegliano tardi.»
Sorrido alla battuta, senza rispondere. Per fortuna la pallida quarantenne riabbassa lo sguardo e io posso riprendere la mia trama solitaria.
Non credo di essere un uomo fuori del comune anche se molti pensano il contrario. I quadri che ho dipinto sono la mia vera biografia, ma sono dispersi in tutto il mondo, presso musei e collezioni private. Queste pagine invece sono un tentativo di conservare la mia unità, di combattere la dissipazione che il tempo e le varie congiunture della vita impongono non soltanto agli artisti, o a chi si ritiene tale, ma a tutti gli uomini. Credo che risulteranno evidenti, da questa specie di autobiografia illusoria, i segnali alti e strani di una continua duplicazione degli eventi della mia vita come se il Destino, o la Fortuna, o la mano sinistra di Dio volessero prendersi gioco di me coinvolgendomi in sorprendenti simmetrie e coincidenze, quasi a sottolineare la complicità del libero arbitrio e in qualche caso, come una volta in Egitto, la beffa della realtà che ha ricalcato le mie invenzioni figurative. Facilmente avrei potuto dare a tutto questo una veste adeguata e aggiungere un nuovo titolo allo sterminato catalogo della narrativa contemporanea, ma ho preferito riferire i fatti come un onesto scriba e offrire un oggetto di riflessione sulla nuda vita di un uomo perseguitato da questa singolare tendenza dissipativa. È una condizione alla quale cerco di oppormi con il rozzo strumento della scrittura, l’unico mezzo che ho a disposizione in questo momento.
Quando, pochi anni fa, sono crollati i ponti di New York divorati dalla ruggine e quella superba città è diventata uno sterminato rottame, una delle ormai numerose “città della ruggine”, e quando Lione è stata cancellata dalla carta geografica dalla esplosione della centrale nucleare Superphoenix, ho capito che la scrittura, che per tanti anni avevo temuto e perfino disprezzato, è ancora nonostante tutto uno dei pochi mezzi che l’uomo ha a sua disposizione per lasciare qualche memoria di sé.
Ho comprato anche un secondo quaderno nel quale, se ne avrò il tempo e la voglia, descriverò uno a uno, con la massima precisione di cui sono capace, i miei quadri più importanti. In anni lontani, più di un millennio fa, un pedante Patriarca di Costantinopoli di nome Fozio ha scritto il riassunto di duecento ottanta opere letterarie in un libro intitolato Biblioteca. Molte di quelle opere sono andate perdute e l’unica memoria che ne abbiamo è il riassunto di Fozio.
Pare che la polvere sia il destino non soltanto delle pitture ma anche dei pittori. Pare che ridurre tutto in polvere sia la beffa estrema alla quale siamo soggetti sia noi che le nostre opere, come dice anche la Bibbia. Io ho fiducia nella tecnica riproduttiva, ma per il momento devo tener conto della polvere. Sulla soglia del nuovo Millennio farò un brindisi solitario, e le parole che pronuncerò senza testimoni non temeranno né le catastrofi della ruggine, né le radiazioni nucleari, né la polvere che incombe sul nostro destino.
Credo di far parte di quel patetico collegio di uomini che hanno sperato di mettere ordine nel caos, come ha detto di me un famoso saggista tedesco che, fedele a quella deperita ideologia, ha posto fine alla propria vita facendosi harakiri. So di essermi illuso e oggi posso fare la facile profezia che nel prossimo Millennio il caos verrà accettato come l’unica realtà possibile. Accettato felicemente, senza drammi, insieme alla consapevolezza che i figli della polvere sono ciechi e non possono prevedere nulla al di là del proprio naso. Quel mondo ordinato e prevedibile descritto da Galileo e Newton e dai loro seguaci, le rassicuranti equazioni dell’impresa scientifica, hanno lasciato ampio spazio alla imprevedibilità, al progresso non lineare, alla dinamica del caos. Nel momento in cui scrivo queste parole mi rendo conto di stare a cavallo dei due Millenni, sofferente protagonista della Grande Transizione, e di non avere abbandonato del tutto le vecchie illusioni pur avendo gli occhi aperti verso il futuro. Una condizione ambigua che appartiene a questa congiuntura temporale e della quale non soffriranno i miei posteri che vivranno nel felice caos del nuovo Millennio.
Un mese fa, al momento di congedarmi da un amico al quale avevo fatto visita nella sua fattoria in Brianza, ho avuto in dono un raro bozzolo Giallo Bivoltino del Cashmir che fa parte di una nuova specie di bachi da seta indenni dall’inquinamento radioattivo. Un gesto gentile e forse scaramantico al quale sul momento non ho dato importanza. Ho dimenticato quel bozzolo nella tasca del soprabito che poi ho lasciato appeso nel mio studio di Poggio Arrigo. Forse il calore del termosifone che si trovava proprio sotto l’attaccapanni dello studio, o forse l’aria frizzante della Svizzera, hanno accelerato il percorso vitale della crisalide così che, quando oggi ho indossato il soprabito con l’intenzione di fare due passi all’aperto e ho messo la mano nella tasca, è volata via una farfallina bianca. Un po’ stordita e poco esperta del volo, la farfalla setaiola sta ancora spostandosi da un mobile all’altro della mia stanza e ora è andata a posarsi sul davanzale interno della finestra chiusa. So che le farfalle della seta hanno vita breve ma questa presenza mi rallegra e confido che mi terrà compagnia fino all’inizio del Duemila.
Ho avuto da sempre una istintiva attrazione per la bellezza. Ammirazione e ricerca del bello in ogni luogo e in ogni occasione hanno occupato la mia sensibilità e i miei pensieri. Ma devo confessare subito, senza inutili pudori, che il primo oggetto della mia ammirazione sono sempre stato io stesso. So e ho sempre saputo di essere bello e la conferma mi è venuta non soltanto dallo specchio davanti al quale ho passato chissà quante ore della mia vita, ma da tutti i miei conoscenti amici e parenti, anche dagli estranei. Camminando nelle strade cittadine il mio sguardo coglie qua e là segni di ammirazione e perfino di stupore, se mi siedo in un bar e alzo improvvisamente gli occhi sui miei vicini incontro ogni volta l’espressione estatica di qualche ragazza, ma anche di uomini e donne che non si curano di nascondere la gioia e forse anche la gratitudine per la luce che emana dalla mia persona.
Esistono bellezze fredde, intimidatorie, che creano il vuoto fra loro e il resto del mondo. La mia è una bellezza che non oso definire cordiale perché la cordialità non appartiene ai timidi, ma che sicuramente sprigiona simpatia e seduzione, come certi cani che esercitano una attrazione immediata e suscitano il desiderio di accarezzarli o addirittura di prenderli in braccio. Mi sono paragonato a un cane perché non vorrei che questa mia confessione apparisse come una insulsa vanteria o la manifestazione di un narcisismo senza scampo.
Cerco di essere obiettivo e di inquadrare la mia figura fisica perché fino dall’infanzia ha condizionato i miei sentimenti che sarebbero stati di natura assai differenti, ne sono certo, se il mio aspetto non avesse avuto su di me e sul mio prossimo un influsso irresistibile, diciamo pure magnetico.
Se mi analizzo nei particolari, un esercizio che ha impegnato più di una volta la mia intelligenza, non riesco a trovare il mio centro di attrazione. Ci sono uomini con lo sguardo rapace, con una voce che emana vibrazioni misteriose, altri che si muovono come felini in caccia di una preda, altri ancora che sprizzano scintille di intelligenza o lampi di amabile follia. Il modo di sorridere, di muovere le mani, di camminare, di parlare, possono essere i punti di forza degli uomini che hanno una comunicazione felice con il prossimo. Io so di essere obiettivamente attraente, ma rientro nei canoni più banali della bellezza. Ho creduto per un certo tempo di avere un sorriso misterioso e ambiguo (il mio pensiero correva al sorriso della Gioconda di Leonardo) ma ho capito che questo era soprattutto un desiderio, e niente di più.
Per quanto mi sia ormai famigliare la mia immagine che vedo proiettata negli occhi di chi mi guarda, non ho mai sopportato di parlarne. Posso invece scriverne senza vergogna, posso perfino sorridere pensando alla gioia silenziosa e segreta che ha sempre accompagnato la coscienza della mia bellezza, che nei miei pensieri ho definito qualche volta come “bella presenza” adottando il linguaggio degli annunci matrimoniali. È insomma un argom...