L'edera
eBook - ePub

L'edera

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Storia della decadenza di una famiglia, l'intreccio dell'edera si impernia su un personaggio femminile, Annesa, una trovatella che identifica la propria sorte in quella dei nobili Decherchi che l'hanno adottata. Sarà Annesa a interpretare il dramma di tutta la famiglia, cercando di prolungarne, con un delitto che si rivelerà in fondo inutile, l'inevitabile declino. Romanzo di tesa drammaticità, L'Edera rappresenta nell'arco dell'arte della Deledda uno degli approdi più suggestivi, per l'intensa forza con cui l'autrice affronta i conflitti interiori, i vuoti, le crisi dei personaggi, per quel senso di penitenza e di desolazione che vibra sullo sfondo di un paesaggio primordiale di rocce e di selve.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804466079
eBook ISBN
9788852056161

III

«Annesa, Annesa!» chiamò il vecchio asmatico. La sua voce lontana, accompagnata da un gemito, svegliò Annesa dai suoi sogni: ella si scosse e rientrò in camera.
Ziu Zua, assalito da uno dei suoi frequenti accessi di soffocamento, cercava di sollevarsi e non poteva; le sue mani scarne si agitavano, come lottando penosamente contro un fantasma invisibile.
Annesa gli si avvicinò senza troppa premura, lo sollevò, gli mise un altro cuscino dietro le spalle. A poco a poco egli riprese a respirare meno penosamente e domandò da bere; e appena poté parlare, ricominciò a imprecare e a lamentarsi.
«Tu mi lasci sempre solo» insisteva con voce ansante «e le zanzare mi pungono, e il lume si spegne, che ti si spengano gli occhi! Chiamami prete Virdis, almeno: voglio confessarmi, non voglio morire scomunicato, come un moro. Mi date il veleno, voi; tutti mi date il veleno, voi… per farmi morire lentamente, che siate maledetti voi e che sia maledetto il latte delle vostre madri. Ma arriverà presto il momento che desiderate: sì, sì, presto, prestissimo. Mi troverete morto come un cane, e allora sarete contenti…»
«Ma state zitto una buona volta» disse Annesa, minacciosa. «Vergognatevi di dire queste cose, vecchio ingrato, vecchio cattivo…»
Egli però continuò a brontolare, anche dopo che ella ebbe spento il lume e si fu coricata. Nel buio ella sentiva quella voce ansante e stridente, e le pareva che una sega le dividesse il cuore. E una parte di quel cuore si conservava buona e pura, e ardeva d’amore, di pietà, di gratitudine, mentre l’altra parte sanguinava e ardeva anch’essa ma come un tizzo verde, di una fiamma livida e puzzolente. La dolcezza e la tristezza dei ricordi erano sparite: quella voce di fantasma cattivo richiamava la donna alla realtà opprimente.
Le pareva di soffrire d’asma anche lei; e invece di compatire il vecchio per ciò che egli soffriva, ripeteva fra sé le imprecazioni e le male parole di lui.
Finalmente entrambi si calmarono e si assopirono. Una voce dolce e sonora cantò in lontananza una soave battorina d’amore, poi s’avvicinò, risonò nel silenzio della straducola, accompagnata da un coro melanconico di voci giovanili.
… Sos ojos, sa cara bella,
Su pilu brundu dechidu!
Pro me non bi torrat mai
Cuddu reposu perdidu…
“È Gantine, povero usignolo!” pensò Annesa, che nel dormiveglia cominciava già a sognare di Paulu. E, al solito, pensò con tenerezza e con rimorso al suo giovane fidanzato; ma quando la voce tacque, ella si assopì ancora e di nuovo la figura di Paulu le tornò vicina.
L’indomani mattina donna Rachele andò alla messa bassa e fece la comunione: e le altre donne anziane che erano in chiesa, la videro piangere e pregare fervorosamente, tutta chiusa nel suo scialle nero come in un manto di dolore.
Annesa invece andò con Rosa alla messa cantata delle nove. Col suo bel costume dalla gonna pieghettata e orlata di verde, il corsetto nero e rosso, il grembiule carico di ricami antichi, una benda gialla intorno al capo, ella rassomigliava ad una piccola madonna primitiva, mentre al suo fianco la bimba deforme, goffamente vestita di un abituccio borghese di cotonina rossa, pareva la caricatura d’una civiltà degenerata.
Dopo aver percorso la straducola in pendio, uscirono nella strada comunale che attraversa il paese, e proseguirono verso la chiesa.
Altre donne vestite come Annesa sbucavano da tutte le straducole: gruppi di bimbi laceri ma robusti e belli, coi luminosi occhi neri, giocavano qua e là sotto gli archi delle porticine, sulle scalette esterne, nei piccoli cortili insolitamente spazzati e inaffiati.
La chiesa di San Basilio, sebbene questo fosse il santo protettore del paese, restava fuori dell’abitato, un centinaio di metri distante dall’ultima casupola nella quale abitava una parente dei Decherchi.
Un cortile vastissimo, roccioso, coperto di fieno e di stoppie calpestate, circondava la chiesetta, addossate alla quale sorgevano alcune stanze e una tettoia dove si riunivano le persone incaricate del buon andamento della festa.
Vicino alla chiesa s’innalzava una specie di torre quadrata, con un rozzo belvedere, al quale si saliva per una scaletta esterna. La chiesa, le stanze, la torre, d’una costruzione primitiva, di pietre rozze e di fango, avevano preso il colore cupo e rugginoso delle roccie circostanti. A sinistra della chiesa, ai piedi del villaggio, si sprofonda la vallata granitica, di là della quale un grandioso panorama di valli e montagne, verdi e azzurre, sfuma sul cielo chiarissimo: a destra sorge il monte San Giovanni, coi suoi boschi, le brughiere, le roccie dai profili fantastici.
Quattro quercie secolari crescevano davanti alla chiesa, la cui facciata, intraveduta fra i rami delle piante poderose, pareva tagliata nella roccia. Uomini alti e forti, vestiti di rosso e di nero, paesani di altri villaggi, pastori e contadini, s’aggruppavano intorno ai banchi dei liquoristi, sotto le tettoie di frasche addossate alle roccie della spianata. Era la solita folla delle feste sarde: uomini allegri che pensavano a bere, donne in costume che andavano in chiesa per pregare e farsi vedere.
Annesa e Rosa scesero lentamente il sentiero che va dalla strada comunale alla chiesa: davanti alla casetta ultima del paese si fermarono a salutare zia Anna, la cugina di donna Rachele.
Questa cugina era una donna anziana, alta, magra e pallida come un fantasma; rassomigliava alquanto a donna Rachele, ma sosteneva d’essere più giovane e molto più bella della cugina nobile. E raccontava d’aver avuto e di aver ancora molti adoratori e pretendenti che ella respingeva per restar libera e potersi dedicare tutta a tre sue nipoti, orfane di padre e di madre.
Queste nipoti, infatti, vivevano con lei, ed una era già una ragazza da marito. E zia Anna le amava come sue figliuole, poiché era una donna affettuosa ed anche savia, che all’infuori dell’idea fissa della sua bellezza e dei suoi pretendenti non aveva altra debolezza.
Un cortiletto senza cancello, circondato di un muricciuolo, precedeva la casetta: dalla porticina spalancata usciva un buon odore di caffè. Annesa gridò:
«Zia Anna, non venite alla messa?»
«Aspetto un ospite» disse la donna, affacciandosi alla porta con una caffettiera in mano. «Rosa, anima mia, come sei bella oggi! Venite avanti; vi darò il caffè. Sei sempre vecchia, Rosa? i dentini non vogliono spuntare, no?»
Rosa sorrise, mostrando le sue gengive sguarnite, e Annesa disse, per conto della bimba:
«Verranno di nuovo, i dentini, e poi cadranno ancora. Cadranno anche i vostri, zia Anna, e non ritorneranno più.»
«Può darsi» rispose la donna, che aveva bellissimi denti. «Ma venite, belle mie; vi darò il caffè; per la messa è ancora presto. Ho veduto prete Virdis passeggiare davanti alla chiesa: era con un signore che mi è sembrato Paulu.»
Allora Annesa, che stava per entrare da zia Anna, cambiò parere e s’avviò verso la chiesa.
«Addio, addio, statevi bene e tanti saluti alle ragazze. Noi andiamo perché è tardi.»
«Avevo da raccontarti una cosa: verrò da voi domani» disse zia Anna, salutando con la mano. «Addio, Rosa, non mangiare molto torrone. Non mi hai detto neppure cosa ti ha dato il sorcio, in cambio dei tuoi dentini. Glieli hai poi messi, nel buco dietro la porta?»
«Sì» gridò la bimba. «Mi ha lasciato un po’ di nocciuole, in cambio dei denti.»
«A che servivano le nocciuole, se non avevi denti per schiacciarle?»
«Eh, le ho schiacciate con una pietra!»
«Addio.»
«Addio.»
Annesa trascinava Rosa e camminava in fretta, guardando fisso davanti a sé, come affascinata. La bimba disse:
«Sì, babbo è là, davanti alla chiesa, e passeggia con prete Virdis che è arrabbiato.»
Infatti il vecchio prete gesticolava animatamente. La sua grossa pancia ansava. Era bruttissimo, grosso e gonfio; il viso color mattone, paffuto e rugoso nello stesso tempo, esprimeva un malcontento sdegnoso. Una parrucca dai lunghi peli che sulla nuca si mescolavano a qualche ciuffo argenteo di capelli veri, accresceva quell’orrida bruttezza.
Annesa abbassava gli occhi ogni volta che incontrava il prete: e anche quella mattina tentò di passare dritta, trascinandosi dietro la bimba, ma il vecchio sacerdote sollevò una delle sue grosse mani e cominciò a gridare:
«Rosa! Rosa!»
Annesa dovette fermarsi.
«Rosa» disse il prete, avanzandosi fino a coprire con la sua pancia il viso della bimba. «Ho piacere che tu venga alla messa. A quanto pare ci vengono persino le capre, oggi, persino le donne ebree e le donne moresche.»
Annesa andava raramente in chiesa; ma non si turbò per l’allusione. Guardava verso la spianata, fingendo d’interessarsi al quadro variopinto che le si stendeva innanzi e ascoltava i bandi che il messo,1 ritto sopra una roccia, gridava alla folla.
Anche Paulu guardava laggiù. La figura del messo, alta e selvaggia, spiccava nera nel sole. Col suo tamburo scintillante, col suo costume metà da paesano, metà da cacciatore, col suo berretto di pelo che pareva la capigliatura naturale di quella testa nera e forte, il messo dava l’idea di un araldo primitivo sceso giù dai boschi della montagna per annunziare qualche cosa di terribile ai pacifici bevitori d’acquavite e di anisetta raccolti intorno ai furbi rivenditori della spianata. Tutti lo guardavano, ed egli gridava con voce stentorea da predicatore:
«Giovani e giovanette, andate a ritrattarvi dal fotografo che abita presso il falegname Francesco Casu. E chi vuole orzo a una lira il quarto corra dal signor Balentinu Virdis. E presso Maria detta la Santissima si vendono uova fresche e sorbetti fatti col ghiaccio…»
«Sì, anche le donne moresche» ripeté prete Virdis. «Quelle che si alzano la mattina col diavolo, e vanno a letto, la sera, col demonio. Va, va, Rosa, prega per questa gente, che si converta. Mi racconterai poi la storia del Signore morto. La sai ancora?»
«Sissignore.»
«Meno male: tu non sarai un’ebrea. Va, va.»
E riprese a camminare, sbuffando. Paulu lo seguì, ma prima scambiò con Annesa uno sguardo rapido e ardente che la riempì di gioia.
«Anghelos santos!» ella disse piano, con ironia, ripetendo l’intercalare favorito di prete Virdis. E la piccola Rosa, che amava poco il grosso prete, si mise a ridere, col suo risolino triste di vecchietta.
Ann...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. L’edera
  5. I
  6. II
  7. III
  8. IV
  9. V
  10. VI
  11. VII
  12. VIII
  13. IX
  14. X
  15. XI
  16. Copyright