
- 252 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
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eBook - ePub
La notte che bruciammo Chrome
Informazioni su questo libro
Nel mondo dove domina la cultura delle realtà virtuali non c'è più spazio per concetti come lealtà, benessere, amicizia o amore. I nuovi allucinanti scenari della fantascienza contemporanea in una famosa raccolta di racconti di William Gibson, capofila del movimento cyberpunk.
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Informazioni
Print ISBN
9788804471370eBook ISBN
9788852055959Duello
con Michael Swanwick
Aveva intenzione di proseguire senza fermarsi fino in Florida. Pagarsi il passaggio lavorando su qualche nave di contrabbandieri d’armi, magari finire per farsi arruolare in qualche esercito ribelle del cazzo nella zona di guerra. O magari, con il biglietto valido finché non interrompeva la corsa, poteva non scendere mai… l’Olandese Volante dei Greyhound. Rivolse un sogghigno alla sua immagine riflessa sul finestrino freddo e sporco, mentre le luci del centro di Norfolk scivolavano via e il pullman ondeggiava sugli ammortizzatori stanchi, eseguendo l’ultima curva. Si fermarono con uno scossone sul parcheggio della stazione, cemento grigio illuminato come il cortile di una prigione. Ma Deke si vedeva morire di fame, magari in una tempesta di neve dalle parti di Oswego, con la guancia appoggiata allo stesso finestrino, e vedeva i suoi resti spazzati via alla fermata successiva da un vecchio biascicante con addosso una tuta da lavoro sbiadita. Decise che in un modo o nell’altro non gliene fregava un accidente. Se non che le gambe gli sembravano già morte. L’autista annunciò una sosta di venti minuti: Tidewater Station, Virginia. Era un vecchio edificio in blocchi di scorie pressate con due entrate per ciascun bagno: un relitto del secolo precedente.
Con le gambe come due pezzi di legno, fece un mezzo tentativo di rubacchiare dal banco degli articoli vari, ma la commessa negra sorvegliava le scarse merci in mostra dietro il vecchio espositore di vetro come se ne andasse del suo culo. “Probabilmente è così” pensò Deke, voltandosi. Di fronte ai bagni c’era una porta aperta con la parola GIOCHI che lampeggiava debolmente in plastica biofluorescente. Si vedeva un gruppo di fannulloni locali raccolti attorno a un tavolo da biliardo. Pigramente, con la noia che lo seguiva come una nuvola, infilò dentro la testa. E vide un biplano, le ali non più lunghe del suo pollice, che eruttava fiamme arancioni. Precipitando a vite, lasciandosi dietro una scia di fumo, svanì nell’istante in cui colpì il feltro verde del tavolo.
«Bravo Tiny!» gridò uno dei fannulloni «fallo fuori quel figlio di puttana!»
«Ehi» disse Deke «che succede?»
L’uomo più vicino era alto e magro come un palo, con un berretto a visiera in rete nera. «Tiny difende la Max» disse senza staccare gli occhi dal tavolo.
«E che roba è?» Ma proprio mentre lo chiedeva, la vide. Una medaglia in smalto blu a forma di croce di Malta, con la dicitura Pour le Mérite suddivisa fra le braccia.
La Max Blu era appoggiata sul bordo del tavolo. Proprio di fronte a una massa di grasso immobile incastrata in una sedia cromata apparentemente fragile. Se Deke si fosse infilato la camicia da lavoro color kaki dell’uomo, gli sarebbe ricaduta addosso come una vela, ma sul suo stomaco rigonfio era tesa a tal punto che i bottoni sembravano sul punto di strapparsi da un momento all’altro. Deke ricordò dei soldati sudisti che aveva visto lungo la strada: quell’endotipo grosso di pancia bilanciato su gambe dinoccolate che sembravano prese in prestito da un altro corpo. Tiny, in piedi, avrebbe potuto assomigliare a uno di quelli, ma su scala maggiore: jeans con la vita da un metro. Ci sarebbe voluta una cintura di acciaio per sostenere tutti quei chili di pancia rigonfia. Se Tiny si fosse mai alzato in piedi. (Deke si era accorto che la struttura cromata era in realtà una sedia a rotelle.) C’era qualcosa di infantile in maniera inquietante nella faccia dell’uomo: un accenno spaventoso di giovinezza, perfino di bellezza nei tratti quasi sepolti sotto pieghe di grasso. Imbarazzato, Deke distolse lo sguardo. L’altro uomo, quello in piedi dal lato opposto del tavolo, aveva basette folte e una bocca sottile. Sembrava che stesse cercando di spingere qualcosa con gli occhi, rughe di concentrazione che si irradiavano dagli angoli…
«Sei scemo, tu?» L’uomo con il berretto a visiera si voltò, e si accorse per la prima volta dei vestiti da proletario di Deke, in cotone indiano, e delle catene che portava ai polsi. «Alza il culo, coglione. Non sei il benvenuto, qui.» Tornò a guardare il duello aereo.
Si scommetteva. I fannulloni tiravano fuori soldi veri, quelli di una volta: dollari con la testa della libertà, e dieci centesimi di Roosevelt provenienti da negozi di numismatica, mentre i più cauti mettevano sui tavoli banconote antiche ricoperte di plastica trasparente. Dalle nuvole di fumo spuntarono tre aerei rossi, che volavano in formazione. Fokker D VII. Nella sala si fece il silenzio. I Fokker virarono maestosamente sotto il disco solare di una lampadina da 200 watt.
Lo Spad blu sbucò dal nulla. Altri due calarono dal soffitto in ombra, seguendolo a breve distanza. I fannulloni imprecarono, uno ridacchiò. La formazione si disperse. Uno dei Fokker scese quasi fino al tavolo, senza scrollarsi lo Spad che lo tallonava. Partì freneticamente a zigzag sulla verde pianura, senza risultato. Alla fine si alzò, il nemico alle calcagna, troppo verticalmente… e andò in stallo, troppo basso per riuscire a risollevarsi.
Una pila di monete d’argento cambiò di mano.
I Fokker adesso erano in svantaggio. Uno aveva due Spad in coda. Una scarica di proiettili traccianti, sottili come aghi, sfiorò la cabina di guida. Il Fokker scivolò a sinistra, virò in un Immelmann e si trovò dietro a uno dei suoi inseguitori. Sparò e il biplano cadde a vite.
«Forza, Tiny!» I fannulloni si strinsero attorno al tavolo.
Deke era impietrito dalla meraviglia. Gli sembrava di essere rinato.
Il Truck Stop di Frank si trovava tre chilometri fuori città, sulla strada riservata ai veicoli commerciali. Deke se l’era mentalmente annotato, per abitudine, mentre arrivavano con il pullman. Rifece la strada al contrario, fra le barriere di cemento e il traffico. Autocarri articolati gli passavano accanto, enormi, a otto segmenti, e ogni volta gli sembrava che lo spostamento d’aria lo buttasse a terra. Le stazioni dei veicoli commerciali erano bersagli facili. Quando entrò bighellonando da Frank, nessuno dubitò che venisse da uno dei grossi autocarri, e poté curiosare fra i banchi dei regali come voleva. L’espositore con le piastrine di wetware proiettivo era situato fra una pila di camicie coreane da cowboy e una serie di parafanghi Fuzz Buster. Un paio di draghi orientali si contorcevano nell’aria sopra l’espositore. Non si capiva se combattevano o scopavano. Il gioco che voleva era lì: una piastrina etichettata Spads & Fokkers. Gli ci vollero tre secondi per impadronirsene, ancora meno per far scivolare la calamita (che i poliziotti di Washington non si erano neppure preoccupati di confiscargli) sulla striscia magnetizzata di allarme.
Nell’uscire rubò due unità di programma e un piccolo telecomando Batang, che assomigliava a un obsoleto apparecchio acustico.
Scelse un ostello a caso e raccontò all’addetto la storiella che aveva sempre usato da quando gli era stato tolto il diritto all’assistenza sociale. Nessuno controllava mai; lo stato si limitava a contare le stanze occupate e a pagare.
Nella stanzetta c’era un vago odore di urina. Qualcuno aveva scritto sulle pareti slogan del Fronte di Liberazione Anarchico. Deke gettò via a calci la spazzatura da un angolo, si sedette con la schiena appoggiata al muro e aprì la confezione con la piastrina.
C’era un foglietto di istruzioni, con diagrammi di looping, viti orizzontali, Immelmann; un tubetto di pasta salina e una lista di specifiche operative per il computer. E la piastrina, in plastica bianca, con biplano e due scritte blu da una parte, rosso dall’altra. Se lo rigirò fra le mani: Spads & Fokkers, Fokkers & Spads. Rosso o blu. Si aggiustò il Batang dietro l’orecchio, dopo aver cosparso di pasta la superficie induttiva, inserì il nastro a fibre ottiche nel programmatore e attaccò il programmatore alla spina della parete. Poi infilò la piastrina nel programmatore.
Era un apparecchio economico, indonesiano, e sentiva un fastidioso ronzio alla base del cranio mentre il programma veniva caricato. Poi uno Spad azzurro-cielo volteggiò nell’aria a pochi centimetri dalla sua faccia. Era così reale che quasi brillava. Possedeva quella strana vita interiore che spesso hanno i modellini ben dettagliati, ma gli ci voleva tutta la sua concentrazione per mantenerne l’esistenza. Bastava distrarsi un attimo perché si trasformasse in una macchia indistinta.
Si esercitò fino a quando la batteria del telecomando non si esaurì, poi si accasciò contro la parete e si addormentò. Sognò di volare in un universo formato interamente da nuvole bianche e cielo azzurro, senza alto né basso, e nessun campo verde contro cui schiantarsi.
Si svegliò con nelle narici l’odore rancido di una polpetta di krill che friggeva, e fece una smorfia per la fame. Non aveva un soldo. Be’, c’erano un sacco di studenti nell’ostello. Ne avrebbe trovato qualcuno disposto a comprare un’unità di programmazione. Uscì sul corridoio con una delle due unità che aveva rubato. Poco più avanti trovò una porta con un poster attaccato: c’è un universo meraviglioso dietro l’angolo. Sotto c’era un cielo stellato con un mucchio di pillole multicolori ritagliate dalla pubblicità di qualche azienda farmaceutica, incollato su una fotografia molto suggestiva della “colonia spaziale” che era in costruzione da prima che lui fosse nato. Andiamo diceva il poster, sotto il collage di pillole soporifere.
Deke bussò. La porta si aprì, bloccata da un catenaccio di sicurezza. Vide cinque centimetri della faccia di una ragazza. «Sì?»
«Probabilmente penserai che l’abbia rubato.» Si passò il programmatore da una mano all’altra. «Cioè, perché è nuovo, praticamente vergine, ha ancora il codice a barre. Senti, non voglio discutere. No. Lo puoi avere per la metà di quello a cui lo pagheresti da qualsiasi altra parte.»
«Ehi, dici davvero?» La parte visibile della bocca si piegò in uno strano sorriso. Allungò la mano con il palmo verso l’alto, le dita contratte. All’altezza del mento di Deke. «Guarda qui!»
Aveva un buco nella mano, un tunnel nero che le penetrava nel braccio. Due piccole luci rosse. Occhi di topo. Sgattaiolarono verso di lui diventando più grandi e più luminose. Qualcosa di grigio uscì dal buco e gli balzò verso la faccia.
Deke urlò, alzando le mani per ripararsi. Le gambe gli cedettero, cadde, schiacciando il programmatore sotto di sé.
Frammenti di silicato si sparsero in giro mentre lui si contorceva sul pavimento, stringendosi la testa fra le mani. Sentiva un dolore terribile.
«Oh Dio mio!» Il catenaccio si aprì, e Deke vide la ragazza china su di sé. «Ascolta, tieni questo.» Lasciò penzolare un asciugamano azzurro. «Prendilo, che ti tiro su.»
Lui la guardò con gli occhi velati di lacrime. Studentessa. Aspetto ben nutrito, camicia larga, denti così dritti e bianchi che sembravano delle referenze. Una catenina d’oro attorno a una caviglia coperta da una sottile peluria da bambino. Capelli tagliati corti, alla giapponese. Ricca. «Quella roba era la mia cena» disse lugubremente. Afferrò l’asciugamano e si lasciò aiutare.
Lei sorrise, ma si ritrasse rapidamente. «Te lo ripagherò» disse. «Vuoi da mangiare? Era solo una proiezione, okay?»
Lui la seguì, guardingo come un animale che entri in una trappola.
«Puttanaeva» disse Deke «questo è formaggio, formaggio vero!…» Era seduto su un sofà a molle incastrato fra un orsacchiotto in peluche alto un metro e mezzo e una pila traballante di floppy disk. Il pavimento era coperto di libri, vestiti, giornali. Ma il cibo che lei gli aveva portato come per magia era incredibile: formaggio olandese, carne in scatola e crackers di autentico grano di serra… roba da Mille e Una Notte.
«Ehi» disse lei. «Qui si sa come trattare un proletario, eh?» Si chiamava Nance Bettendorf. Aveva 17 anni. Entrambi i genitori lavoravano (bastardi avidi) e lei studiava ingegneria alla William and Mary. Aveva il massimo dei voti, tranne in inglese. «Devi avere qualcosa con i topi, tu. Una specie di fobia.»
Lui gettò un’occhiata al letto. Non si vedeva, in effetti: solo un rigonfiamento nello strato di roba che copriva il pavimento. «Non è per quello. Solo che mi ha ricordato qualcos’altro.»
«Cosa?» Si accoccolò di fronte a lui, la camicia che le scopriva una coscia morbida.
«Be’… Non hai mai visto» alzò involontariamente la voce, pronunciando in fretta le parole «il Washington Monument? Di notte? Ha quelle due piccole… luci rosse in cima, per gli aerei o qualcosa del genere, e io…» Cominciò a tremare.
«Hai paura del Washington Monument?» Nance rise come una matta, rotolandosi, agitando le lunghe gambe abbronzate. Indossava il pezzo inferiore di un bikini color cremisi.
«Preferirei morire piuttosto che doverle rivedere» disse lui con voce pacata.
Lei smise di ridere, si sedette, lo scrutò in faccia. Si mordicchiò il labbro inferiore con i denti bianchi, regolari, come se le stesse venendo in mente qualcosa a cui avrebbe preferito non pensare. Alla fine disse. «Un blocco mentale?»
«Sì» disse lui. «Mi hanno detto che non sarei più tornato a Washington. Poi si sono messi a...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Prefazione
- Johnny Mnemonico
- La notte che bruciammo Chrome
- Il continuum di Gernsback
- Frammenti di una rosa olografica
- Hinterland
- New Rose Hotel
- Il mercato d’inverno
- La razza giusta. con John Shirley
- Stella Rossa, orbita d’inverno. con Bruce Sterling
- Duello. con Michael Swanwick
- Copyright