Ha disegnato un abito lungo, fatto di veli, trasparenze e ricami. Senza esitare ne ha definito linee e dettagli come se fosse già materia. Con abilità ha restituito sulla carta un’intuizione. E poi, me l’ha buttata sulla scrivania.
Sarò io a darle corpo su questo foglio bianco. Lavorerò sui volumi e sulle leggerezze, riempiendo i tessuti di luci e di ombre. E interpreterò un’idea che non mi appartiene, lo stile di un grande marchio e il suo lampo di genio.
Me lo ricordo ancora quel primo modello così velocemente accennato, il desiderio di rendere al meglio la morbidezza della gonna d’organza, le incrostazioni dei fiori di pizzo sul corpino e il rumore dei suoi tacchi dietro le mie spalle. Se avessi fatto bene quel disegno, l’avrebbe venduto a una delle clienti più importanti della maison. Sarebbe stato il mio primo, vero lavoro di haute couture.
Si soffermava in silenzio a guardarmi, tratto dopo tratto. Era così vicina che quasi mi sembrava di sentirla addosso, di respirare quel suo profumo aspro, che porta anche d’inverno. Io tenevo la testa bassa, china sul foglio, fino a quando di colpo, come una ventata d’aria gelida, me lo ha strappato dalle mani.
«È troppo scolastico! Pas bon! Pas bon!» ha cominciato a urlare, mentre lo sventolava, senza guardarmi negli occhi, rivolta agli altri stilisti seduti intorno al grande tavolo di legno nell’open space dell’Ufficio Stile.
Io ho trattenuto le lacrime, mentre lei passava il suo schizzo a un’altra illustratrice, che ricominciava daccapo il lavoro. E ho tenuto la testa bassa, per nascondere il rossore che s’accendeva sulle guance.
Come faccio ancora, quando disegno, tre anni dopo. Anche se oggi so quello che vuole, so come lo vuole, so perché lo vuole. Ha portato la mia mano a disegnare le sue idee, l’ha guidata fin dove voleva che arrivasse.
Se sfoglio la mia tesi di laurea, se guardo i miei vecchi disegni, quasi non mi riconosco più. Sono diventata un suo prolungamento. Ho perso il mio stile e ho trovato il suo. Ora riesco a vedere quello che immagina e riesco a immaginare i corpi delle clienti, anche se non le ho mai viste, dalle misure che mi detta in fretta o riporta con quella sua grafia illeggibile. Disegno con eleganza, velocità e precisione estrema. E mi avvicino alla perfezione. Perché è la perfezione l’unica esigenza di Veronique Sibilla.
La stampa mondiale la definisce l’ultima regina dell’alta moda. Dietro gli abiti firmati Luci.di c’è il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Io sono la sua assistente, la prescelta in un team di giovani illustratori, ognuno con la sua specializzazione. La mia creatività è al suo servizio. Sono la sua ombra. La seguo ed eseguo. Sono un’illustratrice che sogna di diventare una stilista, magari di sostituirla un giorno. E spero che quel giorno arrivi presto, prima che anche io diventi un pezzo da museo, s’intende. Perché, anche se mi chiama ragazzina, io so di essere una professionista di trent’anni. Ventisette per la precisione, ma è meglio arrotondare per eccesso, altrimenti in questo Paese per vecchi non ti prende sul serio nessuno se sei troppo giovane.
Mi sono impegnata per imparare il mestiere, ho studiato libri che parlavano delle sue meravigliose collezioni. Ho lavorato senza risparmiare la fatica, anche sedici ore al giorno. Ho salito e sceso le scale dietro di lei un milione di volte da quando sto qui, prendendo appunti sul mio iPad con il rischio di inciampare a ogni gradino pur di non dimenticare uno solo dei suoi ordini. Mi è capitato persino di doverle portare a spasso Dante, il barboncino bianco, quando ha avuto la grande idea di tenerlo con sé in riunioni importanti, casting con le modelle o shooting fotografici. Le sto regalando i miei anni migliori realizzando su carta le idee che lei non ha più voglia di disegnare, rispettando tutti i canoni imposti dalla sua linea creativa. E nonostante tutto, continuo ad ammirarla. Eppure non vorrei mai essere come lei. Mai. Certe volte penso persino di odiarla. Io, che m’affeziono pure alle zanzare e per non ucciderle spruzzo litri di Autan sulla pelle e mi tappo le orecchie con il cuscino durante la notte. Veronique, ormai, ha scatenato in me fantasie splatter e istinti omicidi. Specialmente dopo ogni sfilata, quando resto al buio nel backstage, mentre lei esce tra gli applausi, seguita da due ali di modelle, illuminata dai flash dei fotografi.
«Tu sei sul punto di sbroccare. Non vorrei essere nei panni di Veronique» mi ha detto la mia coinquilina americana, Bridie, che fa progressi in italiano e ormai ha imparato anche lo slang.
«Mi fa solo male lo stomaco, devo aver bevuto troppi caffè... La verità è che ogni giorno a lavoro mando giù talmente tante ingiustizie che certe volte mi chiedo se questa pancetta non sia solo gonfia di tutte le parole che non dico, che trattengo, che non vomito addosso a nessuno. Sono talmente stanca di sentirmi grata a Veronique, alla Luci.di, alla vita stessa per aver ottenuto un lavoro dopo aver studiato tanto, sostenuto una serie di colloqui, accettato uno stipendio inferiore alle mie mansioni... Dovrei dire grazie solo a me stessa, e invece continuo a comportarmi come se qualcuno mi avesse regalato qualcosa» ho risposto, versando la tisana bollente nella tazza.
«In english, please!» mi ha rimproverato severa. Pretende che io rispetti le regole nelle nostre serate di language swap sul divano. «Cosa desideri veramente?»
Anche se fa domande difficili, Bridie è la coinquilina perfetta. Mi dà lezioni di inglese e ha la mia stessa taglia. Così ci scambiamo i vestiti. È venuta qui per studiare storia dell’arte e ora che ha spedito la laurea a Boston, dove i suoi l’hanno incorniciata e appesa alla parete del salotto, lavora per un’agenzia viaggi e accompagna i turisti stranieri in giro per Firenze. Quando riusciamo a cenare insieme, mi diverto ad ascoltare i suoi racconti. Sono storie di ordinaria sopravvivenza urbana, tra branchi di turisti americani sudati con il cappellino in testa che guardano i monumenti quasi fossero una scenografia hollywoodiana, e comitive di giapponesi silenziosi che fotografano pure i piccioni e si fermano a comprare improbabili souvenir a ogni angolo.
«I don’t know what I want. E poi il mio inglese fa schifo. Vedi che non faccio progressi?»
Lei ha scosso la testa, poi mi ha guardato dritto negli occhi.
«Tu non devi disprezzarti!» ha detto trascinando tutte le erre e io ho abbassato lo sguardo. So che non si riferisce alla mia pronuncia né alla grammatica. Bri non pensa alle parole che dico, ma a quelle che taccio persino a me stessa.
«Quando Lorenzo mi ha chiesto di sposarci, non ero più sicura di niente, te lo ricordi? Stavo pensando di tornare a Boston, di ricominciare dall’inizio. Qui non mi sento tanto realizzata... e non volevo dirgli di sì solo perché l’amore è l’unica cosa che funziona nella mia vita. Non ci capivo più niente. Allora mi sono fatta una specie di lunga intervista da sola. Domande qualsiasi. Per esempio: quale gusto di gelato mi piace di più? Cosa vorrei fare domani? Io volevo capire chi ero, di cosa avevo bisogno veramente, prima di fare la mia scelta. Secondo me dovresti farlo anche tu. Mi sembra che non sai più quello che vuoi...» mi ha spronato con il suo pragmatismo americano. Non so come farò quando andrà a vivere con Lorenzo.
Mi mancherà.
Sotto le coperte, con il portatile sulle ginocchia, ho seguito il suo consiglio.
Lo schermo luminoso sembrava un fazzoletto magico dal quale estrarre infinite possibilità, trovare sensi, tradurre significati nascosti. Ho scritto in alto, al centro della pagina: LE COSE CHE VORREI.
Compilare la lista e poi ridurla in cinque punti cardine non è stato semplice. Mi sembrava di non desiderare più niente, tranne fare bene le cose che gli altri volevano da me. Ci ho messo una settimana, aggiungendo di volta in volta un pensiero sempre più difficile da confessare. È stato come guardarmi allo specchio.
- Dormire, dormire, dormire di più.
- Uscire più spesso in pausa pranzo.
- Dire quello che penso (specialmente a Veronique).
- Innamorarmi.
- Firmare un abito per la Paris Fashion Week.
Ora che i miei desideri sono scritti nero su bianco su un documento word, devo solo capire da che parte cominciare per realizzarli. Dormire di più sembra impossibile, dal momento che arrivare ogni giorno in ufficio prima della mia capa è condizione necessaria alla mia sopravvivenza, primo tra i doveri di una brava assistente. E se so quando entro alla Luci.di, di certo non posso prevedere quando uscirò. Veronique non torna mai a casa, se fuori non è già buio. Nel mezzo c’è una giornata talmente frenetica, tra collezioni da preparare, sartorie, modelle, clienti, campionari, riunioni, shooting e imprevisti vari, che concedersi un’ora per mangiare un pasto veloce all’aperto e liberare la mente diventa il vero lusso tra le mura antiche di questo palazzo. Così continuo a correre come una trottola, senza trovare il coraggio di fermarmi, di dire la mia. Se Veronique non avesse lo strapotere che ha, se non approfittasse del mio entusiasmo e della mia disponibilità, io potrei organizzare meglio la mia giornata, senza badare a tutti i suoi capricci. Ma non so con chi parlarne, così continuo a subire e ad arrossire ogni volta che mi rivolgo a lei. Va da sé che per disegnare io stessa un abito da portare alla Paris Fashion Week, Veronique dovrebbe schiattare. Ma mancano solo quattro settimane al grande evento e siccome io non sono una potenziale assassina e lei è una salutista convinta, un’integralista del cibo bio e una fanatica del seitan, le possibilità che questo avvenga in così breve tempo diminuiscono drasticamente. Lei poi non ci pensa proprio di togliersi dai piedi per farmi spazio. In questi tre anni non è mai mancata e non ha nemmeno mai avuto un mal di gola nonostante indossi camicette di chiffon anche a gennaio. Il freddo non è contemplato nei nostri look book e lei il suo physique du rôle te lo sbatte in faccia, mentre tu starnutisci, ti copri con la sciarpa e ti imbottisci di paracetamolo al primo colpo di vento. Non c’è speranza. Veronique è Highlander. Verrebbe al lavoro anche in punto di morte, e i tacchi li tiene ben piantati sotto la sua scrivania. Mollerà il trono solo quando qualcuno la caccerà con la forza, come in una sanguinosa guerra di successione. Che darei per essere io, la sua erede. Così tengo duro, come tutti del resto, a Precariland.
Reagire e ribellarmi, d’altra parte, sarebbe come lanciarsi da un aereo in volo senza paracadute. Sarebbe un po’ come innamorarsi. Dovrei perdere la testa. Non so se ne sono capace. Non l’ho persa nemmeno per Massimo, il ragazzo con cui sono uscita per un po’. È stato lui la mia cavia per gettare le basi su cui costruire i miei progetti. Da qualche parte dovevo pur cominciare. E con lui le cose non andavano bene da un pezzo. Tutto sommato, andandomene gli avrei fatto un favore. Mi ero aggrappata alla nostra relazione come a una corda che oscilla nel vuoto. Pensavo che, se fosse finita, sarei precipitata da una montagna altissima, che mi sarei schiantata al suolo. Non volevo che il lavoro si prendesse tutta la mia vita. La sua presenza mi faceva sentire salva, per questo non gli dicevo mai di no. I nostri appuntamenti erano le barriere che impedivano ai capricci di Veronique di invadere tutto il mio tempo. Non mi rendevo conto che, per fuggire da lei, inseguivo lui. Fino a quando non mi sono fermata a pensare a me stessa. È stato allora che ho capito che dovevo difendermi con le mie sole forze. Che ero io, la mia peggiore nemica. E ho cominciato a dire di no. A smettere di compiacere lui, nella speranza di riuscire prima o poi a farmi rispettare anche al lavoro. Mi sembravano le prove generali. E allora una sera gli ho detto che non avevo nessuna voglia di vedere il colossal sull’invasione delle mosche volanti. E lui, che da me proprio non se l’aspettava, mi ha portata in un multisala. Mi ha proposto di vedere due film diversi e di incontrarci all’uscita, per continuare insieme la serata. Nemmeno per un momento gli è passato per la testa di accontentarmi, di accettare di vedere il film che piaceva a me.
“Lo hai abituato troppo bene...” mi ha risposto Bri su WhatsApp quando, in fila alla biglietteria, le ho scritto infuriata perché, dopo quel primo patetico tentativo di affermare la mia identità, avevo accettato la sua proposta.
Seduta in sala, mentre m’asciugavo le lacrime sul dialogo finale di Her prima dei titoli di coda, mi sono alzata, restando curva per non disturbare gli altri spettatori e, appena fuori dal cinema, ho chiamato un taxi.
Non ho più visto Massimo. Non l’ho nemmeno più sentito. Non mi ha aspettato a lungo vicino alla biglietteria. È andato a mangiare un maxi hamburger. Lo so perché lo ha twittato al mondo e poi ha aggiunto che nessuno può dare buca al re delle mosche volanti. Forse una citazione dal film, chissà. Di sicuro, un selfie dopo l’altro, se ne è fatto presto una ragione. Lo controllo su Facebook. È terapeutico. Mi convinco sempre di più d’aver fatto la cosa giusta. Che ci facevo con un uomo così narciso da fotografarsi da solo in macchina, al supermercato e persino davanti allo specchio del bagno? Io, poi, che mi faccio i selfie solo per controllare le occhiaie.