«E poi è sparita di nuovo?» mi domandò Oscar che stava trascurando i suoi clienti per ascoltarmi. I miei ricordi erano per lui un racconto in cui non c’era la sofferenza dell’esule né la gioia del ritorno: lo lasciavo immaginare che avessi scelto una delle tante vite possibili che il destino mi aveva messo di fronte. Non venivo compatito. Per un esule che ritorna, evitare la compassione di chi lo ascolta è un successo virile, come resistere all’abbraccio della nostalgia.
«Proprio sparita non direi» gli risposi. «Se n’è andata via senza tanti convenevoli.»
«L’hai cercata?»
«Lei mi ha cercato.»
«E vi siete rivisti.»
«Ci siamo rivisti.»
«Ancora con la compagnia teatrale, ancora uno spettacolo a Milano?»
«Più o meno lo stesso copione. Una volta ci siamo incontrati a Roma.»
«In camera da letto, in cucina con la tua camicia a bere il caffè...»
«A Roma non c’era la cucina. Eravamo in albergo... Sono anni che non la vedo.»
«Avrai nostalgia.»
«Vuoi scherzare?»
«Adesso è a Fiume?»
«Cosa vuoi che ne sappia!»
«Controlliamo subito.» Oscar andò al bancone, frugò dietro a uno scaffale e tornò al mio tavolo. «Controlliamo subito» ripeté, sfogliando il giornale. «Ecco qui. Sì, c’è. Il giornale dice anche che lo spettacolo ha molto successo. Potresti andare questa sera. Una bella sorpresa.»
«Non lo so, vedrò. Soltanto l’idea mi mette...»
«Ma prendila un po’ alla leggera: sei troppo drammatico!» mi disse Oscar, versandomi da bere e accennando a un brindisi.
«L’hai più vista?» gli chiesi.
«No, mai. Però ho visto le sue foto sui giornali.»
«Sempre bella, vero?»
«Bellissima.»
«Cosa danno a teatro?»
«Aspetta.» Oscar riprese il giornale, sfogliò le pagine: «Dunque, ecco qui: Le smanie per la villeggiatura. Sarà una lagna. Ma tu vai per lei, no?»
«Non vado da nessuna parte.»
«Vai a teatro, dammi retta.»
«Vorrei chiamare mia sorella. Se avesse tempo andrei da lei. E vorrei incontrare anche la moglie del capitano Della Janna.»
«E poi Eleonora.»
«Non credo.»
«Sarà stata lei a mandarti quella cartolina.»
«Figurati! Lei non userebbe mai toni misteriosi, non ne ha bisogno. Con me è sempre stata molto diretta, non si nasconderebbe nell’anonimato. Sarebbe umiliante.»
«Non si sa mai. Ha sempre cambiato nome... non è tanto normale.»
«Lo so, lo so.»
«È la prima volta che la vedresti qui a Fiume come attrice, vero?»
«Questo sì.»
«E allora, prima tua sorella, poi la moglie del capitano e poi lei.»
«Non credo. Posso fare una telefonata?»
«A lei?»
«A mia sorella, ti ho detto. Ho bisogno della guida del telefono. Ho lasciato a Milano la mia agenda.»
«Ecco» mi disse ritornando. «Però non ti ho portato un pezzetto di carta per scrivere il numero. Vado a prenderlo.»
«Resta qui, non serve.» Mi frugai nelle tasche. «Ho ancora questo cartoncino che mi ha lasciato ieri sera al ristorante quel poveraccio con la fisarmonica.»
Oscar gli diede un’occhiata, me lo prese di mano: «Guarda qui» disse rigirando il cartoncino. «Vedi? Quando si dice il destino. È un invito a teatro, al “teatro italiano”.»
«Non ci avevo fatto caso.»
«Leggi bene: non hai fatto caso che tra i nomi degli attori c’è quello di Eleonora? Non puoi non andarci.»
Mi ripresi il cartoncino e lessi con attenzione quello che c’era scritto, ma cercando anche di mostrare indifferenza: «Non m’interessa. Goldoni l’ho visto e rivisto molte volte al Piccolo di Milano».
«Ma non recitava Eleonora.»
L’idea di andare a teatro mi attirava, ma non volevo farlo credere a Oscar. Mi commosse invece la voce di mia sorella al telefono. Era emozionata, aveva un nodo alla gola. Mai avrebbe pensato che mi trovassi a Fiume. Mi chiese, quasi supplicandomi, di andare subito a trovarla.
Abitava dalle parti dei giardini, un tempo intitolati alla principessa Jolanda, dove c’erano eleganti ville liberty di proprietà della buona borghesia fiumana. Faticavo a riconoscere quella zona completamente ricostruita con alti edifici anonimi, con strade che s’incrociavano perfettamente ad angolo retto, tutte uguali. Suonai il campanello dopo aver chiesto più volte qualche indicazione per raggiungere l’appartamento di Ada. Venne lei ad aprire la porta.
Da quando ero stato internato nel campo di concentramento e poi fuggito in Italia non l’avevo più vista. L’ultima immagine che ricordavo di lei era quella di una donna fiera, determinata, mio padre al femminile: incuteva soggezione, come diceva Oscar. Adesso ci guardavamo senza parlare, come se ci stessimo spiando. La pelle, le rughe, i capelli bianchi, i denti: l’uno osservava nell’altro la propria vecchiaia, senza pudore. Nessuna parola interruppe questo silenzioso interrogatorio sul tempo della vita che traspariva dalle nostre facce. Poi finalmente: «Entra», dopo qualche eterno secondo. «Non ti aspettavo così presto.»
Provai per lei quel sentimento di pena e tenerezza che si ha per i malati. Fu così, certamente, anche per Ada. L’appartamento era modesto, malinconico, mi riportava alla memoria l’esuberanza della nostra casa, in cui lei si aggirava da padrona, fin da quando era piccola. Mi accompagnò in un salottino arredato con decorosa semplicità. In ogni angolo libero da soprammobili c’erano fotografie di famiglia, un paio anche mie, con i pantaloni corti e la mia prima bicicletta, o in posa, fiero, mentre esibivo una bella orata appena pescata. Presi tra le mani quella che ritraeva l’insegna della nostra azienda con il nonno sulla porta degli uffici.
«Abbiamo dovuto adattarci» mi disse, «ci hanno confiscato tutto: per me e mio marito, soli, la nostra casa di via Carducci era considerata troppo grande dal governo. Ci sono tornata una volta, mi hanno permesso di entrare. Abita lì una famiglia di Zagabria molto numerosa. Ha tenuto i nostri mobili, li conserva con cura.»
Alla sua figura dimessa non corrispondeva la voce, che aveva conservato un tono autorevole. Dopo qualche frase di circostanza, portò il discorso sulla nostra azienda. Mi raccontò con precisione gli ultimi tempi in cui papà non se ne interessava più, e lei n’era diventata l’unica vera responsabile. Mi spiegò i problemi che provocarono l’inizio della crisi e i particolari del fallimento. Era come se volesse giustificarsi con me di non essere stata in grado di continuare la tradizione di famiglia. La burocrazia asfissiante del regime comunista che ne controllava la gestione e pretendeva di decidere l’indirizzo amministrativo, le numerose tangenti da pagare per le forniture, i personaggi equivoci che s’intromettevano nella direzione della ditta, approfittando dell’incompetenza dei due commissari nominati ufficialmente dal governo della città. I guadagni ancora discreti venivano espropriati “legalmente e illegalmente”, così i debiti si accumulavano e non si riusciva a far fronte ai creditori e ad appianare i buchi di bilancio. «Hanno voluto farci fallire» mi diceva. «L’azienda era per loro una testimonianza insopportabile della nostra storia, della bravura degli imprenditori italiani.»
Mi faceva tristezza, non cercavo di consolarla. Non lo avrebbe accettato: si stava sfogando, non cercava la mia comprensione, era come se avesse di fronte nostro padre: si rivolgeva a me, ma stava parlando a papà e cercava di convincerlo per farsi perdonare. «E poi» aggiunse, alzando la voce, «per chi avrei dovuto continuare a sacrificarmi, a perdere le notti e la salute: per i comunisti slavi? Non abbiamo figli, tu te n’eri andato, un domani nessuno avrebbe portato avanti il nome del Cotonificio.»
Dal racconto del fallimento all’atto di accusa contro di me, il passo fu breve. Senza eccedere, con molta fermezza, rimproverò le scelte che mi allontanarono dalla famiglia e dal nostro lavoro. Non la interrompevo, mi pareva che le facesse bene lasciarsi andare alle sue emozioni, come se si svelenisse; mai una domanda per sapere di me: avevo immaginato che in qualche modo, nonostante il silenzio imposto dalla polizia jugoslava, fosse venuta a conoscenza del mio processo e della prigionia. Dall’Italia, mai le avevo fatto cenno per lettera di quei trascorsi, supponendo con buone ragioni che venisse attentamente sorvegliata dalla polizia e che miei eventuali racconti le avrebbero creato seri problemi. Poi, dal mare di parole con cui m’investiva, capii che era rimasta all’oscuro di tutto. Pensava che io me ne fossi andato senza un vero motivo, quasi per un capriccio, come un capriccio era stato secondo lei l’impegno politico, la mia militanza per il comunismo.
Quando in un momento di tregua si placarono le sue invettive, le lamentele, le accuse, e pronunciai senza neppure riflettere il nome di Goli Otok per metterla al corrente telegraficamente di qualcosa che non aveva mai saputo – il processo e l’internamento all’Isola Calva –, rimase impietrita, le parole le si ghiacciarono in gola. Si alzò dalla poltrona, mi venne vicino, prese la mia mano con tenerezza: il primo gesto d’affetto da quando ero entrato in casa sua.
Ada m’interrogava, voleva che le raccontassi con precisione ogni particolare, e quando ascoltava quelli più drammatici non tratteneva le lacrime, abbassava la testa e con le mani copriva gli occhi, quasi si sentisse lei, adesso, responsabile di tutta la nostra tragedia famigliare. «Ora capisco» esclamò, «papà sapeva tutto.»
«Sapeva che ero stato processato, condannato, deportato all’Isola Calva?»
Si schiarì la voce, si asciugò le lacrime con un fazzolettino di lino bianco con l’orlo di pizzo su cui scorgevo le sue iniziali: ciò che forse le rimaneva ancora della nostra antica raffinatezza. «Credo proprio di sì» mi disse. «Te lo ricordi negli ultimi tempi quando ogni tanto passavi da casa? Se ne stava chiuso nel suo studio, era assente, si astraeva da tutto sprofondato nei libri. Poi, all’improvviso, pensavo che fosse dipeso da qualche discorso con il nostro vecchio ragioniere Nussdorfer – non vedeva anima viva, se non noi della famiglia –, ecco che una mattina esce di casa sbarbato, pettinato, vestito con cura. E così ogni giorno della settimana senza mai dirci niente di ciò che andava a fare. Mi preoccupai di questo cambiamento: prima era sempre in casa e, adesso, alle nove di mattina in punto, sempre fuori. Ti confesso che, all’inizio, pensai fosse andato via di testa. A un certo momento, incominciò a invitare a casa persone che non avevo mai visto prima, che non avevano niente a che vedere con il suo lavoro. Ascolto i loro discorsi di cui papà non fa nessun mistero. Te lo dico in breve: s’interessa di politica.»
«Di politica?»
«Sì. Entra in contatto con le associazioni di italiani impegnate contro la slavizzazione di Fiume, partecipa a riunioni spesso svolte in segretezza...»
«Non stava bene.»
«Stava benissimo, pareva ringiovanito di vent’anni. Non ti dico di come stava in ansia la mamma. Io ero da un lato felice nel vederlo così energico, pieno di vita, dall’altro temevo per quello che gli sarebbe potuto capitare.»
«Era tornato in azienda?»
«Figurati! Neanche per sogno, non gli interessava minimamente. Se gli chiedevo un consiglio, mi rispondeva che quello che avrei deciso io sarebbe andato benissimo. La politica, l’Italia, Fiume, Tito: questo gli interessava... per colpa tua.»
«Colpa mia?»
«Sì, adesso capisco. Sì, capisco proprio tutto. Lui certamente sapeva quello che ti era capitato, quanto stavi soffrendo, e voleva riscattarti...»
«Perché riscattarmi?»
«Una volta ero entrata nel suo studio, volevo cercare di ragionare con lui sui pericoli a cui andava incontro. Lo supplicavo di essere prudente, gli ricordavo perfino la sua età che non gli consentiva avventure giovanili. Mi aveva risposto che tu non dovevi pagare per tutti. Era come se papà volesse continuare la tua attività politica... Allora non capivo e credevo, davvero, che non stesse bene di testa: sai, una specie di esaltazione...»
«Si era messo dalla parte dei comunisti stalinisti?»
«Cosa dici! Ti ho appena spiegato con chi si vedeva, dove andava... Ti voleva essere vicino lottando anche lui, come te, per un ideale. Sapendo dove eri finito, non poteva stare con le mani in mano. Si batteva per l’italianità di Fiume contro chi ti aveva incarcerato.»
«Ne avevate parlato?»
«Mai. Ti ho detto: capisco solo ora.»
«Sono tue supposizioni.»
«No, non mi sbaglio. Ricorderò sempre il sorriso fiero e dolce con cui mi ha salutato quando, una mattina, all’alba, la polizia politica è venuta a prenderlo. Nessuna parola, solo un sorriso. Non lo dimenticherò mai. Dopo una settimana l’hanno trovato con la testa fracassata tra gli scogli del molo grande. I suoi massacratori non sono stati neppure capaci di affondare il cadavere. Quando sono andata dalla polizia per chiedere notizie, non ha saputo quale falsità inventare.»
«La mamma?»
«È morta qualche giorno dopo di crepacuore.»
«Sì, questo l’avevo saputo. Perché non sei venuta in Italia con tuo marito dopo la morte di papà e mamma? Avrai avuto la polizia sotto casa, immagino i problemi che ti avrà procurato... Via, dovevi andar via, lasciarti tutto alle spalle.»
«Non volevo lasciarmi tutto alle spalle. Sono nata qui, voglio morire qui. Rimango con i miei ricordi. Prima c’era l’Italia, poi la Jugoslavia, adesso la Croazia: magari riuscirò a vedere qualche altro cambiamento. Non cambierà il cielo di Fiume, questa bella aria leggera. Passeggio lungo il mare: è sempre lo stesso, nessuno me lo porterà mai via. E poi vado al cimitero. Lì ritrovo il papà, la mamma, i nonni. Ritrovo la nostra gente.»
Rimasta. Lo scrittore Quarantotti Gambini sosteneva che gli italiani rimasti, quelli che non scelsero l’esilio dopo che le nostre terre furono cedute alla Jugoslavia, erano “italiani sbagliati”. Mia sorella era “sbagliata”? Forse era un’eccezione, ma anche le eccezioni fanno la Storia. Non era mai stata comunista, non aveva mai accettato compromessi col regime, aveva assistito al tramonto di una tradizione e alla tragica fine della nostra famiglia. “Italiana sbagliata”? Era sopravvissuta tra grandi difficoltà, infiniti dolori. Come me.
Un altro addio, probabilmente questa volta per sempre. Prima di salutarci, mia sorella mi consegnò un pacchetto di fotografie legate con un nastro rosso: «Puoi immaginarti cosa ritraggono. Vorrei dartele per scusarmi di tutto quello che ho pensato di te. Ti prego di conservarle, di guardarle ogni tanto, di mostrarle a chi ti vuole bene... non dimenticarci».
M’incamminai verso l’azienda di mio padre, dove una volta si trovavano gli uffici. Solo una parte della vecchia facciata del palazzo era conservata, il resto sventrato e ricostruito senza cura. L’eleganza di un tempo era sparita: l’edificio esibiva una sintesi tra passato e presente che non aveva nessuna giustificazione architettoni...