Un letto di tenebre
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Un letto di tenebre

  1. 532 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Un letto di tenebre

Informazioni su questo libro

Chi è responsabile del suicidio della giovane Peyton Loftis? Suo padre Milton, debole e alcolizzato, legato a lei da un amore morboso? La madre Helen, incapace di affetto, gelidamente inflessibile e chiusa nel suo sterile puritanesimo e nei suoi odi meschini? O Peyton stessa, fragile e oppressa da oscuri sensi di colpa, che si è lasciata avvolgere da una spirale di follia autodistruttiva? Divisi da un'insanabile discordia, i Loftis sono spinti sull'orlo del baratro, e oltre, dagli stravizi del padre. In lotta contro se stessi, alla ricerca dell'innocenza perduta, di un qualsiasi spiraglio di autenticità e di luce, Milton, Helen e Peyton sono al tempo stesso vittime e carnefici della medesima tragedia, la domestic tragedy dell'uomo moderno che, in una soffocante cittadina del Sud degli Stati Uniti, può assumere le proporzioni di una catastrofe esistenziale. Un letto di tenebre, uscito nel 1951, segna l'esordio dalla voce potente di uno scrittore capace di costruire straordinarie architetture narrative.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804633280
eBook ISBN
9788852045271

Un letto di tenebre

A Sigrid

I

Quando scende da Richmond a Port Warwick, il treno comincia a prendere velocità alla periferia della città, oltre le manifatture di tabacco con la loro eterna nuvola di polvere acre e dolciastra, oltre la fila interminabile di case di legno di un marrone uniforme, che sembrano allungarsi per miglia e miglia giù per la strada in pendio, con le centinaia di tetti che riflettono la pallida luce dell’alba, oltre le strade secondarie ancora pigramente assopite nello scarso traffico mattutino, e, non appena supera, sferragliando ormai a ritmo rapido, il ponte che separa le ultime colline, ecco che si può vedere, giù in basso, il fiume James che serpeggia, con una schiuma verdastra, fra gli stabilimenti di prodotti chimici ed altre file di case di legno prima di sparire, poco più avanti, fra i boschi.
Poi, ecco che a un tratto il treno corre fra foreste di pini, e il controllore, che ha l’aria rispettabile di un bravo zio di mezza età, compare nella vettura con aria titubante e comincia a chiedere i biglietti. Se siete particolarmente svegli a quest’ora impossibile, notate subito che la sua voce ha un curioso accento gutturale e negroide, dal tono particolarmente soddisfatto rispetto a quelle di Columbus, di Detroit o della località dalla quale venite, e quando gli chiedete quanto manca ancora a Port Warwick e lui risponde: «Un’ottantina di miglia, più o meno», vi accorgete subito di essere nel Tidewater. Tornate allora a sistemarvi il più comodamente possibile al vostro posto, con la precisa sensazione di avere la faccia sporca e gonfia per il sonno continuamente interrotto della notte precedente, le gengive infiammate per le troppe sigarette e cercate di appisolarvi ancora, ma la peluria del velluto azzurro dello schienale vi fa il solletico al collo, e tornate ancora una volta a raddrizzarvi e, incrociando le gambe, guardate, con espressione insonnolita, il venditore di chincaglierie di Allentown, Pennsylvania, che ieri sera vi ha parlato della sua passione per i modelli di treni, vi ha raccontato la barzelletta delle due studentesse all’Hotel Astor, e adesso, il viso grigio della barba di un giorno, se ne sta tranquillamente rilassato, immobile nel sonno, il respiro che gli esce calmo e regolare dalle labbra appena socchiuse. O magari, voltando appena la testa, guardate i pini che vi sfilano accanto a sessanta miglia all’ora, gli alberi, verdi e insonnoliti, uno accanto all’altro o, per terra, il tappeto di aghi color scuro chiazzati dalla luce mattutina fino a quando la bianca nuvola di fumo della locomotiva viene ad appoggiarsi, turbinando, contro il finestrino, simile ad una sciarpa sfilacciata, e cancella il paesaggio.
Ora il sole si è alzato, e si può vedere la nebbia che si leva dai campi e, nel mezzo, le solitarie capanne con il sottile filo di fumo che turbina su dai comignoli sbiancati a calce, l’incerto riflesso del fuoco attraverso una porta aperta e, a un passaggio a livello, la fuggevole visione di un negro con un carro di fieno e un mulo dalle orecchie basse: il negro ha la bocca spalancata che mette in rilievo le gengive rosa, e guarda il treno che passa rapido, una mano color caffelatte mezzo sollevata in aria, come se fosse in preda a catalessi, fin quando una nuvola di fumo non nasconde anche lui alla vista.
Il venditore di chincaglierie si muove, guarda insonnolito fuori dal finestrino e brontola: «Dove siamo?», e voi rispondete: «Non molto lontano da Port Warwick, spero», e, appena quello si volta dall’altra parte per ricominciare a dormire, prendete a sfogliare una copia del «Times-Dispatch» che avete comperato un’ora fa da uno strillone, e non avete letto e non leggerete mai perché avete altro per la testa; tornate invece a fissare ancora una volta il panorama della tarda estate, la lenta, malinconica bellezza dei ruscelli che serpeggiano fra paludi piene di piccoli e guizzanti rumori, che scintillano nel meriggio, immerse nel silenzio, con l’unica eccezione di un fischio lontano e del rombo distante delle rotaie. E spesso, quando il treno supera una di quelle piccole stazioni lungo le strade di tronchi che si chiamano Apex o Jewel, un paio di negri sono intenti nel bosco a segare, e quando sentono il fischio della locomotiva uno di loro si drizza, si asciuga le gocce di sudore che gli imperlano la fronte scura, come tante minuscole bollicine, e dice: «Accidenti, ecco il treno di Richmond», e l’altro risponde: «No, è quello di Port Warwick», e allora il primo replica ridendo: «Oh, certo è una città di puttane!», e tutti e due ridono mentre la sega ricomincia a mordere il legno e il sole incendia il frusciante e risuonante silenzio dell’aria.
Port Warwick è una città di cantieri navali, e le case degli operai cominciano là dove cessano le paludi, piccoli gruppi di villette di legno che spuntano dai boschi come tanti funghi velenosi. In questo momento gli uomini si stanno recando al lavoro, e le macchine avanzano lentamente verso est lungo la nazionale superando altri gruppi di case che, sorgendo improvvisamente dalla desolazione della palude, si appoggiano al muro dei boschi; nei minuscoli cortili sul retro le donne stanno appendendo i panni ad asciugare, e voltano lentamente i visi pallidi verso il treno che passa. Il treno rallenta, e il venditore si sveglia sbadigliando a ripetizione, perplesso, vi chiede a prestito il giornale e, quando tornate a guardare fuori dal finestrino, il deserto è scomparso, state passando fra case di periferia, strade grigie e anonime, insegne di grandi magazzini; poi, ecco lo scalo merci e, alla fine, la lenta e cigolante fermata lungo il marciapiede della stazione, dove termina la linea, perché, poco oltre, c’è la baia larga cinque miglia, di un verde cupo e salmastro.
Vi alzate e salutate il venditore, che deve attraversare la baia con il traghetto per continuare il suo viaggio, prendete la valigia dalla reticella e scendete sulla banchina della stazione dove l’odore dell’acqua vi sembra qualcosa di pulito e fresco dopo il tiepido fetore della carrozza; una trentina di metri più avanti la vostra ragazza o i vostri amici vi aspettano sorridendo – «Oh, eccolo, finalmente!» – e mentre vi dirigete verso di loro avete già dimenticato il venditore di chincaglierie e il viaggio. La giornata promette di essere maledettamente calda.
Alle undici di mattina di un giorno feriale dell’agosto 1945, uno scintillante carro funebre nero, dal motore così silenzioso da dare l’idea di non esistere, si fermò lungo il marciapiede della stazione di Port Warwick. Lo seguiva quella che, nell’industria funeraria, viene comunemente chiamata una “limousine”: una Packard anch’essa lucidissima. Il conducente della limousine, Llewellyn Casper, un individuo magro e occhialuto che portava guanti color grigio topo, aveva il viso atteggiato a un’espressione di pronta e sollecita simpatia. Era un viso dall’aria familiare, punteggiato di efelidi, con gli occhi azzurri e assorti, comuni a quasi tutti coloro che, come lui, avevano i capelli di un rosso acceso. Scese sulla banchina ed aprì, con gesto lento e solenne, la portiera posteriore, dando la precisa impressione di un tranquillo e vigile decoro: era un uomo, insomma, al quale in un giorno come quello si potevano affidare a cuor leggero quelle tristi mansioni che la morte di qualcuno in famiglia comporta.
Piegandosi verso il sedile posteriore, mormorò: «Manca ancora un quarto d’ora all’arrivo del treno, signor Loftis. Vuole aspettare in stazione?».
Dal sedile posteriore ecco emergere Milton Loftis seguito da una donna, Dolly Bonner, e da una vecchia negra, Ella Swan, che indossava un abito di seta nero con collo e polsini di pizzo bianchi.
«Credo che aspetteremo sul marciapiede» disse Loftis.
«Benissimo, signore. Torno subito. Oh, Barclay!» E Casper si diresse con passo rapido e silenzioso verso il suo aiutante, un giovane pallido con un vestito nero un po’ troppo grande che, chino sul cofano del carro funebre, stava esaminando il motore fumante.
Gli altri tre raggiunsero in silenzio l’ombra della tettoia dove c’erano già alcune persone in attesa del treno. Chissà dove, più avanti, un getto di vapore faceva echeggiare un sibilo acuto e incessante. Sopra la tettoia il cielo, limpidissimo e senza una nuvola, era di un azzurro intenso, di quell’azzurro che promette caldo ed una attività vaga e languida per tutta la giornata. L’aria, già umida, aveva quel sentore salato, caratteristico delle coste del Sud, un odore salmastro di creosoto, catrame e pesce, con una punta di bruciaticcio, come di qualcosa che frigge sul fornello. Di fronte alla banchina, separata da essa da una ventina di metri di acqua chiazzata di grasso, una nave da carico era attraccata al molo. Nella stiva, un gruppo di scaricatori aveva iniziato il trasporto di un carico di bauxite. Dal molo giungeva lo sferragliare di una gru elettrica accompagnato dall’odore caldo del metallo rovente. E, dalle viscere della nave, giungeva la voce di uno scaricatore, debole e sepolcrale come l’eco in una caverna: «Avanti!», e subito cominciò a levarsi una spessa nuvola di polvere che, dopo aver indugiato un momento in aria, prese a posarsi sul marciapiede, ricoprendo in breve tutto di un sottilissimo strato che, al minimo tocco, scricchiolava con un suono appena percettibile. Quasi tutti coloro che stavano aspettando andarono a rifugiarsi nell’edificio della stazione, spazzolandosi energicamente gli abiti con le mani, ma Loftis e le due donne attesero pazientemente accanto ai binari mentre quella specie di nebbia solida si posava in silenzio, si infiltrava nei loro vestiti, ricopriva di una maschera polverosa il viso della vecchia negra.
«...e non ha voluto venire» stava dicendo Loftis. «Non ha voluto, assolutamente. L’ho pregata, l’ho supplicata. “Helen,” le ho detto “il semplice decoro impone che tu venga. Oggi almeno” ho detto. “Non capisci,” ho detto “che è nostra figlia, nostra figlia, non soltanto mia. Come puoi immaginare che sopporti...,” ho detto “come puoi semplicemente immaginare che...”»
Nella sua voce si faceva sempre più marcata una nota di dolore intenso, frenetico, e le due donne, quasi obbedendo al medesimo impulso, gli batterono una mano su un braccio e presero assieme a sussurrare con un accento di tenerezza. «Via, adesso non si metta a...» cominciò Ella, mentre Dolly diceva: «Milton, mio caro, devi essere coraggioso».
«Milton, mio caro,» continuò poi, a bassa voce «credi proprio che io debba essere qui? Desidero rimanerti vicina, certo. Ma Helen e tutti, e...» Era una donna sulla quarantina, vestita di nero, e i suoi occhi avevano un’espressione grave.
«Non so» rispose, in tono spento.
«Che cosa? Che cosa non va, caro?»
Questa volta non le rispose. Non l’aveva sentita, e poi era troppo concentrato nel suo sconvolgente dolore. Il giorno prima era stato felice, ma questo dolore, che si era abbattuto su di lui la sera precedente, sembrava averlo annientato al di là di ogni speranza, perché, per la prima volta in vita sua, non era capace di dimenticare il proprio cruccio, di sbarazzarsene come ci si sbarazza di una strana e fastidiosa crisalide, di accantonarlo come “una di quelle cose che capitano”. Il suo viso era sfatto dal dolore, e, mentre fissava l’acqua, i suoi occhi avevano un’espressione sbalordita, quasi vedesse per la prima volta una scena del genere. Era sui cinquantacinque anni, e si capiva ancora che in gioventù doveva essere stato bello ma, anche se tracce di quella sua antica bellezza si notavano ancora, il viso si era atteggiato a una fiacca e trascurata disperazione: i lineamenti di un giovane deformati da una flaccidità malaticcia, la pelle ora piena di pori e rubizza sulle ossa perfettamente disegnate. Nei capelli, una ciocca grigia che c’era stata fin dall’infanzia e che, invece di imbruttirlo, aveva aggiunto una specie di fascino al suo aspetto, aveva fatto da punto focale per gli sguardi ammirati di coloro che non lo conoscevano. Era stato sempre molto orgoglioso di questa ciocca, e proprio per questo portava ben di rado il cappello.
Ella Swan disse: «Il treno sarà qui presto. Peyton arriva con il treno delle undici e un quarto. Povero agnellino mio!». Prese a singhiozzare adagio in un enorme fazzoletto di pizzo. Aveva un viso vecchio e grinzoso come quello di una scimmia anziana e, mentre piangeva, sollevava gli occhi umidi al di sopra del bordo del fazzoletto e si guardava attorno.
«Ssst!» bisbigliò Dolly. Appoggiò una mano su un braccio di Ella. «Via, Ella! Non pianga, adesso!»
La polvere calava più fitta che mai, avvolgendo la banchina di una specie di nebbia; giù, lungo i binari, due uomini in berretto rosso che portavano i bagagli dalla stazione, camminando pesantemente, scomparvero come fantasmi, e Loftis, che li stava osservando, pensò: Non ci devo riflettere sopra tanto. Cercherò di concentrarmi invece sull’acqua. Sulla nave, una figura solitaria, color rosso mattone, che lavorava a un paranco, si precipitò su una passerella e gridò giù nella stiva: «Adagio!». Forse, si disse, se solo penso a questo secondo, a questo momento, il treno non arriverà mai. Pensa all’acqua, pensa all’acqua, adesso. Ma sapeva benissimo di essere troppo vecchio, troppo stanco per i paradossi, sapeva che non poteva evadere dal presente, che il treno sarebbe arrivato, dopotutto, portando con sé la prova definitiva del destino e delle circostanze – parole che in vita sua non aveva mai compreso perfettamente, dato che era episcopale, almeno di nome, e poco portato per indole a meditare a lungo su concetti astratti. Il treno sarebbe arrivato, recando con sé una prova di tutti i suoi errori e di tutto il suo amore – perché egli amava la figlia più di ogni altra cosa – e l’idea che gli balenò improvvisa – quella di accoglierla di lì a poco, silenziosa e invisibile, in una bara – lo riempì di orrore. Il treno, pensò, è ora alla periferia della città, sta attraversando, sferragliando in maniera spaventosa, l’ultimo torrente con le capanne dei negri sulla riva.
«Oh, mio Dio!» disse, piano.
Ella Swan voltò il viso verso di lui. Tamponandosi gli occhi senza premere troppo disse: «Non si preoccupi, signor Loftis. Ci occuperemo di tutto io e la signora Bonner». Poi ricominciò a piangere. «Signore Iddio, dolce Gesù proteggeteci!» gemette.
«Ssst, Ella!» fece Dolly.
Abbattuto, spaventato, egli voltò la testa e fissò l’acqua, tendendo l’orecchio. Non ho intenzione di convincerti, aveva detto suo padre – nella luce incerta di un pomeriggio di marzo, trent’anni addietro, prima che la casa fosse definitivamente condannata, ma non molto prima: quando anche il passo più leggero sui gradini della scala faceva scricchiolare in maniera lamentosa il legno delle intercapedini e delle travi, per ricordare non solo il rapido invecchiare dell’edificio, ma anche la scomparsa di un’epoca più bella, più tranquilla –, non ho intenzione di convincerti solo con consigli paterni che tu, con la tua testarda concezione dei doveri filiali, ignorerai in ogni modo; spero solo che tu voglia dar retta agli ammonimenti di chi ha visto tanta acqua passare sotto i ponti, di chi, devo ammetterlo, ha conosciuto le molte e irresistibili tentazioni della carne, e rinunci, magari fino a un certo punto, a un sistema di vita che, sia pure considerato con la massima indulgenza, può portare solamente al dolore e forse a una rovina completa. Sono un vecchio, ormai...
Così suo padre aveva chissà come capito che la sua giovinezza avrebbe finito per tradirlo, anche se non aveva potuto prevedere la catastrofe finale – il figlio, ormai di mezza età e un po’ flaccido che attendeva lì, in piedi, il simbolo del proprio destino – più di quanto avesse saputo prevedere che un’altra e più crudele guerra avrebbe livellato la terra o che, molto tempo dopo la sua morte, i Democratici avrebbero incredibilmente avuto il sopravvento, forse per sempre. Suo padre. Nient’altro che un’ombra. Lo invase una profonda pietà di se stesso. Si sentiva ingannato, sconfitto, e l’enormità del suo dolore gli sembrava troppo grande da sopportare.
Non c’è soltanto questo, papà. C’è altro. La vita tende verso un momento. Non soltanto la carne. Né poeta né ladro, non ho mai potuto esercitare il mio libero arbitrio.
E poi... Guardò la nave, la polvere, tre gabbiani che calavano verso l’acqua muovendo appena le ali candide. E poi... C’era la sua giovinezza. Si dimentica la propria giovinezza, quella che, imprudente, si drizza a tradirti. È la propria giovinezza, dimenticata da anni, che si finisce per rimpiangere, in ultima analisi... una vita cominciata più di cinquanta anni prima in una casa di Richmond ingombra come un museo, dove il suo primo ricordo era quello di una stanza piena di sole, piena di sussurri tristi e soffocati di un pomeriggio di domenica, i sussurri di una sfilata giù in strada, accompagnata dalla musica lontana di una fanfara, vivace e malinconica a un tempo, e la voce di sua madre che bisbigliava: «È musica, Milton caro... musica... musica... musica... ascolta, caro». Il sole entrava di traverso dalle persiane che picchiettavano dolcemente, e in alto, infinitamente più in alto, gli era sembrato, incombeva il viso vuoto di sua madre, invisibile e assolutamente sconosciuto, perché era morta prima che lui potesse imprimersi nella coscienza quei lineamenti che suo padre gli aveva descritto più tardi come regolari e bellissimi. C’erano anche passeggiate al parco con suo padre, e l’odore umido di felci dei boschi, e il suo migliore amico, un ragazzo, Charley Quinn, che aveva un viso pallido, le guance incavate per la fame e sulla fronte una voglia simile a un fiore dai petali scuri, e che era rimasto ucciso alla Somme. Figlio mio...
Il tuo primo dovere, figlio mio, ricordalo, è sempre verso te stesso (faceva l’avvocato, apparteneva a una dinastia di avvocati e, fino alla sua morte, nel 1920, aveva portato colletti duri e baffi alla Edoardo VII); non ho intenzione di abusare del tuo buon senso, dote che, credo, possiedi in ab...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di William Styron
  3. Un letto di tenebre
  4. Padri, figli, figlie di Gigliola Nocera
  5. Nota biografica
  6. Bibliografia
  7. UN LETTO DI TENEBRE
  8. Copyright