
- 574 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'onorevole scolaro
Informazioni su questo libro
Pur di salvare il servizio segreto britannico, George Smiley non esita a ingaggiare Jerry Westerby per una pericolosa missione. Ma Jerry non sa che Smiley è pronto a tutto, anche a sacrificarlo. E si trova prigioniero di un gioco più grande di lui, di cui ignora le stesse regole...
Il romanzo che ha consacrato Le Carré come uno degli scrittori di spy story più amati.
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Informazioni
Print ISBN
9788804491071eBook ISBN
9788852041396Parte prima
LA CORDA ALL’OROLOGIO
I
Come il Circus lasciò la città
In seguito, negli angoli polverosi di Londra e dintorni nei quali i funzionari segreti si riuniscono a bere, sorsero discussioni a proposito di quando ebbe veramente inizio il Caso Delfino. Una schiera, guidata da un tipo tracagnotto, un addetto alle trascrizioni microfoniche, arrivò a sostenere che la data esatta risaliva a sessant’anni prima, quando «quel supermascalzone di Bill Haydon» aprì gli occhi al mondo sotto una perfida stella. Perché, reclutato mentre era ancora a Oxford da Karla il Russo, era stato proprio lui, Haydon, che, entrato a suo tempo nel Servizio Segreto britannico, sotto la guida del detto Karla aveva rivolto la spada contro i propri padroni, spingendoli con quel suo tradimento – almeno questo era il ragionamento – verso una fatale dipendenza dal gemello servizio americano, che in quel loro strano gergo essi chiamavano i Cugini. I quali Cugini avevano stravolto completamente il gioco, sosteneva il tipo tracagnotto: più o meno come avrebbe potuto deplorare uno stravolgimento di regole al tennis o alle bocce. E lo avevano distrutto, aggiungevano i suoi sostenitori.
Per le menti meno fantasiose, la vera genesi risaliva allo smascheramento di Haydon a opera di George Smiley e la conseguente nomina di questi a capo provvisorio del tradito Servizio, cosa che avvenne verso la fine del novembre 1973. Una volta preso dalla febbre di Karla, dicevano, niente più poteva fermare George. Il resto era inevitabile, aggiungevano. Povero vecchio George; e tuttavia che mente dietro tutti quei pensieri!
Una certa anima accademica, una specie di ricercatore, nel gergo uno “scavatore”, sosteneva persino – insistente e ubriaco – che la data del 26 gennaio 1841 fosse quella logica e naturale, perché fu allora che un certo capitano Elliot della Royal Navy condusse una squadra da sbarco su una roccia, affogata nella nebbia alle foci del Fiume delle Perle, chiamata Hong Kong e da lui proclamata pochi giorni dopo colonia inglese. Con l’arrivo di Elliot, sosteneva l’accademico, Hong Kong era diventata il quartier generale del traffico d’oppio tra Inghilterra e Cina e, di conseguenza, uno dei pilastri dell’economia imperiale. Se gli inglesi non avessero inventato il mercato dell’oppio – diceva, ma non in tutta serietà – allora non ci sarebbe stato nessun caso, nessun’impresa, nessun dividendo e, pertanto, nessuna rinascita del Circus in seguito al rovinoso tradimento di Bill Haydon.
Quanto ai duri – gli inviati rientrati, gli istruttori e i funzionari incaricati, che costituivano sempre una bella torma di brontoloni – loro inquadravano il problema unicamente in termini operativi. Sottolineavano l’abile lavoro di Smiley nel rintracciare l’ufficiale pagatore di Karla a Vientiane, il modo in cui s’era lavorati i genitori della ragazza e i suoi supertraffici con i riluttanti baroni di Whitehall, che reggevano i cordoni della borsa in fatto di operazioni e distribuivano diritti e permessi nel mondo dei Servizi Segreti. Soprattutto, davano gran risalto al momento magico in cui Smiley aveva voltato le carte in tavola, facendo girare l’operazione sul proprio asse. Per questi professionisti, il caso era una vera e propria vittoria della tecnica. E nient’altro. Nel matrimonio coatto con i Cugini vedevano unicamente un’ennesima abile mossa in una lunga e delicata partita a poker. Quanto al risultato finale: al diavolo. Il re è morto, viva dunque il suo successore.
La discussione continua quando e dovunque i vecchi compagni s’incontrano, anche se – e la cosa è comprensibile – raramente vien fatto il nome di Jerry Westerby. Sì, è vero, ogni tanto qualcuno lo nomina, per sconsideratezza, sentimentalismo o semplice distrazione, e per qualche attimo si crea una certa atmosfera; ma poi passa. Non molto tempo fa, per esempio, un giovane avventizio appena uscito dalla rinnovata scuola d’addestramento del Circus a Sarratt – “il vivaio”, sempre nel gergo – lo strombazzò, quel nome, nel bar dei non-trentenni. Una versione annacquata del Caso Delfino era stata di recente introdotta a Sarratt come argomento di discussioni di gruppo e persino esercitazioni scritte, e il povero ragazzo, pur sempre acerbissimo, era tutto raggiante di gioia alla scoperta di appartenere al giro degli informati: «Ma santiddio» protestò, godendosi fino all’ultima goccia quella specie di libertà da schiavi quale a volte vien accordata in quadrato ai guardiamarina «santiddio, perché mai nessuno vuol riconoscere la parte che Westerby ebbe nell’affare? Se qualcuno s’è addossato il peso di tutto, è stato proprio Jerry Westerby. È stato lui ad aprire la strada. Perché, non è stato lui forse? Diciamo la verità!». Solo che, naturalmente, non pronunciò il nome “Westerby” e neppure quello di “Jerry”, non foss’altro perché non li conosceva. Usò tuttavia il nome di codice assegnato a Jerry per l’occasione.
Peter Guillam, dal canto suo, afferrò la palla al volo. Guillam è un tipo alto, robusto e manierato, e i novellini in attesa della prima assegnazione tendono a considerarlo una specie di dio greco.
«Westerby fu l’arnese che servì per attizzare il fuoco» dichiarò di punto in bianco, ponendo fine al silenzio. «Qualunque agente sul campo si sarebbe comportato altrettanto bene, alcuni anche meglio.»
E poiché il ragazzo continuava a non capire, Guillam s’alzò, gli si avvicinò e, pallidissimo, gli abbaiò nell’orecchio di berne un altro, se era in grado di reggerlo, e di legarsi poi la lingua per parecchi giorni, se non settimane. Dopodiché la conversazione ritornò ancora una volta sull’argomento del vecchio caro George Smiley, certamente l’ultimo dei veri grandi, e su chissà come se la stava passando adesso che s’era ritirato in pensione. Quante vite aveva avuto; quanti ricordi da rivangare nella tranquillità della pensione: su questo eran tutti d’accordo.
«Contro il nostro unico giro intorno alla luna, George ne ha compiuti cinque» dichiarò qualcuno, in tono ammirato, una donna.
Dieci, arrivarono a dire. Venti! Cinquanta! Tra le iperbole, grazie al cielo, l’ombra di Westerby svanì. E, in un certo senso, altrettanto fece quella di Smiley. Bene, fu la conclusione, George aveva avuto il suo periodo meraviglioso. Cos’altro potevi aspettarti alla sua età? In altre parole, il re è morto, viva dunque il suo successore.
Un punto di partenza più realistico è forse un certo sabato a metà del 1974, alle tre del pomeriggio, quando Hong Kong giaceva prostrata dalla sfuriata di un tifone e tremava tutta in attesa della successiva. Nel bar del Circolo dei corrispondenti esteri un gruppo di giornalisti, provenienti per lo più dalle ex colonie britanniche – australiani, canadesi e americani – ammazzavano il tempo bevendo in un’atmosfera di intraprendente accidia, una orchestra senza direttore. Tredici piani più giù passavano i vecchi tram e gli autobus a due piani incrostati, come sudore, della polvere color fango degli edifici e delle zacchere della zona della centrale elettrica di Kowloon. Le piccole pozzanghere davanti agli alti alberghi pippolavano per la pioggia lenta e sovversiva e nella ritirata degli uomini, che offriva la miglior vista del circolo sulla baia, il giovane e californiano Luke, con il capo chino nel lavabo stava sciacquandosi il sangue dalla bocca.
Luke era un giocatore di tennis dinoccolato e imprevedibile, un vecchio ventisettenne che sino al ritiro degli americani era stato la stella di turno nel vivaio dei corrispondenti di guerra che la sua rivista manteneva a Saigon. Sapendo che giocava a tennis era difficile immaginarlo a fare altro, anche solo a bere. Te lo vedevi benissimo sotto rete, schizzare da una parte all’altra, sparar colpi da far tremare il mondo o a servire da campione dopo aver sbagliato da novellino. Mentre ansimava e sputava, la sua mente era frammentata – lui, Luke, avrebbe usato il gergo guerresco “granatizzata” – in svariate lucide parti. Una di queste era presa da una certa Ella, una ragazza di un bar di Wanchai per amor della quale aveva menato un cazzotto alla mascella del porco poliziotto e sofferto le inevitabili conseguenze: con il minimo indispensabile di forza, il sovrintendente Rockhurst, noto altrimenti come Roccaforte, che proprio in quel momento stava riposandosi dallo sforzo in un angolo del bar, lo aveva infatti steso con facilità e calciato con abilità nelle costole. Un’altra parte della sua mente era invece presa da quanto gli aveva detto il suo padrone di casa cinese quella stessa mattina, quando era andato a trovarlo per lamentarsi del chiasso del grammofono e s’era poi fermato a bere una birra.
Un bel colpo, in un certo senso, su questo non c’erano dubbi. Sì, ma in che senso?
Vomitò di nuovo, poi andò a dare un’occhiata fuori della finestra. Le giunche sobbalzavano oltre le barriere e lo Star Ferry aveva smesso le sue corse. Una vecchia fregata inglese se ne stava laggiù all’ancora e lì al circolo certe voci sostenevano che Whitehall stava per venderla.
«Dovrebbe prendere il largo» farfugliò, stordito, ricordando quel poco di erudizione che i viaggi gli avevano procurato in fatto di marineria. «Con i tifoni le fregate prendono il largo. Sissignore.»
Sotto la nera e fitta nuvolaglia, le colline erano del colore dell’ardesia. Sei mesi prima quella vista lo avrebbe fatto ululare dal piacere. Il porto, il frastuono, persino i grattacieli e le baracche, che insieme si arrampicavano dal bordo del mare su verso il Peak: dopo Saigon, quello scenario lui se l’era divorato con gli occhi dell’affamato. Ora invece non vedeva altro che una ricca e compiaciuta roccaforte inglese governata da una torma di mercanti ingozzati di quattrini e il cui orizzonte non si spingeva oltre la linea del ventre. La colonia era dunque diventata per lui ciò che era già per gli altri giornalisti: un aeroporto, un telefono, una lavanderia, un letto. Ogni tanto – ma sempre per poco – una donna. Persino l’esperienza doveva esservi importata. Quanto alle guerre che per tanto tempo erano state la sua droga, erano lontane da Hong Kong quanto da Londra o da New York. Solo la Borsa mostrava un accenno di sensibilità, ma in ogni caso il sabato era chiusa.
«Pensi che ce la farai a sopravvivere, campione?» chiese l’irsuto cowboy canadese avvicinandoglisi. I due avevano condiviso i piaceri dell’offensiva del Têt.
«Grazie, caro, mi sento una meraviglia» rispose Luke.
Dopodiché decise che per lui era davvero importante ricordare ciò che gli aveva detto quella mattina Jake Chiu davanti alla birra; e all’improvviso, come un dono del cielo, se ne rammentò.
«Mi ricordo!» strillò. «Cristo, cowboy, mi ricordo! Luke, tu ti ricordi! Il cervello mi funziona! Gente, amici, state a sentire, Luke!»
«Allora dimentica» gli consigliò il cowboy. «Di là spira una brutta aria oggi, campione. Qualunque cosa ti sia ricordato, dimenticala.»
Ma lui spalancò la porta con un calcio e irruppe nel bar, agitando le braccia.
«Udite! Udite! Gente!»
Non si voltò neppure una testa, e lui allora si fece portavoce con le mani.
«State a sentire, loffi ubriachi, ho una notizia. Fantastica. Due bottiglie di scotch al giorno e tuttavia una mente affilata come un rasoio. Datemi un campanello.»
Non avendo trovato nessun campanello, afferrò un boccale e con esso picchiò sul piano del bar, schizzando tutt’intorno birra. Ma anche allora soltanto il nano parve accorgersi a malapena di lui.
«Insomma, cos’è successo, Lukie?» belò il nano, con la sua finocchiesca strascicata da Greenwich Village. «Al Vaccone è tornato il singhiozzo? Questa volta non reggerò.»
Il Vaccone, nel gergo del circolo, indicava il Governatore e il nano, quanto a lui, era il capo-agenzia di Luke: un marsupialino tetro, con i capelli in disordine che gli ricascavano piangenti a ciuffi neri sulla faccia e una sua maniera tutta silenziosa di comparirti all’improvviso accanto. Un anno prima due francesi, che peraltro si vedevano di rado da quelle parti, quasi lo ammazzavano per un’osservazione da lui fatta a sproposito su chi aveva la colpa del pasticcio nel Vietnam. In tre se lo portarono in ascensore, gli fracassarono la mascella e varie costole, lo scaricarono al pianterreno e se ne tornarono su a finirsi quel che diavolo stavano bevendo prima. Non molto dopo degli australiani gli fecero lo stesso lavoro in occasione di una sua sciocca allusione al simbolico impegno militare del loro paese nella guerra. Praticamente, disse che Camberra s’era accordata con il presidente Johnson per mantenere i propri ragazzi a Vung Tao, che era come una specie di picnic, mentre gli americani combattevano sul serio altrove. A differenza dei francesi, gli australiani non si presero neppure il fastidio di usare l’ascensore, lo pestarono ben bene sul posto e quando crollò a terra gli diedero di tacco. Dopo di allora il nano capì quando doveva tenersi alla larga da chiunque, lì a Hong Kong: nei giorni di nebbia persistente, per esempio. Oppure quando c’era acqua solo per quattro ore al giorno. O il sabato quando infuriava un tifone.
Per il resto, il circolo era più o meno deserto. Per motivi di prestigio, i grossi corrispondenti se ne tenevano comunque alla larga. C’erano una manciata di affaristi, che v’andavano per il gusto che i giornalisti offrono, una spruzzata di ragazze, che v’andavano per gli affaristi, e qualche paio di turisti bellici in false divise coloniali. E, nel suo solito angolo, l’imponente Roccaforte, il sovrintendente di polizia, ex Palestina, ex Kenya, ex Malacca, ex Figi, un’implacabile macchina da guerra, con una birra davanti, le nocche di una mano leggermente rosse e una copia del «South China Morning Post» del sabato. Roccaforte, dicevano, v’andava per la finezza della cosa in sé. Al gran tavolo al centro, che durante la settimana era riservato all’United Press International, bivaccava il Circolo bocciofili dei giovani battisti conservatori di Shanghai, presieduto dal vecchio e screziato Craw l’australiano, che si godeva il solito torneo del sabato. La gara consisteva nel lanciare un tovagliolo appallottolato dal fondo della sala tra le bottiglie sistemate dietro il banco. A ogni colpo riuscito gli altri concorrenti compravano la bottiglia centrata e aiutavano il vincitore a berla. Il vecchio Craw gorgogliava il suo via ogni volta e un vecchio cameriere di Shanghai, un favorito di Craw, stava appostato accanto alle bottiglie e stancamente sturava quelle vinte. Quel giorno il gioco procedeva a rilento e alcuni concorrenti non si prendevano neppure la briga di lanci...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Premessa
- L’ONOREVOLE SCOLARO
- Parte prima. LA CORDA ALL’OROLOGIO
- Parte seconda. LO SCUOTIMENTO DELL’ALBERO
- Dossier George Smiley. a cura di Paolo Bertinetti
- Copyright